A cinque anni di distanza da "Tutti i soldi del mondo", Ridley Scott è tornato in Italia per girare un film che presenta diverse affinità col suo antecedente. Innanzitutto una vicenda tratta da un fatto di cronaca realmente accaduto, poi il focus su un’importante realtà imprenditoriale a conduzione familiare, e infine il tema dell’avidità che acceca gli animi e non si arresta davanti ai vincoli parentali.
L’incipit di "House of Gucci" parte da un dettaglio: l’orologio al polso di Maurizio Gucci, l’ultimo rampollo dell’omonima famiglia che aveva costituito un’azienda leader nel settore della pelletteria di lusso. Con il commento della voce fuori campo di Patrizia Reggiani, quell’orologio scandisce gli ultimi istanti di vita dell’uomo seduto al tavolino all’aperto in una fredda mattina milanese del 1995. Poco prima della fine del protagonista, inizia un lungo flashback che coincide in sostanza con la trama del film. Il regista e produttore britannico mette in scena un robusto affresco familiare concentrato su poche figure chiave e articolato in tre atti, a loro volta caratterizzati dall’entrata in scena di un nuovo personaggio, che altera le relazioni interpersonali. Nel primo atto Rodolfo, il padre di Maurizio, ha un ruolo preminente fino al suo trapasso che segna il passaggio al secondo atto, in cui fa la sua comparsa Pina Auriemma, cartomante e confidente di Patrizia Reggiani, consorte di Maurizio. Il terzo e ultimo atto è caratterizzato dall’ingresso di Paola, prima amante e poi nuova convivente di Maurizio.
Non sono pochi i pregi di un film che riesuma una vicenda che all’epoca fece scalpore e portò alla condanna per omicidio della ex-moglie della vittima, circostanza di cui Scott ci dettaglia nei titoli di coda. A iniziare dal cast all’altezza delle oltre due ore e mezza di programmazione: un Jeremy Irons (Rodolfo) ben calato nel personaggio, invecchiato, rinsecchito nel fisico, inaridito nell’anima, avverso alla relazione del figlio Maurizio per pure ragioni di casta e d’interesse economico, riecheggia in buona sostanza il medesimo ruolo del padre di Blanca ne "La casa degli spiriti" (1993).
Scott, invero, non ci rivela le ragioni profonde di questo atteggiamento morbosamente iperprotettivo nei confronti del figlio. Non indulge in comodi flashback per dirci, come un’inchiesta giornalistica diventata un libro ha appurato, che la morte prematura della moglie e la fine delle ambizioni da attore avevano dirottato sul giovane figlio tutte le aspettative del patriarca. Il tutto rimane nell’ombra, appena accennato, suggerito dalle vecchie pellicole appese nella sala in cui egli visiona filmati e fotografie di Maurizio D’Ancora, nome d’arte che Rodolfo Gucci si era vanamente e narcisisticamente dato.
Egli stesso è un personaggio che, a mano a mano che le sue condizioni fisiche peggiorano, più che emergere dall’ombra sembra ne sia stato strappato solo temporaneamente per farvici ritorno: non ama la luce, il calore, gli abbracci. “Non tocchi più nessuno!” è una delle stilettate del fratello Aldo. Intabarrato tra coperte e vestaglie, inquadrato sovente da lontano, quasi che ciò spinga anche noi a prenderne le distanze, Rodolfo si commuove solo alla notizia che la nuora gli ha dato una nipotina cui ha imposto il nome della defunta moglie. È questa l’unica occasione per un primo piano, per un abbraccio al figlio.
Quanto ad Adam Driver, anch’egli è all’altezza del ruolo, anche se distante dai vertici di "Storia di un matrimonio" (2019). L’aria da bravo ragazzo lo aiuta molto nel primo atto, quando Maurizio non si è ancora lanciato nel duro mondo dei manager; quando basta un sorriso, senza dover assumere una posa particolare, o fare ciò che ad esempio fanno tutti gli attori quando prendono tempo, tergiversano: fumare. Lui, semplicemente, il tempo lo lascia trascorrere. Anche nel secondo e terzo atto, quando il menage familiare si complica e l’avidità diventa il Moloch cui ognuno sacrifica quel che resta della propria umanità, Maurizio Gucci rimane poco amante dei discorsi.
Tanto il protagonista è parco di parole, quanto macchiettisticamente logorroico e inconcludente è il cugino Paolo: convinto arbiter elegantiarum, in realtà stilista mancato, voce querula e grottesco uomo d’affari, è la pecora nera della famiglia. Vero è che l’interpretazione di Jared Leto è forse l’unica a sfigurare veramente rispetto agli altri, soprattutto per overacting.
Decisamente di valore invece la prova attoriale di Al Pacino: l’ormai ottantenne newyorkese veste i panni dello zio (Aldo) che vorrebbe prima essere il mentore del nipote Maurizio e poi ne viene raggirato. Quando si vedono questi vecchi leoni recitare in ruoli appropriati (ed è questo uno di quei casi) si apprezza meglio quanto l’identificazione tra l’attore e i ruoli interpretati nel passato esercitino un’aura che perdura nel presente. Perché ad Al Pacino basta un buon vestito, l’eloquenza ora melensa ora decisa, accompagnata da quella gestualità delle mani che pare una sentenza, e già siamo in un’atmosfera diversa dalla Milano da bere. L’abbraccio al figlio Paolo, vero responsabile della rovina del padre, è infatti una citazione fin troppo evidente di quello dato a Fredo (John Cazale) di "Il Padrino - Parte II" (1974).
Ma Scott gioca col cinema del passato anche in altre occasioni, come quando lo stesso Aldo ritorna dall’America sospingendo in una mesta sequenza al rallentatore il carrello con le sue valigie e incontra il figlio, il quale trova con difficoltà l'automobile che egli stesso aveva parcheggiato. La scena echeggia il De Niro di "Jackie Brown" (1997) ed è presagio della catastrofe che di lì a poco si abbatterà su Aldo. Forse che in una diegesi sostanzialmente lineare Ridley Scott considera questi episodi come flashback “affettivi”? Possibile.
L’interpretazione attoriale più riuscita rimane comunque quella di Lady Gaga (Patrizia Reggiani), prima ragazza innamorata, indi donna manager, infine mantide ferita, folle menade pronta al gesto estremo. Eppure non c’è parte nella quale la Gaga sembri a disagio o fuori ruolo.
Come per il marito, così per la Reggiani, Ridley Scott sacrifica la backstory a vantaggio della narrazione al presente, della concatenazione in cui il lusso, la stravaganza si possano meglio adattare all’imprevisto, alla sorpresa. Non ci deve essere tempo per lo spettatore di assuefarsi a questa borsetta o a questa calzatura che ne arriva subito un’altra. È per questo che esso tende a identificarsi, nonostante tutto, più con lei che con lui: perché viene tirato dentro un mondo rutilante dal quale rimane affascinato. Processo mentale invece estraneo al marito Maurizio, che quel mondo lo ha già precedentemente, molecolarmente direbbe Gramsci, metabolizzato, e di cui soprattutto non si dà un resoconto cinematografico.
In linea più generale, gli oltre 150’ di proiezione scorrono via agevolmente anche per una gestione accorta dei tempi, grazie alle scelte di montaggio. In almeno due occasioni, ad esempio, Ridley Scott garantisce al contempo un’accelerazione e un senso di ineluttabilità alla diegesi: quando a un incontro focoso tra i due protagonisti, culminante nell’aria verdiana "Libiam!", il regista fa seguire, dopo uno stacco, le immagini di lei che entra nel duomo di Milano in abito da sposa; oppure quando, al termine di un discorso di Aldo che plaude alla nascita di Alessandra ("Ci vogliono più donne in questa famiglia", afferma), dopo lo stacco vediamo il fratello Rodolfo nella bara.
"House of Gucci" è un dramma familiare che volutamente rifugge dall’analisi sociale e risulta quindi eviscerato del contesto storico-politico italiano del tempo. La macchina da presa è sempre pronta a seguire ciò che avviene all’interno della famiglia, e anche quando siamo in esterni, in realtà ci troviamo al suo interno: come gocce d’olio su una superficie equorea i Gucci entrano in contatto col mondo esterno, ma non vi si mescolano. Grazie a una solida sceneggiatura, inoltre, la rinuncia a calare la vicenda in un contesto di avvenimenti più circostanziato non toglie smalto al film; l’unico addentellato storico è un trafiletto su “Mani Pulite” che emerge da un quotidiano, ma è significativo che non ne sorga discussione alcuna in famiglia: i Gucci hanno altro cui pensare.
cast:
Adam Driver, Al Pacino, Jeremy Irons, Jared Leto, Jack Huston, Salma Hayek, Lady Gaga
regia:
Ridley Scott
titolo originale:
House of Gucci
distribuzione:
Eagle Pictures
durata:
157'
produzione:
Metro-Goldwin-Mayer, Bron Studios, Scott Free Productions
sceneggiatura:
Becky Johnston, Roberto Bentivegna
fotografia:
Dariusz Wolski
scenografie:
Janty Yates
montaggio:
Claire Simpson
costumi:
Janty Yates
musiche:
Harry Gregson-Williams