Si sono tirate in ballo le più svariate reference per parlare di "Saltburn", secondo lungometraggio della regista e sceneggiatrice Emerald Fennell. Per chi scrive, il legame più immediato è però con la serie "La caduta della casa degli Usher" di Mike Flanagan, uscita lo scorso ottobre su Netflix. Qui troviamo una cornice assai frequente nel recente panorama seriale (una famiglia tanto ricca quanto disfunzionale, le case farmaceutiche) al cui interno è inserito un mix di rimandi e citazioni alle opere di Edgar Allan Poe in un’ottica di compilation per i social, più che di lavoro filologico sul materiale di partenza. Espressione insomma della serialità al tempo di TikTok, come "Saltburn" lo è del cinema: a cosa servono infatti i riferimenti visivi a "Il servo" e a "Barry Lindon", quelli narrativi a "Il talento di Mr. Ripley", se non come sfoggio autocelebrativo, orpello fatiscente di un’opera che, nel suo vuoto pneumatico di contenuti, si adagia a un filone (l’invasione domestica, la satira ai ceti benestanti) che, da "Parasite" in giù, è ormai diffusissimo? Le soluzioni registiche, mai originali, creano un senso per la storia o non vanno oltre la citazione fine a se stessa, la strizzata d’occhio allo spettatore cinefilo, che si diverte nel riconoscerle, e a quello profano, che non vede l’ora di leggere l’articolo "Ecco le 10 influenze di Saltburn" alla fine della visione? Propendiamo per la seconda opzione, forse lo si è intuito.
Il cortocircuito alla base di "Saltburn" è, in sostanza, quello che animava anche "Una donna promettente", primo lungo di Fennell. Ad accomunare i due lavori vi è soprattutto l’idea di una provocazione manifesta che a conti fatti si traduce in un nulla di fatto e finisce per diventare il suo opposto. Ne è un segnale soprattutto la tendenza della regista a non calcare la mano sulle scene più esplicite. Nel film con Carey Mulligan la violenza era relegata al fuori campo, nell’opera in questione i momenti più forti (diventati presto virali, non a caso), sono appena accennati (le scene tra il protagonista e Venetia) o inquadrati in campo lungo (la masturbazione sulla tomba). La resa visiva di questi passaggi non punta mai sulla crudezza, ma sulla forte estetizzazione, che ne riduce la carica disturbante, di cui l’operazione si fa vanto. Questo è evidente soprattutto nelle scene ambientate al college: la macchina da presa si stringe sui volti dei personaggi, mentre abbondano ralenti, saturazione fotografica e musica pop sparata a palla. Elementi che forniscono una patina accattivante al film, tradendone la dimensione cool. Quello che una volta si sarebbe definito dispregiativamente estetica da videoclip e che oggi possiamo chiamare appunto "estetica da TikTok". A questo si aggiunge il fatto che Fennell non adotta uno sguardo interno ai giovani che racconta (come accaduto nella serie "Euphoria" a cui da più parti "Saltburn" è stato accostato), ma sempre esterno, come a volerli giudicare. Nelle scene al pub e in discoteca, il senso di ineluttabilità tragica che trasmette la musica classica e l’enfasi sullo sballo e sul linguaggio scurrile dei personaggi rivela un senso di disprezzo nel ritrarre un microcosmo di feste, alcol e droga.
I problemi di "Saltburn" si riscontrano poi anche a livello narrativo: il suo impianto è costituito da colpi di scena e svolte con l’unico scopo di depistare lo spettatore e (apparentemente) scioccarlo. A Fennell non interessa nulla dei propri protagonisti, ridotti a funzione (quando va bene, vedi il Felix di Jacob Elordi) o a macchietta (quando va male, il sir James di Richard E. Grant). Il passaggio chiave è un dialogo tra Elspeth (Rosamund Pike) e Oliver (Barry Keoghan), in cui la prima dice di non capire la figlia Venetia (Alison Oliver) né l’amica Pamela (Carey Mulligan). L’obiettivo è ritrarla come un personaggio senza alcun contatto con la realtà, e il fatto che dalle sue parole emerga una possibile bisessualità passa inosservato. Così come l’attrazione del protagonista verso Felix non è mai approfondita. In "Sitcom", François Ozon partiva dall’archetipo pasolinano di "Teorema" per compiere un'acuta satira sulla famiglia borghese, che sotto la confezione ludica rivelava istanze identitarie e sessuali. "Saltburn" invece non parla di desiderio, passione o perversione: al suo centro c’è solo la satira verso i ricchi, una debole impalcatura che deve reggere tutto il film come un dio Atlante dalle gambe fragilissime.
In questo modo, dunque, si capisce anche come la difesa secondo cui "Saltburn" sia un film consapevolmente di superficie per riflettere il (e sul) mondo di oggi, dominato dalle apparenze e dalla virtualità dei social, non regga. Il suo senso sta proprio nella sua ricercata assenza di ambiguità: Fennell ammicca al suo pubblico e non lo provoca come vorrebbe fargli credere, lo mette in una posizione confortante piuttosto che di disagio, realizza un’opera moralista che non parla di niente, se non inconsapevolmente dello stato attuale di un (certo) cinema. Ma questo non è un valore, anzi.
cast:
Barry Keoghan, Jacob Elordi, Rosamund Pike, Richard E. Grant, Carey Mulligan
regia:
Emerald Fennell
titolo originale:
Saltburn
distribuzione:
Amazon Prime Video
durata:
133'
produzione:
LuckyChap Entertainment, MRC Film
sceneggiatura:
Emerald Fennell
fotografia:
Linus Sandgren
scenografie:
Suzie Davies
montaggio:
Victoria Boydell
costumi:
Sophie Canale
musiche:
Anthony Willis