Sulla New Wave: Tsui Hark, pioniere e traditore
Tsui Hark nasce Tsui Man-kwong a Saigon, nel 1951, da una famiglia di cinesi d'oltremare (Hoa) e qui cresce; a causa della guerra del Vietnam, a metà degli anni 60, i suoi genitori decidono di trasferirsi a Hong Kong. Compie gli studi universitari negli Stati Uniti d’America e inizia a lavorare a New York, frequentando gli ambienti della controcultura e della contestazione giovanile e partecipando alla realizzazione di documentari sull’imperialismo americano, sulle minoranze etniche e sui problemi relativi ai diritti umani[1]. Tornato a Hong Kong, inizia il suo apprendistato in televisione sotto l'egida della produttrice Selina Chow (che in seguito diverrà una figura politica di spicco).
Nel 1976, un numero della rivista Da Texie ("Close Up" in inglese) annuncia che le tre principali emittenti televisive di Hong Kong (TVB, CTV, RTHK) stanno allevando con entusiasmo dei giovani registi destinati a sostituire i cosiddetti "grandi", ormai incapaci di produrre opere di rilievo[2]. Ancora prima dell'esordio cinematografico di questi nuovi autori, inizia un dibattito critico sull'eventualità di una New Wave nell'allora colonia britannica. Tra il 1978 e il 1982, Alex Cheung, Allen Fong, Tsui Hark, Yim Ho, Ann Hui, Patrick Tam e Kirk Wong, maturati realizzando rivoluzionarie serie tv, compiono la loro transizione al cinema[3]: Tsui Hark gira "The Butterfly Murders" (Dié biàn, 1979) un wuxiapian eccentrico, che alle fantasiose armi di Zhang Che assomma una trama mistery e la fascinazione steampunk. L'opera seconda è "We're going to eat you" (Dì yù wú mén, 1980), una kung-fu comedy all’interno di uno scenario da cannibal movie: il melange bizzarro rivela un’acida satira nei confronti dell’avidità capitalista di Hong Kong (ma che, ambiguamente, può essere rivoltata anche contro il comunismo cinese). "Dangerous Encounters - 1st Kind" (Dì yī lèi xíng wéi xiǎn, 1980) è uno dei lavori più radicali, violenti e influenti della New Wave: un buco nero di nichilismo punk che esplicita la posizione anti-imperialista dell'autore, il quale dipinge una Hong Kong sull'orlo dell'implosione. La censura britannica costringe il regista al rimontaggio, bloccando l’uscita nelle sale che avverrà solo dopo un anno. Firma per la compagnia Cinema City la commedia "All The Wrong Clues (For The Right Solution)" (Gui ma zhi duo xing, 1981), sua prima hit al botteghino che gli permette di realizzare per la Golden Harvest "Zu: Warriors from the Magic Mountain" (Xīn shǔshān jiànxiá, 1983), un ambizioso e costoso progetto in cui fonde il wuxiapian con il fantasy, utilizzando effetti speciali pionieristici per l'industria dell'epoca (assumendo professionisti che avevano lavorato per George Lucas in "Guerre stellari"). È un momento cruciale nella carriera di Tsui Hark, che prima di quel momento era conosciuto come l’autore iconoclasta e arrabbiato di tre film innovativi sul piano del linguaggio e impegnati nel tratteggiare un pessimista commentario sociale. Tsui diventa allora oggetto di una polemica critica ben sintetizzata da David Bordwell[4]: in una versione della storia, la mutazione di Tsui in regista di successo gli ha permesso di completare la riforma dell'industria di Hong Kong, mentre nell'altra ne ha di fatto negato le premesse di rivoluzione artistica, svendendosi al mainstream. "All The Wrong Clues" è la pietra dello scandalo, perché il successo commerciale, dovuto a un amalgama di parodia e stilizzazione da "Looney Tunes" unite al talento peculiare e alla consapevolezza del regista, apre le porte a una nuova epoca in cui Tsui inizia a reinventare forme e generi contribuendo a traghettare il cinema hongkonghese nel postmoderno[5]. Il suo percorso "pone le basi del cinema cinese che verrà", definendo "uno spazio completamente nuovo, che farà di lui non soltanto il rinnovatore del cinema di arti marziali, ma anche la figura chiave nella rinascita dell'industria hongkonghese"[6]. Il 1982 segna senza dubbio una cesura che mette fine alla prima fase della New Wave, tanto che Olivier Assayas, giunto a Hong Kong nel 1984 per un approfondimento dei Cahiers du Cinema sulla New Wave di Hong Kong, riferirà di essere testimone del riflusso[7]. Nel 1984 Tsui fonda insieme alla moglie (oggi ex) Nansun Shi la compagnia Film Workshop che sarà un attore di primo piano durante l'epoca d’oro dell'industria hongkonghese, accrescendo l'appeal globale della sua produzione. Il primo lavoro targato Film Workshop è la commedia screwball "Shanghai Blues" (Shànghǎi zhī yè, 1984), mentre due anni dopo Tsui Hark realizza "Peking Opera Blues" (Dāo mǎ dàn, 1986), "pietra angolare della New Wave"[8] e uno dei film meglio temperati nella sua vasta ed eclettica filmografia. Nello stesso anno il regista idea e produce "A Better Tomorrow" (1986), titolo spartiacque che rilancia la carriera di John Woo e getta le basi per il successo internazionale del noir d'azione made in HK. Nel 1987 esce "Storia di fantasmi cinesi", folle ibrido di wuxiapian, fantastico, melò e ghost story, diretto da Ching Siu-tung, suo assiduo collaboratore e innovativo martial art director, la cui accoglienza trionfale crea un trend e dà vita a una trilogia. Tsui Hark non diventa soltanto il metro di misura per esaminare successi e fallimenti della New Wave, ma si può asserire che "i picchi e le cadute del [suo cinema] sono i picchi e le cadute dell'industria cinematografica di Hong Kong"[9]. Il lavoro del regista è epitome dell’età dell'oro del cinema di Hong Kong, di quella strana utopia realizzata "all'interno di un sistema senza centro e senza gerarchia, dove il verosimile coincide col possibile"[10] o, ancora meglio, dove l'impensabile diviene filmabile.
Un'allegoria postmoderna
"Shanghai Blues" inizia quando la città viene bombardata nel quadro della seconda guerra sino-giapponese, ma lo sviluppo dell'intreccio si svolge otto anni dopo, a conflitto finito: "Crossroads" (1937) di Shen Xiling, un classico dell'epoca di Shanghai, antica capitale del cinema cinese, è il modello esplicito su cui Tsui Hark e lo sceneggiatore Raymond To lavorano consapevolmente a un livello intertestuale, ma il piano ludico-cinefilo incorpora le preoccupazioni politiche del suo autore. Le gag migliori sono basate su equivoci, tempi sbagliati e mancati riconoscimenti da parte dei personaggi, che rimandano la ri-composizione della coppia di protagonisti che avviene sul treno diretto a Hong Kong, alludendo all'ondata migratoria verso la colonia britannica causata dalla guerra civile cinese e dalla rivoluzione comunista di Mao Zedong. Sia in "Shanghai Blues", sia in "Peking Opera Blues" Tsui Hark si rivolge al passato, opportunamente romanzato, per metaforizzare le criticità del presente e l'incertezza del futuro. Nel 1984 viene infatti firmata la Dichiarazione congiunta sino-britannica che ratifica il ritorno di Hong Kong alla Cina, pur restando una Regione amministrativa speciale per 50 anni (fino al 2046) secondo la formula "un paese, due sistemi". Da allora (ma anche prima d'allora) fino al fatidico 1° luglio 1997, il cinema hongkonghese è innervato da ansie crescenti e forti inquietudini che toccano il picco dopo la primavera del 1989 e le scioccanti immagini del massacro di Piazza Tienanmen.
La questione della diaspora, il tema della migrazione e l'eterna divisione cinese si sono presentati frequentemente, in modo più o meno esplicito, nel corso dell'opera di Tsui Hark. Egli, insieme agli altri alfieri della New Wave, ha completato il processo di localizzazione[11] del cinema di Hong Kong, poiché i loro lavori si occupano di umori, problemi, condizionamenti legati alla vita e alla società della città-stato. È stato un fattore determinante non soltanto su un piano di atmosfere ed estetica (è con la New Wave che Hong Kong diventa la grande protagonista del proprio cinema), ma anche per un'identità perennemente ibrida, posta all'intersezione di esperienze e culture diverse. Non è un caso che le storie dei film diretti o prodotti da Tsui Hark abbiano strutture e funzioni simili alle fiabe e siano quindi interpretabili come cammini iniziatici, rites de passage durante i quali i protagonisti maturano una nuova consapevolezza del mondo, completando la propria costruzione identitaria.
Il setting storico di "Peking Opera Blues" è il 1913, due anni dopo la rivoluzione che mise fine alla dinastia imperiale Qing e un anno dopo la proclamazione della Repubblica di Cina presieduta dall'autoritario Yuan Shikai. Il generale Tsao si è insediato a Pechino per fare da intermediario con i rappresentanti di grandi banche straniere che, in cambio di determinati interessi, finanzierebbero i piani del presidente, deciso ad armarsi e conquistare il Sud ponendo fine alla Repubblica e ripristinando la monarchia. Il contratto assume la funzione dell'oggetto magico (o di MacGuffin) da conquistare per smascherare la cospirazione di Yuan Shikai e dei suoi collaboratori. La squadra che deve compiere tale missione è composta da personaggi con desideri, orizzonti ed estrazione sociale differenti, che s'incrociano casualmente nella cornice instabile e caotica del film. Tsao Wan è la figlia del generale tornata in patria dopo aver studiato medicina all'estero, ma segretamente appartenente a una cellula nazionalista-repubblicana che vuole scongiurare il colpo di Stato; Ling Pak Hoi, che si presume sia un guerrigliero del Kuomintang, è incaricato di aiutarla a rubare il prezioso documento; Sheung Hung è una umile suonatrice che durante una protesta dell’esercito ha prima sgraffignato e poi smarrito un tesoretto e per reimpossessarsene si ritrova al teatro dove conosce il resto dei protagonisti; Pat Neil, la figlia del direttore del teatro, vorrebbe ardentemente esibirsi sul palcoscenico nonostante l'ostilità della compagnia e il divieto del padre; Tung Man, un soldato semplice che, presosi una pallottola per salvare la vita a Pak Hoi, viene a sua volta salvato e si lascia coinvolgere nell'intrigo. La Pechino degli anni 10 del Novecento è ricostruita in studio, esattamente come lo era la Shanghai degli anni 40: quest'elemento rende astratta la collocazione storica, in quanto l'ambientazione si svolge soprattutto in interni (il palazzo dove risiedono il generale Tsao e sua figlia, l'edificio "Kwok Ho" che ospita il teatro) mostranti la loro natura di manufatto scenografico, di elegante décor che accoglie i costumi sgargianti e il trucco evidente (capigliature, baffi e barbe finte). Tale soluzione comprende sia la teatralizzazione dello spazio filmico che si riflette nell'opera pechinese (autoriflessività), sia il rimando alla pratica postmoderna del pastiche in cui un passato ormai irraggiungibile viene reso attraverso il linguaggio del simulacro[12] e un tipizzato immaginario cinematografico (intertestualità). Il fondale storico su cui agiscono i personaggi sottolinea la volontà allegorica di Tsui Hark: come "Shanghai Blues", anche "Peking Opera Blues" è leggibile come nostalgia film che sottintende la fine dell'innocenza e il ritorno al dilemma della migrazione e della diaspora (dopo il 1997 si dovrà scappare da Hong Kong?). "Peking Opera Blues" non è comunque imbevuto da sentimenti nostalgici verso un passato idealizzato, è semmai permeato dalla malinconia di una giovinezza che sta per concludersi, poiché i protagonisti sono giovani che devono decidere da che parte schierarsi, rappresentando le forze fresche che per un motivo (ideologico) o per un altro (interessi personali) sposano la causa rivoluzionaria. Se all'inizio sono ragazzi, sul finale, quando si dividono a cavallo ripromettendosi di rincontrarsi in futuro a Pechino - in un iconico fermo-immagine, metafora della diaspora - siamo certi che siano diventati adulti. È palese come il rapporto tra Tsao Wan e il padre generale funga da allegoria per quello tra Hong Kong e Cina: la ragazza torna dal padre dopo anni vissuti nel benessere occidentale e, seppur a malincuore, si adopera per sabotarne il piano; la firma del contratto, che si svolge in gran segreto (alla vista della sola Wan, nascosta fuori), metaforizza la Dichiarazione congiunta sino-britannica avvenuta senza alcuna consultazione popolare.
A partire dagli anni 80 Tsui Hark ha forgiato uno "stile nazionale", un linguaggio filmico postmoderno che ha sfidato le convenzioni sia della tradizione, sia del pubblico occidentale. Per delineare il suo cinema, Stephen Teo ha coniato la definizione di nationalism on speed[13] pienamente espressa nella saga degli anni 90 "Once Upon A Time In China", dedicata all'eroe Wong Fei-hung, e con maggiore nitore in "The Blade" (Dao, 1995), l'idiosincratico rifacimento del classico "Mantieni l'odio per la tua vendetta" (1967) di Zhang Che. In questi lavori Tsui plasma uno jianghu[14] inclusivo e multiculturale in contrapposizione all'omogeneità politica ed etnica della Cina continentale e, in tal senso, la chiave di volta consiste proprio nella velocità che non concerne solo l'inarrestabile ritmo narrativo ma anche la stakanovista macchina produttiva rappresentata da Tsui quale demiurgo. Se tale accelerazione riguarda forse il "millenarismo alla rovescia, in cui le premonizioni del futuro, catastrofiche o redentive, hanno lasciato il posto al senso della fine"[15] di cui parla Frederic Jameson, la velocità diventa l'essenza per osservare il tramonto di un'epoca, raggiungere il punto di rottura (benché mai netto o definitivo) concretizzato dal fatale Handover. "Peking Opera Blues", che ne ha ratificato lo statuto di autore di culto, rappresenta per Tsui Hark il fondamento da cui partire per la costruzione di una nuova identità nazionale, ribelle rispetto alla tradizione e indipendente dalle interferenze straniere: i protagonisti rivoluzionari divengono metonimia di una futura cittadinanza flessibile e aperta alle intersezioni culturali. La conclusione ha però un fondo amaro, è una disincantata constatazione di un processo ancora in fieri e da cui il popolo hongkonghese è stato escluso: infatti, la didascalia originaria informa che, una volta caduto il governo, la monarchia venne ripristinata, costringendo la rivoluzione democratica a ricominciare daccapo.
Sospesi a mezz'aria: stile e forma in "Peking Opera Blues"
Nel fondamentale "Planet Hong Kong", David Bordwell anticipa la straordinaria ricchezza di espedienti e l'abilità artigianale propria del cinema hongkonghese, adoperando come esempi preliminari due sequenze, una d'azione tratta da "A Touch of Zen" di King Hu e un'altra comica da "Peking Opera Blues"[16]. Quest'ultima si svolge quando il padre di Pat Neil entra nella camera da letto della figlia: i suoi amici (tra cui Tung Man e Pak Hoi) rimasti a dormire da lei si nascondono sotto le coperte, in angoli bui, si arrampicano sul tetto con l'intento di restare fuori dal campo visivo del genitore: l'inquadratura lavora sui piani della profondità di campo e l'esattezza di ogni raccordo acuisce l’effetto comico. Lo spunto di Bordwell ci è utile per comprendere come "Peking Opera Blues" funga da prima summa dell’arte di Tsui Hark che integra gli elementi comici a una grammatica dell'azione coreografata dal sodale Ching Siu-tung. L'anima profondamente cantonese di "Peking Opera Blues" abbraccia i cambi di registro, poiché il livello di autoriflessività, che rasenta la parodia, non espunge la violenza e il debito di sangue contratto per l'istanza rivoluzionaria. All'interno della componente umoristica si può rilevare anche la lezione del kung-fu comico, il cui linguaggio è stato codificato principalmente da Sammo Hung, Yuen Woo-ping e Jackie Chan, i quali guardavano alla comicità dei fratelli Marx, di Harold Lloyd e di Buster Keaton. Questo linguaggio riflette le possibilità del corpo nello spazio, la sua elasticità e la sua rapidità nell'interpretarlo per compiere il movimento corretto: il gesto acrobatico diventa pertanto strumento duttile da adoperare sia per suscitare il sorriso, sia per aumentare la tensione. Se la commedia predilige i campi e piani medi (e il primo piano), l'azione alterna campi lunghi a piani stretti secondo quella dialettica, cara a Tsui, tra angoli di ripresa differenti che segmentano la scena per intensificarne gli effetti espressivi. Segno distintivo del regista è la tecnica del crosscutting che alterna l'azione simultanea di personaggi dislocati in spazi differenti o vicini (i vari piani e sale del palazzo e del teatro). Gli stacchi di montaggio anticipano gli spostamenti dei personaggi o introducono nuovi ambienti così da accorciare le distanze in un movimento ininterrotto che ambisce ad azzerare il tempo morto, tendendo "a un continuum emotivo e cinetico che travolge lo spettatore"[17].
Il teatro "Kwok Ho" è il luogo in cui si svolgono le scene action più elaborate: allo stesso modo della locanda nei film di King Hu, l'edificio viene descritto come uno spazio affollato, in cui si incrociano destini individuali e collettivi. Quando il piano per sottrarre al generale la chiave (necessaria per recuperare il documento) viene scoperto dalla polizia politica, gli agenti iniziano a sparare a Pak Hoi, il quale deve schivare le pallottole passando sotto ai tavoli o saltandovi sopra: in base al suo movimento, l'intera platea salta sui tavoli o vi si nasconde sotto per non essere nella traiettoria degli spari. Lo spazio è articolato soprattutto lungo l'asse verticale, nel continuo scambio tra alto e basso, e le coreografie di Ching Siu-tung allestiscono un cinema della leggerezza in cui i balzi e le spinte ascensionali sospendono le leggi della gravità e solo le cadute possono rammentare la gravitas del corpo umano. L'intera inquadratura contenente spesso più di due personaggi diviene dinamica, poiché il movimento coinvolge un microcosmo: in tal senso la maestria di Tsui e Ching si esprime nella costruzione di un ritmo "staccato", su raccordi sul movimento e sull'asse aventi richiami interni e rime cromatiche, ottenendo quello stile "che si potrebbe definire costruttivismo sintetico, in ideale equilibrio tra il costruttivismo analitico di Zhang Che e l'astrazione allusiva di King Hu"[18]. Il finale è un capolavoro di tecnica e messa in scena, la sublimazione stilistica di questo processo. I protagonisti, per non farsi scoprire dalla polizia, recitano insieme alla compagnia del teatro il classico "Gli otto immortali attraversano il mare", saldando definitivamente il mito popolare alla lotta rivoluzionaria: il piano prevede che il gruppo salga dal centro del palco al ballatoio e da lì s’allontani sui tetti. Prevedibilmente vengono scoperti e tutta la compagnia prova a distrarre gli agenti permettendo ai protagonisti di fuggire in un’esplosione di colori brillanti colori e di rapidi movimenti. Sui tetti dove fiocca la neve, i cinque si stringono intorno alla ferita Pat Neil: Tsao Wan guarda le amiche e dice loro addio, rubando la pistola a Pak Hoi e lanciandosi contro i nemici. L'immagine della rivoluzionaria votata al sacrificio è accentuata dal ralenti che non riguarda però gli agenti, le cui inquadrature restano a velocità standard; in tal modo l'utilizzo alternato dello slow-motion drammatizza il gesto. Nel momento in cui Tsao Wan viene colpita dall'odioso capo della polizia, Tsui segmenta l'azione in sette inquadrature dando un saggio plastico di intensificazione formale: il proiettile colpisce la spalla; la pistola cade lontano; lei ancora sospesa; il corpo cade; e tre inquadrature di Wan che rotola, in una successione che interrompe il ralenti imprimendo un'accelerazione improvvisa che restituisce pesantezza tragica al corpo eroico. Le strategie messe a punto dal regista hanno una rispondenza fisica ed emotiva nello spettatore, acuendo la tensione e il piacere della visione. Gli sguardi, la mimica facciale, il linguaggio del corpo e i balzi sospesi a mezz'aria sono fisicamente stilizzati dalla recitazione degli attori che amplificano il movimento della macchina da presa e il contenuto messo in scena in una composizione simil-musicale in crescendo, la cui potenza espressiva aspira alla lezione del "cinema estatico"[19] teorizzato da Sergej M. Ėjzenštejn.
The Heroic Trio
Come molti lavori di Tsui Hark, anche "Peking Opera Blues" crea un proprio mondo autonomo, nondimeno si possono individuare in "Vengeance" (1970) di Zhang Che e in "The Fate of Lee Khan" (1973) di King Hu i referenti più prossimi all’interno del cinema hongkonghese. Il film di Tsui si apre sulla risata, sguardo in macchina, di una "faccia dipinta" (la maschera teatrale Hualian) e i titoli di testa scorrono sugli oggetti di scena dell’Opera di Pechino, così come l’incipit di "Vengeance" avviene su una rappresentazione teatrale che avrà un'eco figurativa e drammatica nel corso della pellicola; in "The Fate of Lee Khan" un gruppo di ribelli in incognito si reca in una locanda per avvicinarsi al temibile generale mongolo Lee Khan e sottrargli una mappa cruciale per la sopravvivenza della resistenza: in entrambe le opere c'è una rievocazione dei "temi dell'illusione, del palcoscenico e della mascherata"[20]. Questi temi si collocano in "Peking Opera Blues" nel contesto preciso dell'opera pechinese innestandosi in quell'itinerario di edificazione identitaria a cui si è accennato. Inoltre, il teatro è anche il luogo in cui si svela l'impulso desiderante che muove i personaggi: lasciando da parte Pak Hoi e Tung Man, che fungono sostanzialmente da ottime spalle, ci concentreremo sul terzetto di protagoniste, interpretate da Cherie Chung (Sheung Hung), Sally Yeh (Pat Neil) e Brigitte Lin (Tsao Wan).
Sheung Hung è il personaggio dalla psicologia più semplice e lineare, somigliante a una maschera della commedia dell'arte preposta a un obiettivo, ossia rincorrere i gioielli nascosti in un portagioie finito rocambolescamente tra gli oggetti di repertorio del teatro. Pur dimostrandosi leale nei confronti dei compagni e pronta a rischiare la vita insieme a loro, Sheung Hung agisce sulla scorta della ghiotta ricompensa offerta da Wan. Tsui Hark ne rileva la cupidigia durante la bagarre di metà film ambientata all'interno del "Kwok Ho": mentre gli altri personaggi provano a salvarsi a suon di pallottole e acrobazie, Sheung Hung cerca con lo sguardo il portagioie, provando a raggiungerlo in tutti i modi (non sapendo essere stato ormai svuotato).
Pat Neil desidera salire sul palco ed esibirsi, ma l'aspirazione è frustrata dal mantenimento della tradizione da parte della compagnia di attori e del padre-direttore la cui proibizione è assoluta: "Se vuoi recitare, la prossima volta reincarnati in un uomo" la sgrida, "Non c’è niente di speciale nel vedere una donna interpretare una femmina" la canzona un attore. Il titolo originale di "Peking Opera Blues" è "Dāo Mǎ Dàn" indicante il personaggio della giovane donna-guerriero, tradizionalmente portato in scena da interpreti di sesso maschile: solo nel corso del XX secolo solcare il palco sarà nuovamente concesso alle donne. In questo caso, il padre e la compagnia rappresentano un’istanza conservatrice che Pat Neil desidera aggirare, esercitandosi, truccandosi e travestendosi di nascosto. La sua è anche un’educazione sentimentale di cui scorgiamo i contorni grazie alla sensibilità e al romanticismo dello sguardo del regista: in una scena preparatoria, Pat Neil va in cerca di Pak Hoi con gli abiti e il trucco di scena e, guardando tra le tende colorate, lo scopre consolare Tsao Wan. La sequenza è cucita tramite il raccordo tra primissimo piano laterale e semisoggettiva della giovane, la cui risonanza emotiva s'intona al contrasto compositivo tra pieni e vuoti, tra colori caldi (rosso) e freddi (lilla); i sentimenti feriti e la solitudine che traspare dal volto dell'attrice sembrano anticipare certi intensi primi piani di Wong Kar-wai.
Tsao Wan è probabilmente il personaggio più complesso e quello che si avvicina di più al concetto di eroe. Il suo compito è arduo in quanto prevede il tradimento del padre, con lei premuroso e amorevole; ciononostante conduce la missione appoggiandosi ai suoi principi, ricorrendo alla violenza e, all'occorrenza, manipolando gli amici. Il suo status è certificato dalla scena in cui viene inquadrata di spalle e incatenata, dopo essere stata violentemente frustata: dalle immagini emerge quel sottile e perverso erotismo, tipico di Zhang Che, con cui lo sguardo di Tsui si sofferma sulle ferite inferte al corpo dell’eroina.
Brigitte Lin, santa patrona dell'ambiguità sessuale, la interpreta in abiti da gentiluomo occidentale provocando un iniziale spaesamento: la sua doppia natura di figlia sincera e di guerriero rivoluzionario la rende sin dall'inizio una dāo mǎ dàn. Sebbene la confusione sessuale appartenga alla tradizione dell'Opera di Pechino, l'indulgere sulla pratica del crossdressing e sull'ambiguità di genere sono comunque pertinenti alla ricerca identitaria e nazionale di Tsui Hark[21], come prova anche il percorso di un altro affascinante personaggio di Brigitte Lin in film scritti e prodotti dal regista, ossia il villain (transgender e bisessuale) Dongfang Bubai/Master Asia di "Swordsman II" che, nel sequel "Swordsman III: The East is Red", confessa di dover ancora trovare se stesso.
Il finale di "Peking Opera Blues" completa e sublima il rovesciamento di genere, affermandosi come sintomatico di un tentativo da parte delle donne di usare "il travestimento come tattica per sostenere la sovversione e la rivoluzione connessa alla costruzione di una nuova struttura del mondo e un nuovo ordine sessuale che sfidino l'egemonica presenza maschile"[22]. Coerentemente, "Peking Opera Blues" ha tre protagoniste che si emancipano adombrando qualsiasi personaggio maschile, secondo quella prospettiva di rinnovamento voluta fortemente da Tsui Hark.
Nell'introduzione al suo "Tsui Hark's Peking Opera Blues", lo studioso Tan See Kam ricorda di averne corretto le bozze mentre si accumulavano le notizie sulla cosiddetta Rivoluzione degli ombrelli del 2014. Visto sotto questa in luce, "Peking Opera Blues" ha la capacità di essere letto nel più ampio contesto delle molteplici battaglie per la democrazia nella Cina moderna, che iniziarono proprio con la Repubblica negli anni 10[23]. Come i grandi capolavori, l'ambientazione spazio-temporale del film si rinnova di epoca in epoca restando attuale.
[1] S. Ho e W.L. Ho, The Swordsman and His Jiang Hu: Tsui Hark and Hong Kong Film, Hong Kong Film Archive, Hong Kong, 2002, p. 175.
[2] Cit. in P.T. Cheuk, Hong Kong New Wave Cinema (1978–2000), Intellect Books, The University of Chicago Press, 2008, pp. 9-10.
[3] Yim Ho è il primo ad esordire con la commedia "The Extra" (1978), contenente pochi elementi di rottura. Ann Hui firma "The Secret" (1979), brillante thriller fantasmatico che rivela le influenze del giallo italiano, ma ancorato alle realtà marginali e segrete di Hong Kong. Alex Cheung dirige "Cops and Robbers" (1979), un poliziesco che si segnala per il cupo realismo urbano e le secche fiammate di violenza, elementi condivisi da "The Club" (1980) di Kirk Wong, sulle faide tra gang. Patrick Tam con il wuxia "The Sword" (1980) si richiama alla lezione formalista di King Hu, mentre Allen Fong con "Father and Son" (1981) si presenta come il neorealista del gruppo.
[4] D. Bordwell, Planet Hong Kong. Popular Cinema and the Art of Entertainment, Irvington Way Institute Press, Madison, Wisconsin, 2011, pp. 84-5.
[5] Cfr. S. Teo, Hong Kong Cinema: The Extra Dimensions, British Film Institute, Londra, 1997, p. 246.
[6] O. Assayas, Prefazione. La sfera di cristallo, in S. Locati e E. Sacchi, Il nuovo cinema di Hong Kong. Voci e sguardi oltre l'handover, Bietti Heterotopia, Milano, 2014, p. 26.0
[7] Ivi, p. 24. Dopo il 1984 si apre la seconda fase della New Wave, contraddistinta dai lavori della maturità di John Woo e Ringo Lam e dall'esplosione di nuovi talenti, come Mabel Cheung, Stanley Kwan e Wong Kar-wai.
[8] J. Stringer, Review: Peking Opera Blues, "Film Quarterly" Vol. 48, N. 3, primavera 1995, p. 35.
[9] C.T. Li, Through Thick and Thin. The Ever Changing Tsui Hark and the Hong Kong Cinema, in S. Ho, W.L. Ho, The Swordsman and His Jiang Hu, cit., p. 14.
[10] A. Pezzotta, Tutto il cinema di Hong Kong, Baldini & Castoldi, Milano, 1999, p. 163.
[11] P.T. Cheuk, cit., pp. 14-5.
[12] Cfr. F. Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989, p. 51.
[13] S. Teo, Hong Kong Cinema: The Extra Dimensions, cit., pp. 162-174.
[14] Per jianghu s’intende il mondo autoregolato delle scuole di arti marziali, che seguono consuetudini e codici di comportamento separati dal consesso civile. Per ulteriori termini relativi al wuxiapian e al gonfupian, si rimanda alla pietra miliare di "Mantieni l'odio per la tua vendetta (The One-Armed Swordsman)".
[15] F. Jameson, cit., p. 7.
[16] Cfr. D. Bordwell, Planet Hong Kong. Popular Cinema and the Art of Entertainment, cit., pp. 1-2.
[17] A. Pezzotta, cit., p. 118.
[18] Ivi, p. 125.
[19] D. Bordwell, Aesthetics in Action: Kungfu, Gunplay, and Cinematic Expressivity, in Esther C.M. Yau (a cura di), At Full Speed. Hong Kong Cinema in a Borderless World, University of Minnesota Press, Minneapolis London, 2001 p. 93. Nella scena analizzata viene peraltro omaggiato l'Ėjzenštejn de "La corazzata Potëmkin" (1925).
[20] A. Pezzotta, cit., p. 118.
[21] S. Teo, Tsui Hark: National Style and Polemic, in Esther C.M. Yau (a cura di), At Full Speed. Hong Kong Cinema in a Borderless World, cit., p. 154.
[22] S. Bruzzi, Undressing Cinema: Clothing and Identity in the Movies, Rouledge, Londra, 1997, pp. 148-50.
[23] Cfr. T. S. Kam, Tsui Hark's Peking Opera Blues, Hong Kong University Press, Hong Kong, 2016, p. 5.
cast:
Brigitte Lin, Sally Yeh, Cherie Chung, Cheung Kwok-keung, Mark Cheng, Wu Ma, Kenneth Tsang
regia:
Tsui Hark
titolo originale:
Dāo Mǎ Dàn
durata:
105'
produzione:
Film Workshop; Cinema City
sceneggiatura:
Raymond To
fotografia:
Poon Hang-sang
scenografie:
Ho Kim-sing, Leung Chi-hing, Vincent Wai
montaggio:
David Wu
costumi:
Ng Bo-ling
musiche:
James Wong