Si ride di gusto, in "Parasite", ma si ride amarissimo. Il film è intessuto di sequenze strepitose, molte delle quali (e sono tante) vantano un climax drammaturgico inesorabile, irresistibili meccanismi a orologeria. Il film è diretto con impeccabile perizia, tutto il registro linguistico scelto da Bong è di alto livello, dalla composizione delle inquadrature alla geometria dei carrelli, dal montaggio interno alle inquadrature (anche i quadri sono costruiti con precisione geometrica, tra campo e fuoricampo, primo piano e secondo piano). Da segnalare poi un memorabile contrappunto musicale, spesso in antitesi all'intonazione delle scene: si va da Beethoven al pop italiano, con un gusto tale per l'antifrasi da rasentare la genialità di Kubrick in "Arancia Meccanica" (concedeteci il riferimento, non l’accostamento) più che il semplice divertissement postmoderno.
Mai, però, ci è concesso di limitarci alla risata (ne analizziamo le sfumature nello speciale Traiettorie dedicato). Il film approfondisce la riflessione sociopolitica di Bong, che aveva già toccato una vetta in "Snowpiercer", trasportandola dalla distopia alla realtà e radicalizzandone l’assunto di totale pessimismo. In sintesi: il capitalismo è l’unico orizzonte rimasto, esistono due classi sociali contrapposte (ricchi e poveri, semplicemente; improprio adottare terminologie ideologiche quali "borghesi" e "proletari"). La rivoluzione, semplicemente, non è data. Perché esiste solo l’individualismo. Se c’è solidarietà rimasta, è solo tra familiari, parenti stretti - ma anche quella, vale solo sino a un certo punto. I poveri aspirano a una cosa sola: lo status di ricchi.
In "Parasite", da un lato, abbiamo una famiglia di poveri, che vive in un "basso", ambienti angusti dove non arriva il wi-fi, sovraccarichi di cose, sgradevoli a vedersi e praticamente invivibili. Dall’altro, una famiglia di ricchi, con servitù a servizio pieno, una casa disegnata da un architetto di fama, ambienti lussuosi ed enormi dove tutto è bellissimo come su una patinata rivista di design d’interni. La famiglia povera riesce a intrufolarsi in quella ricca, sostituendone man mano con stratagemmi vari tutti i componenti della servitù, in una progressione dove Bong dà fondo a tutti gli espedienti della comicità. Poi gli eventi prendono una piega inaspettata; prendono il sopravvento le sfumature grottesche (marchio di fabbrica di Bong, e più in generale di molto cinema coreano), e gradualmente si scivola nella tragedia. Che rimane però irresistibile, perché grottesca: si continua a ridere, ma con una coscienza sempre maggiore di quanto sia spietato il mondo e nessuno scampi alle conseguenze dilanianti dell’individualismo, che ci vuole l’un contro l’altro armati, "homo homini lupus".
Viene fuori che i poveri non sono i soli parassiti: un colpo di scena rivela tutto un ambiente nuovo, sotterraneo e inaudito. Si apre alla lettera una guerra fra poveri. Che poi è quella che in tutte le società occidentalizzate si è già aperta. Chi sta peggio diventa vittima designata di chi sta appena meno peggio o sa semplicemente darsi da fare, non importa con quali metodi, in una lotta senza esclusione di colpi per un tozzo di pane in più. Lotta che naturalmente non vedrà vincitori.
Il film si fa girandola rutilante in cui un ispiratissimo Bong trasfonde ogni energia in un crescendo devastante, in cui succede di tutto. Dopo aver mantenuto a lungo il film sul piano della commedia, mettendo in scena una ferocia che appariva tanto più estrema quanto più celata sotto la superficie di un piano diabolico che pur tra mille inconvenienti filava liscio, dopo il twist di cui si diceva, Bong non lesina più in efferatezze. E porta in scena un maelstrom che risucchia tutti. Non importa neanche chi sopravvive e chi no, il caso regna sovrano tranne nelle scelte di regia.
Serio candidato a premi importanti qui al Festival di Cannes, "Parasite" è l’altra faccia della medaglia della Palma d’Oro del 2018, "Shoplifters" ("Un affare di famiglia") di Hirokazu Kore'eda. Alla delicata sensibilità di Kore'eda si sostituisce la ferocia di Bong. L'autore giapponese, che non ha tesi politiche, ha fiducia nella solidarietà e nei legami affettivi, mentre Bong suggerisce che la solidarietà (tra parenti) sia solo una comoda maschera dell’istinto di sopravvivenza individuale.
L’ambiguo e atroce finale di "Parasite" è inequivocabile. Tuttavia, al netto delle diverse sensibilità e prospettive dei due cineasti orientali, le dinamiche di fondo della società che essi descrivono sono esattamente le stesse.
cast:
Park So-dam, Choi Woo-sik, Cho Yeo-Jeong, Lee Sun-kyun, Song Kang-ho
regia:
Bong Joon-Ho
titolo originale:
Gisaengchung
distribuzione:
CJ Entertainment
durata:
132'
produzione:
Barunson E&A, CJ Entertainment
sceneggiatura:
Kim Dae-hwan, Bong Joon-ho
fotografia:
Hong Kyung-pyo
montaggio:
Jinmo Yang
costumi:
Choi Se-yeon
musiche:
Jaeil Jung