Con "Il servo", presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia nel 1962, l'esiliato Joseph Losey dà sfogo a quella che in molti definiscono la seconda anima del suo cinema ed è la prima volta che lo fa con piena maturità di stile e di idee. L'autore che negli anni '40 aveva denunciato con indignazione le conseguenze di un ordine sociale sopraffattore (la guerra o il razzismo ne "Il ragazzo dai capelli verdi" e "Linciaggio") problematizza il suo «idéalisme puéril» già a partire dagli ultimi film del periodo americano, compreso il remake del langhiano "
M", e giunge a una concezione più radicale del male, in base alla quale la corruzione riguarda soprattutto il soggetto e le interazioni tra gli individui. Se, però, la distinzione di un Losey "politico" da un altro "esistenzialista" può non bastare a racchiudere le visioni di un cineasta tanto consapevole e compiuto quanto complesso e contraddittorio, da questa dicotomia si dovrà pur partire per parlare de "Il servo".
ServilismoLa storia del giovane aristocratico (Tony/James Fox) che assume un cameriere tuttofare (Barrett/Dirk Bogarde) da cui si lascia lentamente corrompere e manipolare fino al totale rovesciamento della dialettica servo-padrone ha fatto pensare a una sorta di marxiano «teorema di dimostrazione sociale»
[1]. A fronte di una simile lettura, confortata dalle simpatie comuniste che condannarono Losey ad emigrare in Europa, le parole dello stesso regista sono quanto mai utili a raddrizzare il tiro: «questo è un film su coloro per i quali il servilismo è un modo di vivere. Poteva intitolarsi
Servilismo, di tutti i generi»
[2].
Il ribaltamento dei ruoli tra Tony e Barrett non ha l'aspetto di una vendetta di classe, né gli esiti di una inversione catartica
[3], bensì si configura come una gelida lezione sull'animo umano applicata con precisione chirurgica ai meccanismi interpersonali. E l'affondo del bisturi viene esercitato, infatti, su una dinamica che appartiene alla sfera interiore della psicologia, anziché a quella esteriore della vita associata. Con la messa in quadro dei protagonisti, Losey è abilissimo a suggerire lungo tutta la durata della pellicola quanto il
gioco delle parti da essi sostenuto abbia apparenze fallaci: si pensi ai tanti specchi deformanti, al calice di brandy che si sovrappone all'immagine di Barrett o alla sfera di vetro attraverso cui Tony osserva il party finale. I ruoli, ovvero le
forme (per continuare a usare una terminologia pirandelliana), si rivelano nient'altro che un abito ingannevole. La stessa sorella del cameriere ne è in verità la fidanzata e il fulvo rampollo prova disgusto per un incesto che non è altro che un rapporto prematrimoniale. Ciò non implica, tuttavia, un
servilismo illusorio, quanto piuttosto uno immateriale, se è vero che nel "Servo" esiste poca realtà esterna, come ammesso dall'autore.
Erotìa
A rendere questo film il primo capitolo di una trilogia che proseguirà con "L'incidente" e si chiuderà con "Messaggero d'amore" è in parte la presenza nevralgica dell'elemento erotico: difficile tenere fuori Freud e la psicoanalisi quando il trittico pinteriano racconta soprattutto disvelamenti che passano attraverso la sessualità.
La massima vulnerabilità, per Tony come per il professore oxfordiano de "L'incidente" e i personaggi di "Messaggero d'amore", risiede nella repressione, che mina la saldezza provvisoria della
forma e mette in crisi lo statuto identitario per portarne alla luce le derive patologiche. All'inizio il giovane rispetta alla perfezione lo stereotipo dell'aristocratico annoiato e la sua adesione al conformismo borghese attiene anche alla sfera amorosa, dal momento che è fidanzato con l'altrettanto ricca Susan. Poi arriva Barrett, che in una scena interrompe i due nella loro intimità, e con lui Vera, la finta sorella, che insidia Tony con la sua sensualità smaliziata, contrapposta a quella altera di Susan. Il sesso reca scompiglio nella coppia normalizzata, come nel precedente "Eva", e così l'io del padrone, che dalla ritualità borghese ricavava la sua sana unità, si frantuma e si ammala (andrebbe citato Svevo questa volta). Le gambe di Vera sul tavolo della cucina - altre le aveva prima spiate la macchina da presa insieme al servo - servono a risvegliare una natura istintuale che finirà poi per mutarsi in voluttà masochistica, se non in latente omosessualità. E che si tratti di uno scatenamento del perturbante lo conferma proprio lo sviluppo tensivo sonoro della sequenza in cucina (il rubinetto che gocciola e lo squillo del telefono).
Un «quanto di erotìa» percorre, in effetti, anche il secondo tempo del
jeu de massacre ordito dal subdolo cameriere, dove il rapporto tra i due sfocia in una convivenza che somiglia a quella di coniugi isterici che alternano litigi e riappacificazioni, di compagni di gioco infantili e di amici commilitoni, come esplicitato in uno dei dialoghi: Barrett si è sostituito, in un certo senso, sia a Susan che alla "sorella" neutralizzando il desiderio erotico di Tony.
Claustro
Losey era noto per l'attenzione quasi maniacale che riservava all'aspetto scenografico, agli oggetti e alla loro disposizione figurativa nell'inquadratura. E per "Il Servo", che è in sostanza un film d'interni, questa ossessione risulta decisiva, non solo per ragioni estetiche: la casa all'interno della quale si svolgono le vicende abita i protagonisti più di quanto questi non facciano con essa e diventa, dunque, un luogo tematicamente interiorizzato. Ciò vale innanzitutto se assunto come cronotopo del recinto e della ineluttabilità, poiché al chiuso della dimensione spaziale corrisponde strettamente il ciclico di quella temporale.
Finché Tony indossa la
forma borghese e ne osserva le convenzioni nella quotidianità, l'azione si svolge tra l'abitazione londinese e l'esterno (ristoranti, club ecc.), ma quando comincia il denudamento le uscite si fanno più rare, per poi estinguersi. La facciata georgiana del vecchio edificio inghiotte gradualmente i suoi inquilini e li ingabbia, a rimarcare una condizione di prigionia che caratterizza i destini individuali prima ancora che le relazioni intersoggettive, ma sempre sul piano etico-psichico. Entro le pareti di una dimora asfittica il dramma non può che consumarsi senza alcuna via di uscita, come accadrà con il salotto di "Una romantica donna inglese", il murato ambiente di "Casa di bambola" o il vagone piombato di "Mr Klein". Persino "Caccia sadica", tutto dominato dagli spazi aperti di una landa desolata, trasmetterà il medesimo senso di claustrofobia del "Servo", dovuto all'assenza di spiragli e vie di fuga
[4].
Al campo semantico della chiusura è associato in primo luogo quello della circolarità, che ritroviamo ne "L'incidente" o "Don Giovanni". Non a caso il concetto di colpa, pure centrale nella poetica loseyana, viene qui declinato in termini di «contagio»
[5]: in un recinto, del resto, ogni virus non può che diffondersi in maniera caotica e diventa impossibile distinguere chi viene infettato da chi infetta. Non è semplicemente Barrett a corrompere Tony e non è dunque Tony a far di Barrett il colpevole, bensì il loro relazionarsi a fungere da rivelazione. Il servo, soggiogando il padrone, gli mostra di quanta meschinità sia capace e il giovane, a sua volta, riducendosi a una larva, mostra all'altro quanta debolezza alberghi in lui, ma questo significa che un comune
errore precede il reciproco manifestarsi, coincidente in entrambi i casi con l'abbandono della
forma. Viene in mente la tragedia classica greca, il sacrificio, il destino (interiore) e la colpa appunto. Barrett, durante un inquietante nascondino, sussurra minaccioso a Tony «hai la coscienza sporca» e poco dopo organizza il mortuario party-orgia conclusivo: i due si sono costruiti una trappola e l'esecuzione è soltanto rinviata, forse già avvenuta, ma di sicuro inutile come lo schiaffo disperato di Susan al cameriere. La porta si richiude.
Note
[1] M. Porro,
Joseph Losey, Milano, Moizzi editore, 1978, p. 9.
[2] J. Losey,
È la storia di Faust, in "Cinestudio", n. 18, 1967.
[3] Proprio alla catarsi si ribellava la poetica cinematografica di Losey: «sono sempre assolutamente contrario alla catarsi con cui, solitamente si conclude ogni narrazione, ogni dramma. Per me la catarsi, la purificazione diventa una specie di confessione, una reazione banalmente emotiva che ti libera da qualcosa, ma ti lascia del tutto svuotato, pacificato, innocente. Io voglio che lo spettatore, al contrario, venga provocato, si lasci invadere dalla problematica del film, e, una volta uscito dalla sala, continui a pensarci» (
Conversazione con Losey, in J. Losey e F. Solinas,
Mr Klein, Torino, Einaudi, 1977, p. 161).
[4] Utile ricordare, in proposito, una notazione di Guido Fink, riferita generalmente al cinema di Losey: «la sua macchina da presa, sovente accusata di "barocchismi deliranti" e in realtà fedelissima ai dettami brechtiani contro il "movimento inutile", si muove insieme agli attori come entro un palcoscenico soffocante e ingombro, cercando una via d'uscita che non vuole veramente trovare» (
Alla ricerca del «tragema», in
Losey: il gioco dei rimandi, "Cinema e Cinema", n. 12, 1977, p. 24). Nel "Servo" si verifica esattamente questa pseudo-ricerca quando la cinepresa, dopo aver zoomato su Tony che si strugge nel letto vuoto di Vera, si sposta verso la piccola finestra nell'angolo alto della stanza.
[5] Cfr. G. Fink,
Alla ricerca del «tragema», in
Losey: il gioco dei rimandi, "Cinema e Cinema", n. 12, 1977.