Bong Joon-ho è uno dei nomi di punta del cinema coreano dell'ultimo quindicennio, un regista indipendente che si è creato il suo spazio anche grazie al successo di pubblico che spesso ha baciato i suoi lavori. "Snowpiercer", presentato fuori concorso all'ottava edizione del festival di Roma, è il primo film di Bong fuori dai patri confini, una co-produzione americana, recitato in inglese e con gran parte del cast anglosassone (ma i mediocri effetti di
computer graphic sono sicuramente coreani). Bong non segue la scia di
Park Chan-wook e di Kim Jee-won che hanno esordito a Hollywood su commissione, rispettivamente con "
Stoker" e con "
The Last Stand", poiché parliamo di un progetto voluto
in primis dal regista, tratto da una serie di fumetti francese, "Le Transperceneige", e da lui adattato per lo schermo e co-sceneggiato.
Cosa succederebbe se sull'Arca di Noè non ci fosse uguaglianza tra tutti gli esseri di Dio, ma si ricreasse in scala una malata suddivisione gerarchica della nostra società? Nel 2014 gli uomini spargono un particolare refrigerante credendo di arrestare il pericoloso scioglimento dei ghiacciai, provocando invece una nuova glaciazione e la quasi estinzione del genere umano. Si salvano i passeggeri di un particolare treno, "l'arca sferragliante" che in un anno fa il giro del mondo, attraversando delle rotaie che collegano i cinque continenti. Nel 2031 il migliaio di persone che abitano il vagone di coda in condizioni di vita miserabili e inique si preparano all'ennesima rivolta: sono brutti, sporchi e cattivi, e non hanno nulla da perdere. L'obiettivo è arrivare al primo vagone, dimora di Wilford, il creatore e custode del sacro treno e del suo motore perpetuo, grazie all'aiuto di un esperto in sicurezza che ha il volto sornione di Song Kang-ho.
Ripensando per un attimo ai rapporti interpersonali della
black comedy "
Barking dogs never bite", oppure al pessimismo col quale rifletteva sull'ineffabile verità dietro l'indagine al centro di "
Memories of Murder" e, ancora, alla disintegrata società coreana basata sulla famiglia patriarcale nell'horror
sci-fi "
The Host" (che è anche uno dei film che ha più incassato nella storia del cinema coreano), infine, alla cecità per amore materno di "
Mother", si palesa chiaramente come la filmografia di Bong Joon-ho sia pervasa da una vena nerissima, un concentrato di cattiveria che serve all'autore per smascherare le contraddizione della società o della forma di aggregazione su cui punta l'occhio della macchina da presa. In "Snowpiercer" tali peculiarità non vengono affatto sminuite, se non per qualche trascurabile reticenza (un controcampo su un braccio frantumato che, scommettiamo, avremmo visto se il film fosse stato girato in Corea): l'estetica della violenza che ci ha affascinato nei migliori talenti sudcoreani, improntata su una visualizzazione frontale dell'azione che non lascia scampo né alla pelle dei personaggi né agli occhi degli spettatori, è rispettata. Anzi, l'impatto con la formula occidentale del
blockbuster, spesso violento ma a basso tasso di emoglobina o dove il sangue è per lo più decorativo, è prepotente e ne sconvolge dall'interno la fisionomia narrativa: si susseguono sanguinosissimi scontri all'arma bianca (coltelli, spranghe, martelli, accette, solo alla fine spuntano le armi da fuoco) che macchiano copiosamente di rosso sia i personaggi che gli ambienti.
Bong si lancia in quello che è un audace pezzo di bravura registica: le variazioni di registro sono molteplici, ma va sottolineata almeno la folle abilità che gli permette di passare con nonchalance da un'efferata sequenza d'azione con i chiaroscuri della fotografia di Hong Kyung-Pyo che tagliano la luce a colpi d'ascia (e con essi i vari personaggi), a una luminosa scena musicale che ricorda da vicino il genio di
Miike Takashi; senza contare il talento nel deformare volti e corpi con la sola insistenza su un dettaglio, nello sfruttare l'ambientazione attraverso fluide carellate che ne spostano i limiti spaziali, spazio che improvvisamente si concentra lungo uno stretto corridoio diventando set delle sequenze più concitate.
La rivoluzione guidata da Curtis ci fa viaggiare attraverso il marcio dell'ultima classe, microsistemi ecosostenibili sottovetro, l'opulento benessere festaiolo dei vagoni di testa: una vera e propria odissea dentro un mondo claustrofobico che pare metaforizzare la molteplicità fisica e psichica dell'essere umano. Bong lambisce, nel finale, le didascalie del
pamphlet, ma servendosi del suo stile grottesco e sopra le righe dissacra il potere (si noti la recitazione istrionica e la dentatura di Tilda Swinton), evidenziandone le storture, senza per questo esaltare i suoi protagonisti, un manipolo di disperati non rappacificati, condannati ormai alla dannazione (basti per loro il racconto di Curtis/Evans nel prefinale, la scena più inquietante e violenta che, difatti, non viene mostrata). Alla fine, dentro il vagone di testa, si palesa finalmente la presenza di un'entità demiurgica che combina il sottotesto metacinematografico a quello politico (in "
Quella casa nel bosco" accadeva quasi il contrario): lo sviluppo degli eventi genera l'interazione fra continenti alla deriva, i quali, messi a macerare sotto un unico tetto, finiscono per saltare in aria. L'apocalisse tanto rimandata svela il vero volto dell'uomo, che è sempre portato alla sua autodistruzione, non importa se mosso da un'insana volontà di controllo e di equilibro o dalla sete di vendetta per le ingiustizie subite. La speranza pare evanescente come la neve al sole.
10/11/2013