Dopo aver condotto all'esasperazione il proprio gusto grafico e narrativo nella scorribanda cinefilo-letteraria di "Grand Budapest Hotel", Wes Anderson si riaffaccia sulla stop motion, vincendo l'Orso d'Argento alla Berlinale 2018.
Dopo l'esordio con Roald Dahl nel 2009 in quella che molti equivocarono come una parentesi, un divertissement, "L'isola dei cani" rappresenta non solo la naturale consecuzione dell'esperienza Mr. Fox, ma anche il nuovo coerente tassello di una filmografia che, sebbene riconoscibile a prima vista, tenta sempre di rimettere in circolo i suoi refrain (ai quali comunque non rinuncia mai, nemmeno qui: sia chiaro a chi guardando ad Anderson come a un manierista rompipalle sperasse in qualcosa di nuovo).
Dalla sceneggiatura a otto mani firmata da Anderson in tandem con gli amichetti Roman Coppola e Jason Schwartzman, con la consulenza di Kunichi Nomura (attore in "Lost in Translation"), emergono motivi ricorrenti ormai tutti andersoniani ma mai finora così aperti alla cifratura di un (di)segno politico di fondo. Sotto questo profilo figure e meccanismi (e strali critici dell'autore) sono nitidi: governi corrotti, uso strumentale dei media (della tv in particolare), eliminazione autoritaria e surrettizia dei dissidenti; oscuri rintocchi di attualità, in cui le uniche forze positive (cani a parte) sono un ragazzo di dodici anni (ancora!) e una giovane agguerrita studentessa (americana). Il tutto leggibile in modo allegorico, a mo' di immancabile forbice fra il regno degli adulti (se va bene dominato dalla depressione, se va male dalla perfidia) e il moonrise kingdom della giovinezza (non meno nevrotico di quello adulto ma ancora permeato di valori e fiducioso nel proprio potenziale). Sul versante estetico siamo invece dalle parti del matrimonio culturale e visuale, in una incessante azione di incontro, scambio, scontro e intesa fra la bidimensionalità di certa tradizione artistica giapponese e la composizione maniacale dei quadri statici, simmetrici e in profondità di campo del regista texano.
Due i palcoscenici su cui si svolge l'avventura. Da un lato Megasaki, metropoli nipponica futuribile la cui totalità è lasciata più che altro all'immaginazione. La città è ripresa quasi solo in interni, dentro un ryokan, un'arena del sumo, una sala per le adunate politiche, una cucina dove si prepara il sushi. Un universo stilizzato, composto a partire da segni di riconoscimento a uso e consumo occidentale; stereotipato non per ottusità ma perché di seconda mano, riciclato da rappresentazioni fittizie preesistenti, in una gamma di modelli d'ispirazione pop che vanno dichiaratamente da Kurosawa a Miyazaki, dai manga alle xilografie d'antan agli assurdi show televisivi giapponesi di oggigiorno. Esempi per di più mescolati ad altri modelli di riferimento che di orientale hanno poco, anch'essi dichiarati: da "Quarto potere" fino a Marlene Dietrich e Charles Laughton per il design di alcuni pupazzetti. Come già nel caso dell'India o dell'Est Europa, l'ambientazione esotica non è per Anderson l'oggetto di una raffigurazione realistica, ma un luogo ricreativo dove sguinzagliare tutti gli attori del proprio immaginario.
Dall'altro lato c'è l'Isola della Spazzatura, landa dal richiamo post-apocalittico (con accenni perfino cyberpunk) dove, architettando un complotto populista condito da un virus canino creato ad hoc in laboratorio, il sindaco Kobayashi fa deportare tutti i cani di Megasaki, accusati di essere diventati pericolosi per la salute pubblica. Atari, nipote dodicenne di Kobayashi, non ci sta e a bordo di un aeroplanino sgarrupato raggiunge l'Isola alla ricerca dell'amato Spots, il cane-zero, il primo esemplare deportato, immolato a mo' di esempio dal sindaco in quanto cane della famiglia Kobayashi.
Il classico tema del viaggio come scoperta di sé e superamento della linea d'ombra si appiccica perfettamente al Piccolo Pilota (così è ribattezzato Atari dal manipolo di cani che gli si affiancano nell'impresa), e soprattutto a Chief, randagio scorbutico che accompagna malvolentieri il ragazzino attraverso i "livelli" dell'Isola. I quali per struttura, scansione del racconto e utilizzo dei movimenti di mdp sembrano ammiccare agli omonimi videogiochi platforms (Atari, appunto) di vecchia generazione.
Nella coralità sfrenata costante del regista, una volta di più Anderson affida la ribalta agli individui più malconci e idiosincratici, sia emotivamente sia fisicamente. Atari, prima ancora di affrontare gli ostacoli sul tragitto, è già privo di un rene e dei genitori, e atterrando rovinosamente sull'isola gli si conficca lo sterzo dell'aereo in testa. Chief è un cane bianco sotto uno strato di sporcizia nera, pieno di cicatrici vere e metaforiche. Protagonisti entrambi modellati attorno alle contraddizioni fra ruolo e carattere: il tipico bambino adultizzato andersoniano non può resistere a un giro sul super-scivolo di un luna park, benché nel mezzo di una situazione drammatica; così come Chief, sedicente spirito libero, fiero di essere un cane di strada, non può evitare di giocare con Atari a riporta-il-bastone, benché dichiari di farlo solo perché il piccolo umano gli fa pietà.
Ne "L'isola dei cani" sembra essere proprio la definizione del ruolo (all'interno di una relazione privata o di una comunità) la chiave per dare ordine all'ennesimo caos di rapporti personali e collettivi messo in scena da Anderson. Ovviamente un ordine non convenzionale, da "I Tenenbaum" in poi mai frutto di una riparazione, bensì di una tolleranza (alle aspettative disattese, ai progetti di vita irrealizzati), spesso sviluppata dopo essere scesi a patti con la dolorosa perdita di qualcuno o di qualcosa (il capo famiglia Tenenbaum, l'intenzione dei fratelli Whitman di riconciliarsi con la madre, l'opportunità di Steve Zissou di catturare lo squalo giaguaro, l'idealizzata/ideologica fuga di Sam e Suzy eccetera). E se nel discorso del ruolo non poteva non essere incluso il ritornello del rapporto padre-figlio, nel discorso del disordine relazionale non potevano mancare le difficoltà della comunicazione.
Pur sempre nell'ambito della ritenzione emotiva dei personaggi andersoniani, ne "L'isola dei cani" gli occhi (umani e animali) sono spesso lucidi, quando addirittura non lasciano sgorgare grossi lacrimoni. Ciononostante (o forse proprio per questo) siamo davanti a uno dei film di Anderson in cui il gioco dell'incomunicabilità (fra personaggi, e fra personaggi e spettatori) assume maggiore rilevanza, aiutato da salti linguistici spesso privi di traduzione e dal bombardamento tipografico che riempie lo schermo, trasformando la visione in un continuo lampeggiare di scritte, didascalie e ideogrammi diegetici ed extra-diegetici al quale stare dietro è impossibile.
Per contro (o forse di nuovo, proprio per questo) è anche uno dei film di Anderson in cui il silenzio acquista più significato, anche considerata la quasi-assenza di una colonna sonora che non siano le percussioni sorde di Alexandre Desplat.
Se il rapporto fra silenzio e dialogo (ma in questo caso è meglio dire testo, e ci mettiamo anche la musica) rimane comunque di 1 a 10, è il rapporto di forza a cambiare. Una piccola variazione espressiva che fa de "L'isola dei cani" un'avventura arruffata e malinconica, di plastilina e batuffoli di lana, dove l'abbraccio muto fra un cane e un ragazzino vale più di ogni frase forbita e un haiku sussurrato può lasciare di stucco e redimere un popolo intero.
Dato il plotone di voci note coinvolte, da vedere rigorosamente in versione originale (così da accrescere anche il cortocircuito fra lingue, traduzioni ed elementi grafici).
cast:
Bryan Cranston, Liev Schreiber, F. Murray Abraham, Harvey Keitel, Greta Gerwig, Tilda Swinton, Frances McDormand, Yoko Ono, Edward Norton, Jeff Goldblum, Scarlett Johansson, Bill Murray, Anjelica Huston
regia:
Wes Anderson
titolo originale:
Isle of Dogs
distribuzione:
20th Century Fox
durata:
101'
produzione:
American Empirical Pictures, Indian Paintbrush, Scott Rudin Productions
sceneggiatura:
Wes Anderson, Roman Coppola, Jason Schwartzman, Kunichi Nomura
fotografia:
Tristan Oliver
scenografie:
Adam Stockhausen, Paul Harrod
montaggio:
Edward Bursch, Ralph Foster, Andrew Weisblum
musiche:
Alexandre Desplat