Architettura di un'utopia
Nel 1922 venne bandito un concorso che invitava i più rinomati architetti del mondo a progettare la nuova sede del "Chicago Tribune" che, per importanza, era allora il secondo quotidiano degli Stati Uniti. La partecipazione fu elevata anche per il generoso premio in denaro (50 mila dollari) ed è rimasto celebre il progetto di Adolf Loos, precursore del modernismo, che proponeva la realizzazione di un grattacielo le cui forme erano modellate sulla colonna di stile dorico. Una sorta di scherzo sofisticato teso a sottolineare come le formule compositive neoclassiche dell'architettura americana guardassero a una matrice che risiedeva nel mondo greco-romano del Vecchio Continente.
Francis Ford Coppola parte da un ragionamento estetico simile per l'ambientazione del progetto che insegue da più di quarant'anni: New Rome è una New York retrofuturista che esplicita il parallelismo tra la Repubblica romana e quella americana, ovviamente in crisi, corrotta e sul punto di precipitare nel caos e nell'autoritarismo. A bella posta Coppola riusa i nomi di celebri personaggi politici latini: il sindaco si chiama Francis/Frank Cicero (Giancarlo Esposito) il quale ha una figlia ribelle e trasgressiva di nome Julia (Nathalie Emmanuel), come l'aveva Ottaviano Augusto, e un avversario geniale che è l'architetto premio Nobel Cesar Catilina (Adam Driver), una sorta di fusione a freddo tra Cesare e il vizioso cospiratore reso celebre dalle orazioni ciceroniane e dalla monografia "De Catilinae coniuratione" di Sallustio. Cesar Catilina è a sua volta nipote del banchiere Hamilton Crasso III (Jon Voigt), uomo più ricco della città e finanziatore dei suoi progetti - come Marco Licinio Crasso, alleato di Gaio Giulio Cesare. Si potrebbe continuare citando l'esteso e illustre cast ma in realtà a Coppola interessa l'intuizione di base e non come questa venga declinata all'interno della narrazione o se vi sia una reale coerenza nei rimandi perché, in fondo, New Rome è solo un travestimento, così come gli interpreti che indossano abiti che flirtano con la moda e le acconciature della Roma antica partecipano a una festa in maschera alla quale si aderisce divertiti e alla lunga forse imbarazzati.
In modo simile al grattacielo in stile dorico di Loos quella di Coppola è una provocazione che vuole essere presa sul serio ma, al contrario del progetto architettonico che non vincendo il concorso non si realizzò, Coppola ha investito in prima persona circa 120 milioni di dollari (ricavati dalla vendita delle sue aziende vinicole e alimentari) per portarlo a termine. Questo gesto, da subito biasimato da molti, appartiene a un regista-titano, padrino dell'utopia neo-hollywoodiana, difensore ed emblema dell'idea di filmmaker come artista autentico e autonomo rispetto a un'industria avida. L'antitesi di film indipendente ad alto budget produce il cortocircuito di un lavoro che esiste solo per l'ostinata e ingenua caparbietà del suo autore ed è un film che fin dalla sua produzione difficoltosa, che ha visto susseguirsi interruzioni, licenziamenti, accuse e rumor di ogni tipo, ha assunto il profilo della cautionary tale che rammenta come non si debba mai agire come Francis Ford Coppola, in quanto aggirare il sistema autofinanziandosi significa non potersi permettere di fallire. E invece il regista che ha al suo attivo diversi fallimenti e uno dei più grandi disastri finanziari della storia, ossia "Un sogno lungo un giorno" (One from the Heart, 1982) che, costato 26 milioni di dollari, ne incassò solo 676 mila, si immola anima e corpo verso la catastrofe. Tale tensione non replica soltanto la storia produttiva ma anche lo spirito che innerva e dona senso a "Megalopolis": e il motivo per cui questo film esiste è per essere esattamente questo, uno splendido disastro.
Non è un caso che "Megalopolis" inizi con la seduzione del vuoto, la vertigine del precipizio. In cima a un grattacielo (il Chrysler Building di New York), Cesar Catilina si sporge pericolosamente ma proprio quando sta per perdere l'equilibrio ordina "Time, stop!" e il tempo si ferma dandogli modo di ricomporsi. Il personaggio di Driver, architetto, filantropo, visionario, è la versione fantastica e più ambigua di Preston Tucker, protagonista di "Tucker - Un uono e il suo sogno" (1988), ingegnere che ideò e produsse un tipo nuovo di automobile, costruita in totale autonomia, attirandosi gli strali e le denunce delle grandi case automobilistiche. Dal canto suo, Cesar Catilina ha scoperto un nuovo e misterioso materiale, il megalon, con cui può plasmare spazio e tempo tanto che lui stesso ha acquisito la capacità di fermarlo, il tempo. È una delle ossessioni tematiche di Coppola che ritorna a cadenze regolari in diversi lavori, in diverse forme e in diverse modalità espressive: il nostalgia movie "Peggy Sue si è sposata" (1986), il melodramma horror di "Bram Stoker's Dracula" (1992), la commedia agrodolce "Jack" (1996) e quella che è per certi versi la sua redenzione autoriale, ossia "Youth Without Youth" (2007). Quest'ultimo è il film-chiave dell'ultimo Coppola che qui inizia a sperimentare col digitale, riavvicinandosi all'indipendenza degli esordi e a una forma-cinema libera da freni inibitori di cui "Megalopolis" è il punto di deflagrazione.
"Che cos'è il Megalon?"
In una scena Cesar e Julia sono sul tetto del grattacielo, dove c'è un immancabile orologio, e osservano lo skyline di New Rome: Catilina guarda attraverso diverse lenti e Julia attraverso un cannocchiale e insieme immaginano Megalopolis. La sequenza somiglia alla ricerca di location, in cui il regista prova le focali per indovinare quella più adatta per costruire l'inquadratura. È dunque fin troppo facile l'interpretazione allegorica e di mise en abyme, perché "Megalopolis" come tutti i lavori firmati da Coppola nel XXI secolo è un film profondamente personale e autobiografico dove il regista, oggi ottantacinquenne, si mostra nudo e indifeso. "Youth Without Youth" era una riflessione sull'origine dell'ispirazione artistica, sui suoi limiti e su come questa possa consumare l'intera esistenza, rinnovandosi e rinnovandoci; "Tetro" (2009) un dramma sui legami familiari e sull'eredità artistica; "Twixt" (2011), sotto la forma sbilenca dell'horror gotico à la Poe/Corman, era attraversato dal trauma per la morte del figlio Gian-Carlo; "Megalopolis" è un autoritratto in una forma cangiante e contraddittoria che inizia come altisonante epica utopica e si conclude come fiaba natalizia à la Frank Capra.
Se il piano urbanistico di Catilina riguarda l'edificazione di una nuova città, questa non può reificarsi senza prima una pars destruens, ossia la demolizione dei vecchi quartieri che devono fare posto alla sua utopia. È una gentrification che provoca malessere e disordine sociale e su cui poi si innesta la trama politica del film, in cui il regista mette in scena due populismi di segno opposto, quello conservatore di Clodio Pulcher (Shia LaBoeuf) e quello progressista e tecnocratico di Catilina. Infatti, come in "Metropolis" di Lang o come in "You Can't Take It with You" di Capra, ci sono due fazioni antitetiche che devono individuare una sintesi o scendere a compromessi con la realtà: in entrambi i lavori, al pari di "Megalopolis", è l'amore la forza motrice che pone fine ai dilemmi e apre le porte a un futuro di pace e solidarietà. Non una soluzione razionale ma l'avverarsi di un sogno. D'altra parte, più che con l'architettura le abilità del protagonista sono contigue all'arte e alla magia e lui, che gioca col tempo su un grattacielo, è una figura assimilabile a Prospero, così come la commistione di stili e generi di "La tempesta" è un faro a cui Coppola guarda.
Il megalon grazie al quale Cesar Catilina controlla il tempo, scomponendo e ricomponendo lo spazio, è ovviamente il cinema o, ancora meglio, la sua essenza che ci permette di fermare l'attimo, tornare indietro per riportare alla luce ciò che è stato smarrito e rivedere all'infinito le immagini perdute della nostra vita. Catilina, ossessionato dalle immagini della morte della moglie che proietta tramite il megalon, sembra stare alla moviola cercando di capire sé stesso, estraendo un'idea nuova e definitiva di futuro. L'ufficio di Catilina visto in azione non è una società di architetti ma un laboratorio teatrale, in cui ci si esercita in giocoleria acrobatica e si cammina su una miniatura della città del futuro che somiglia a un'installazione ready-made. Ciò che vediamo di Megalopolis è un abbozzo, in particolare gli storyboard animati che mostrano una città che si muove insieme ai desideri dei suoi abitanti e, in quanto tale, è progettata come un organismo vivente che si svilupperà e si trasformerà nel tempo sotto forme architettoniche ispirate in parte al neofuturismo di Ephraim Henry Pavie e, soprattutto ed esplicitamente, alle idee della designer Neri Oxman (ex moglie di Osvaldo Golijov, compositore di tutte le colonne sonore del Coppola del nuovo millennio). È quindi nell'immagine dell'Aguahoja di Oxman, somigliante a una sfrangiata e composita crisalide, che va riletta la Megalopolis di Catilina/Coppola, la promessa di un futuro non ancora dischiuso, una potenza che non deve necessariamente tradursi in atto. "Megalopolis", il film, è invece una riflessione sulla promessa del cinema, sulla sua manifestazione come arte informata dalle altre arti potendo trasmutarsi in qualsiasi cosa e raccontare, tramite il suo linguaggio, qualsiasi scenario. Megalopolis al pari del cinema rappresenta l'utopia desiderata dal demiurgo, ogni visione, ogni immagine, ogni emozione veicolata dal suo creatore.
Il ridicolo sublime
In "Megalopolis" si percepisce la vertigine della catastrofe e la distruzione forse avviene davvero, sintetizzata per metonimia dai detriti di un satellite nucleare che, simili a stelle cadenti, incendiano il cielo. Sui grattacieli le ombre della popolazione vengono proiettate come figure nere che si agitano su sfondi rossi, palese rimando alla ceramica greca. È un'intuizione visiva straordinaria a cui è assegnato un peso narrativo minimo, perché "Megalopolis" dissipa le proprie trame, distraendosi dalla via maestra. Non è un film per chi scambia la critica e la cinefilia con la ragioneria, per chi calcola e soppesa con lo sprezzo del censore.
Catilina quando lavora con la squadra in realtà sta componendo un bozzetto futurista che esorbita l'architettura: è il gesto creativo, gratuito e sfacciato, a essere il perno di quest'opera coppoliana, secondo un parametro che potremmo definire "al di là del Bene e del Male". Parametro identico ad alcuni personaggi dal vitalismo esuberante e a molte immagini di David Lynch che non ha mai temuto il recupero di stereotipi kitsch né il patetico per destabilizzare lo spettatore e spiazzarlo, tanto che anche per "Megalopolis" si potrebbe adoperare la locuzione di "ridicolo sublime" coniata da Slavoj Zizek a proposito del timbro peculiare dell'opera lynchiana. È proprio in questa continua frizione che si esprime la potenza espressiva dei registi (perturbante nel caso di Lynch) che pretende dallo spettatore lo sforzo di non arrendersi di fronte al dettaglio incongruo, alle invenzioni strabordanti, alla battuta stonata.
È infatti stonata la scrittura iper-letteraria e citazionista (Marc'Aurelio, Saffo, "Amleto" di Shakespeare, "Pygmalion" di Asquith) la cui recitazione passa da toni teatrali e declamatori ad altri più intimi e sentimentali ad altri surreali e grotteschi quasi senza alcuna soluzione. Le scene di gruppo sembrano talvolta happening caotici a cui il montaggio prova a dare un ordine logico, ma inevitabilmente emergono gli errori di continuità rendendo il montaggio rabberciato; talora, invece, lo sviluppo della scena possiede un peculiare umorismo Dada oppure una gestione dello spazio e della tensione degna del cinema classico. La narrazione è spesso filtrata dai new media che più volte entrano nell'inquadratura tramite i titoli scandalistici dei giornali, i programmi tv della femme fatale arrivista Wow Platinum (Aubrey Plaza), poiché i protagonisti sono personaggi pubblici appartenenti alla classe patrizia e in tal senso l'utopia di Coppola è politicamente figlia del mondo classico, in cui l'aristocrazia è davvero il governo dei migliori finché non viene corrota dal potere degradandosi in oligarchia. Proprio ai personaggi politici e alla messa in scena delle lotte per il potere che Coppola riserva le sequenze più iperboliche, autoparodie che con sprezzo del pericolo mettono in piedi cospirazioni e attentati, scandali dello showbiz che ammiccano alla post-verità del mediascape contemporaneo (si pensi alla verginità della popstar-vestale Vesta Sweetwater). A spiccare in questo panorama è la figura eccentrica e viscida di Clodio Pulcher alle prese con un personaggio simile al Paolo Gucci (Jared Leto) di "House of Gucci", film altrettanto incompreso in cui Ridley Scott, attraverso le forme del kitsch e del camp, metteva in scena "la caduta della casa dei Gucci" in una consapevole "cheap operetta" che era immagine doppia, falsificata e replicante di una vera tragedia. Coppola ha però ambizioni superiori e, da sempre proiettato verso una struttura operistica del cinema, preferisce la digressione alla linearità, la scucitura della trama alla sua compattezza, perché in una struttura musicale si apprezza la particolarità ritmica di ogni movimento, così le sequenze sono accostate per giustapposizione di toni e registro in modo da risultare spiazzante e persino respingente. Nella ricerca bulimica di nuove forme Coppola rielabora tutte le forme, assorbe tutti i registri e le tonalità narrative accostandoli in successione e senza seguire uno spartito coerente. Il regista mette alla prova il pubblico e la tenuta delle sue immagini in lampi di grazia e strappi sgraziati, survoltati e assurdi. È in quest'andamento privo di bussola, da cinema surreale e lisergico degli anni 70, che il regista può creare una sequenza meravigliosa come il pedinamento in auto di Julia che segue Catilina fino alle rovine della città vecchia giocata sugli stilemi del noir e la grande festa per il matrimonio di Wow Platinum e Crasso III che viene messa in scena come un peplum moderno, baroccheggiante e pacchiano.
"Megalopolis" rema contro il pubblico perché non offre appigli e il pubblico lo ha prevedibilmente respinto. Se è vero che solo il tempo potrà dare ragione (o torto) a Coppola, è difficile non affermare che un film come "Megalopolis", paradosso vivente, un piccolo spazio nella storia del cinema non se lo sia già ritagliato. In particolare nel modo in cui Coppola si getta in un corpo a corpo con le immagini, portandosi dietro le visioni di un'intera esistenza e il repertorio di 130 anni di storia del cinema, per cui l'effetto iride riacquisisce uno status romantico e il reiterato impiego della sovrimpressione regala, tramite l'astrattezza del digitale, l'eco allucinata dell'ubiquità delle immagini. Fino alla già celebre sequenza tripartita (rimando al triplo schermo di Abel Gance) costruita per rispondenze ritmiche e musicali più che narrative. Queste immagini levigate e inondate di luce aurea si possono accusare di certo di rassembrare spot pubblicitari deluxe ed effettivamente rappresentano lo spot di Megalopolis, la pubblicità del continuo divenire del cinema. Di cui basta uno sguardo, uno scorcio, un frammento.
Torna in mente la lettera che Akira Kurosawa inviò a Ingmar Bergman dopo che questi, nel 1988, aveva parlato nel suo memoir del ritiro dal cinema. Il maestro giapponese parla a Bergman di un grande artista giapponese, Tessai Tomioka (1837-1924), che aveva dipinto le sue opere migliori nella prima giovinezza e poi in tarda età, superati gli ottant'anni. Kurosawa affermava dunque che un uomo era capace di produrre opere pure e prive di restrizioni una volta raggiunta la seconda fanciullezza dell'anzianità e, pertanto, invitava il collega a resistere e a continuare a creare. Ecco, benché difettosi e incompiuti tutti gli ultimi lavori di Coppola appartengono all'arte di un regista-bambino che non ha paura di niente, non si cura di compiacere né ha interesse a distinguere il buono dal cattivo gusto. È un artista libero di sperimentare continuandosi a chiedere che cos'è e cosa può essere il cinema.
cast:
Adam Driver, Kathryn Hunter, Dustin Hoffman, Talia Shire, Jason Schwartzman, Laurence Fishburne, Jon Voight, Shia LaBeouf, Aubrey Plaza, Giancarlo Esposito, Nathalie Emmanuel, Grace VanderWaal
regia:
Francis Ford Coppola
distribuzione:
Eagle Pictures
durata:
138'
produzione:
American Zoetrope
sceneggiatura:
Francis Ford Coppola
fotografia:
Mihai Mălaimare Jr.
scenografie:
Beth Mickle, Bradley Rubin
montaggio:
Cam McLauchlin, Glen Scantlebury
costumi:
Milena Canonero
musiche:
Osvaldo Golijov