Parte I: il ritorno dell'infernale Welles
"Sapete, Orson Welles è un ottimo regista. Non avete mai avuto
l'occasione di averlo come regista?"
Charlton Heston ai produttori di "Touch of Evil"
"The Players" (1992) di Robert Altman inizia con un pianosequenza che esibisce i molteplici avvenimenti della quotidianità di uno studio hollywoodiano, fra cui il discorso fra due personaggi riguardo alla calante qualità dei film prodotti nella "Mecca del cinema", durante il quale uno dei due interlocutori cita il pianosequenza d'apertura de "L'infernale Quinlan", utilizzandolo come esempio del valore del cinema nordamericano "di una volta", tra l'altro esagerando la lunghezza e la complicatezza di quel movimento di macchina. Se il regista di Kansas City omaggia Welles a livello strutturale echeggiando lo stesso procedimento filmico per il quale aveva optato quello, nel frattempo decostruisce, in parte, il mito del suo cinema (e di tutto il cinema a stelle e strisce, tra l'altro), facendo lodare in maniera spropositata (e fraudolenta) la già citata manovra wellesiana da parte di un personaggio che manifesta immediatamente la sua ignoranza nei confronti di ogni cinema estero.
Continuando, con mezzi ben diversi e più modesti, la strada altmaniana si può far notare come il celeberrimo inizio del film del 1958 non sia neanche un pianosequenza in maniera insindacabile, quanto più "semplicemente" un long take. Perlomeno se si considera come sequenza iniziale del film non solamente ciò che precede l'esplosione della bomba che mette definitivamente in moto la narrazione ma anche la successiva fase, immediatamente conseguente e non distaccata da nessuna ellissi, in cui vengono presentati i rimanenti personaggi e luoghi principali. Ma questa questione è in realtà marginale poiché l'iconicità di "Touch of Evil" deriva da ben altri fattori, concernenti in primo luogo la figura stessa del grande regista americano.
Difatti questi aveva appena ricominciato a lavorare ad Hollywood come attore in film come "La tragedia del Rio Grande" o "La lunga estate calda" di Martin Ritt, attirando l'interesse della Universal, la quale, tramite il produttore Albert Zugsmith, era intenzionata ad affidargli il ruolo di antagonista nell'adattamento del romanzo "Badge of Evil" di Wade Miller. Prima ancora di contattarlo il futuro protagonista Charlton Heston propose il nome di Welles e fu così che il cineasta di Kenosha si ritrovò alla guida del set, non prima di aver riscritto, in soli 17 giorni, la sceneggiatura dell'opera, classicamente pulp, di Miller. Così da trasformare la storia dello scontro, prima implicito e poi spietato fra il capo della Narcotici messicana Vargas (Heston) e il dispotico capo della polizia Quinlan (Welles) e dell'indagine sull'omicidio del cittadino più abbiente della città di frontiera che la contiene in un intricato e raffinato (non solo visivamente) sistema di contrapposizioni ed inganni che travolge di volta in volta tutti i personaggi principali, rendendola una tragedia, sempre con un filo di ironia. Nella miglior tradizione wellesiana quindi.
Girato in solo una quarantina di giorni e con un budget di appena un milione di dollari, cosa che di certo limita l'abituale grandeur registica di Welles, il film si ritrova pesantemente rielaborato da produttori in fase di montaggio, portando a significativi tagli e all'introduzione di sequenze didascaliche dirette da Harry Keller. A nulla servono le proteste del cineasta che scrive un corposo memorandum in cui spiega agli executive le ragioni delle sue scelte stilistiche (ad esempio, del prologo privo di titoli di testa) e rammenta loro di garantire l'integrità della pellicola. Anche dal punto di vista distributivo "L'infernale Quinlan" si rivela particolarmente sfortunato: considerato dai censori come un b-movie per via delle tematiche che affronta (lateralmente) e del basso budget, viene distribuito malamente e costretto in breve tempo alla sparizione, divenendo uno dei film meno apprezzati del regista americano.
Questo perlomeno fino a che il produttore hollywoodiano Rick Schmidlin (anch'egli forse riferibile al film di Altman?) decide, da grande ammiratore di Orson Welles, di far restaurare la pellicola seguendo le indicazione trascritte a suo tempo dal regista di Kenosha. Chiamando per l'occasione Walter Munch, montatore di fiducia di Francis Ford Coppola e Anthony Minghella, il quale completa il lavoro solo nel 1998, lasciando l'attuale edizione "restaurata" da 112 minuti. Questo avvenimento è l'apice del processo di recupero e valorizzazione del film wellesiano, iniziato nel 1976 con la distribuzione di una "versione ritrovata" da 108' e culminato col riconoscimento dell'enorme valore, anche storico, dell'ultima opera americana del grande regista e con l'annoverarsi della stessa fra i più grandi capolavori del noir.
Parte II: noir, pastiche, postmodernità
"Si potrebbe dire che ogni era abbia la sua postmodernità
e che ogni era abbia la sua forma di manierismo
(infatti, mi chiedo se "postmodernismo" non sia
semplicemente una forma moderna di Manierismo...)"
Umberto Eco, "A Correspondence on Post-Modernism"
Nel 1958 il noir è un genere (o codice stilistico e iconografico, se si preferisce) che ha già dato al cinema una discreta quantità di capolavori e la cui sterilità è ormai difficilmente discutibile, come si può chiaramente evincere dal suo essere ormai sempre più ridotto a modello per "film di serie b". Al contempo la rielaborazione compiuta dalla Nouvelle Vague è ancora lontana, così come il neonoir degli anni 70 e 80, vero e proprio anticipatore/introduttore del postmodernismo cinematografico (ritengo basti citare "Blade Runner"). Orson Welles non è certo nuovo al genere, in quanto regista di film come "Lo straniero" o "La signora di Shanghai" (ma anche co-autore non accreditato del capolavoro di Carol Reed) ma soprattutto di "Citizen Kane". Infatti l'esordio del cineasta americano può essere tranquillamente considerato un momento fondamentale della codificazione del succitato genere e dei suoi tratti stilistici (la profondità di campo, l'utilizzo di obiettivi grandangolari, la fotografia fortemente contrastata, l'uso massivo e non banale di analessi, etc...), anche in virtù della rielaborazione di stilemi espressionistici e dei gangster movies anni 30.
Se Welles ha già avuto modo di giocare con le convenzioni del genere da lui (parzialmente) anticipato con l'enfatizzazione di queste compiuta in "The Lady from Shanghai" o ne "Il terzo uomo" ciò che egli fa con il film del ‘58 risulta di un ben diverso genere di rielaborazione. Difatti i tratti tipici del noir vengono resi palesi fin dapprincipio in maniera apparentemente non mediata. E così si assiste alle caratterizzazioni ambigue dei personaggi principali, all'uso impareggiabile della profondità di campo (e del grandangolo da 18,5 mm, dato che viene utilizzato per la quasi totalità del film), alla centralità dell'ambiente urbano, alla cupa serietà (seriosità) del primo segmento del film, e così via. Ma già il pianosequenza iniziale in realtà accenna elementi anomali dato il genere: un approccio superficialmente realistico (e non iperstilizzato) allo spazio, l'occasionale utilizzo dell'ironia (non tragica) nei dialoghi, l'importanza concessa a elementi altri, come la romance tra Heston e Leigh.
Ne consegue che l'intero film non faccia altro che decostruire, pian piano, molti dei principali topoi del genere, andando a configurarsi come una vera e propria opera di consunzione definitiva di esso. Stando a Veronica Pravadelli il noir è riconoscibile dal rovesciamento della "leggibilità del mondo e dell'azione individuale [...] sostenuta dalla dinamica ulteriore del conflitto e della dialettica", "dalla frammentarietà e discontinuità del racconto" dovute alla "non-linearità dei percorsi del desiderio" e dalla "centralità della parola [...] come strumento di narrazione della propria traiettoria"1, in un'ottica logocentrica che la stessa fa risalire al pensiero ebraico e che viene fatta opporre alla weltanschauung oculocentrica occidentale. Dando ciò per assodato risulta evidente come fin da quel long take che equipara il punto di vista dello spettatore a quello "divino" (e registico), "Touch of Evil" si muova in una direzione (ostinatamente) contraria al genere di partenza, abolendo del tutto la narrazione extradiegetica e anzi screditando continuamente il valore del logos (tutti i personaggi mentono, gli inganni verbali non si contano, i personaggi spesso più che dialogare imbastiscono continui monologhi), mentre si ritorna ad una narrazione fortemente lineare e che si muove senza quasi strappi temporali. Anche a livello visivo e iconografico il noir viene pesantemente decostruito: la femme fatale, figura topica del genere, si sdoppia, anzi triplica (Janet Leigh, Marlene Dietrich, Zsa Zsa Gabor) per poi rivelarsi tutt'altro, così come la metropoli (che non è tale) fa presto spazio a decadenti sobborghi e località disperse nell'assolato deserto.
Anche la seri(os)a tragicità tipica del cinema noir è vittima del lavorio di Welles, il quale non rinuncia ad inserire sequenze quasi comiche e personaggi dalla caratterizzazione grottesca e stralunata, oltre ad ammantare tutto con la sua consueta ironia, causa prima del proposito decostruttivo. La medesima che gli permette di recuperare agevolmente suggestioni presenti in tutto quello che è divenuto l'immaginario noir e poliziesco (e da cui deriva anche il romanzo di Miller), facendo sì che "L'infernale Quinlan" (e, in Italia, paradossalmente aiutato in ciò dalla ridicolezza del titolo) si configuri come uno dei primi esempi di film pulp della storia per come rielabora elementi "bassi" e tematiche (perlomeno per l'epoca) scandalose con uno stile facilmente leggibile eppure incredibilmente stratificato. Peraltro senza cadere nell'exploitation, a differenza di molti altri cineasti di genere dei decenni successivi.
Ed essendo un aspetto fondamentale della letteratura (e ancor di più del cinema) pulp la sua condizione di pastiche, frequentemente metalinguistico, si può concludere che tale definizione si adatti perfettamente al film di Welles. Difatti "Touch of Evil" si nutre di un intero immaginario cinematografico precedente, e che come già detto aveva lui stesso contribuito a sviluppare, per estrarne una versione completamente smitizzata e coerente col proprio cinema. Per la natura intrinsecamente metacinematografica di questa operazione e per la visione del cinema come sistema (apparentemente) autoreferenziale il film del regista americano, il "padre" della modernità cinematografica, può essere reputato un autentico anticipatore del postmodernismo, ancora che l'ondata modernista francese e i vari epigoni europei e d'oltreoceano affermassero allo stesso modo di pellicole coeve come "Viale del Tramonto" o ancor più "Cantando sotto la pioggia". Prima l'inizio di una nuova era del cinema, colui che già li aveva anticipati ed era visto da loro come un modello indicava, implicitamente, la via del cinema futuro.
Parte III: Shakespeare e Welles
"Hank era un grande detective dopotutto."
"Ed un poliziotto corrotto."
"È tutto quello che hai da dire su di lui?"
"A suo modo era un grand'uomo. Ma che
importa quel che si dice di qualcuno?"
Schwartz e Tanya ne "L'infernale Quinlan"
Il pastiche che è caratteristica fondante de "L'infernale Quinlan" (ma anche di tutta la produzione di Welles, soprattutto dell'ultima parte) e che lo rende un interessante anticipatore della postmodernità è anche uno dei principali elementi che lo lega al suo principale ispiratore di sempre, ovvero William Shakespeare. Se ben tre adattamenti shakespeariani svettano nella filmografia del regista americano, tutto il suo cinema si nutre continuamente di spunti e riferimenti al monumentale corpus del drammaturgo di Stratford-upon-Avon. A tal riguardo si citino l'enorme varietà di temi e forme o l'atteggiamento costantemente ironico adottati dal cineasta, ma anche l'abilità nel tratteggiare personaggi estremamente sfaccettati e al contempo mettere in scena figure macchiettistiche di supporto. Ma è in primo luogo il barocchismo, non solo visivo ma pure di scrittura, ad avvicinare i due autori. D'altronde Shakespeare è annoverabile tra le pietre angolari del Barocco (per certi versi, il "postmodernismo" del Rinascimento) letterario per la sua attitudine intragenere (fu uno dei primi a rompere la rigida divisione fra tragedia e commedia nell'ambito teatrale), l'enorme stratificazione di temi e strutture narrative ma soprattutto per il carattere frequentemente metaletterario (e metateatrale) delle sue opere. In sostanza molti dei tratti più caratteristici del corpus di Welles.
Ma quello che forse è l'esempio più evidente del carattere "shakespeariano" delle opere del regista di Kenosha e di "Touch of Evil" nello specifico sta appunto nei personaggi da lui scritti (soprattutto se per se stesso scritti), figure tragiche e inafferrabili eppure riconoscibilissime, di cui il capitano Hank Quinlan è forse la migliore esemplificazione. A ragione Joseph McBride afferma che egli "può essere considerato la sintesi di molti "cattivi" della carriera di Welles: ha l'energia dittatoriale di Kane, il sarcasmo ironico di Rochester, la mancanza di limiti morali di Macbeth, la brutalità volgare di Renchler ed il sentimentalismo nascosto di Varner" ed è pertanto "degno di Shakespeare"2. Ma sono soprattutto l'ambiguità morale del personaggio, le sue innegabili positività (il grande amore per la giustizia, il senso del dovere, il prodigioso acume, etc...) e i piccoli dettagli intimi (come la passione per i dolci o il bizzarro rapporto che lo lega a Tanya) a renderlo affascinante e vivido. Ma anche gli altri personaggi di rilievo sembrano essere ispirati ad un'opera del drammaturgo britannico: Heston quasi un novello Otello per la sua fedeltà e saldezza morale, a cui fanno da contraltare una discutibile intelligenza e la gelosia, Janet Leigh accorta e pragmatica (e oltre modo sventurata) anti-femme fatale, Joseph Calleia ammirato fiancheggiatore dei misfatti di Quinlan e al contempo principale artefice della sua disfatta.
Così come nei drammi di William Shakespeare la memorabile galleria di personaggi, la ricchezza di toni ed elementi e il cosciente e perciò evidenziato metalinguismo che conduce alla (iper)stilizzazione facilitano il riconoscimento del carattere totalmente artificiale dell'opera presente. Ancora in maniera simile a quella dell'autore inglese Orson Welles però utilizza il proprio barocchismo per dare una parvenza di realtà (ben diversa però da quella attribuita da Bazin ai primi film del regista) alla sua creazione che va così a configurarsi come una riappropriazione del reale e della sua complessità tramite ia condizione fictionale del cinema. Un aspetto determinante di tutto il cinema di Welles che proprio in una delle sue opere più "di genere" raggiunge un indiscutibile apice, eguagliato solo in seguito nella sostanziale (e geniale, in primis) equiparazione fra lo stesso, ormai senescente, Welles e il Falstaff protagonista dell'omonimo film del 1966, guarda caso il più desiderato di tutti gli adattamenti shakespeariani del regista statunitense.
Mettendo in scena quella che potrebbe sembrare solo una (piuttosto melodrammatica) storia di poliziotti corrotti e grotteschi criminali di provincia Welles riesce a creare una tragedia dai toni farseschi che rielabora al meglio la lezione del "maestro" di Stratford-upon-Avon ma soprattutto la propria opera (poiché parlare solo di regia è sempre riduttivo nel caso di Welles) del ventennio precedente, riassumendo in 100 minuti molta della storia del cinema precedente e ancor più di quello futuro (come un altro film) e soprattutto radicalizzando il carattere di ricostruzione della vita mediante il cinema che da sempre è al centro della sua poetica. Quest'utilizzo sfacciato del medium, fra postmodernità e barocco, che è sempre ciò che ha contraddistinto il cinema borgesiano del giocoso ed ambiguo illusionista che è (stato) Orson Welles.
1Veronica Pravadelli, "La grande Hollywood", Pagg. 122-3-44
2 Joseph McBride, "Orson Welles", Pagg. 85-6
cast:
Orson Welles, Charlton Heston, Janet Leigh, Akim Tamiroff, Joseph Calleia, Marlene Dietrich, Mort Mills, Zsa Zsa Gabor
regia:
Orson Welles
titolo originale:
Touch of Evil
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
112'
produzione:
Universal Pictures
sceneggiatura:
Orson Welles
fotografia:
Russell Metty
scenografie:
Alexander Golitzen, Robert Clatworthy
montaggio:
Virgil W. Vogel, Aaron Stell, Edward Curtiss, Walter Murch
costumi:
Bill Thomas
musiche:
Henry Mancini