Svincolato dal rigore del dramma borghese - benché filtrato dal suo stile e dal suo sguardo - che ha raggiunto l'esito più alto e sincero in "Mia madre", Nanni Moretti torna a divagare su un filo di trama che appare un canovaccio risaputo. Il regista Giovanni (Moretti) sta girando un film ambientato a Roma nel 1956, quando dall'Ungheria arriva il circo Budavari. Negli stessi giorni i carri armati sovietici invadono Budapest ed Ennio (Silvio Orlando), redattore dell'Unità e dirigente della sezione del Pci del Quarticciolo, entra in conflitto con la compagna Vera (Barbora Bobulova), militante appassionata e generosa: il primo resta fedele alla linea dettata da Togliatti, la seconda segue quella della sua coscienza. Le riprese però non vanno come previsto e i problemi produttivi e personali si affastellano.
Nanni, "spostati e fammi vedere il film"
Dopo "La stanza del figlio" Nanni Moretti ha operato un processo di graduale dissoluzione del proprio corpo cinematografico, rendendo via via più laterale la sua figura: ne "Il caimano" è uno dei tanti attori che interpreta Silvio Berlusconi; in "Habemus Papam" è lo psichiatra che ha in cura il Papa interpretato magistralmente da Michel Piccoli; in "Mia madre" è il fratello premuroso della protagonista Margherita Buy, che interpreta l'alter ego del regista in un interessante scambio di ruoli; in "Tre piani" è l'inflessibile giudice che morendo in un'ellisse scompare. Il gesto di rimettersi al centro dell'inquadratura divenendo architrave de "Il sol dell'avvenire" costringe il regista a un redde rationem dislocato su più piani (almeno tre): vi è il livello politico-ideologico, quello esistenziale e affettivo, quello (meta)cinematografico. In questa sua ultima fatica si contano infatti almeno tre film: uno dedicato a Giovanni, alla realizzazione dell'opera e al suo rapporto con Paola, sua moglie e produttrice; un secondo che è il film da farsi; un terzo è la pellicola a lungo sognata dal regista, che vorrebbe seguire una giovane coppia per cinquant'anni utilizzando tante belle canzoni italiane come colonna sonora; ve ne sarebbe anche un quarto, "Il nuotatore", tratto dal racconto di John Cheever di cui si sta scrivendo la sceneggiatura.
"Il sol dell'avvenire" è dunque la summa di una poetica e di una pratica cinematografica idiosincratica costituenti uno dei percorsi più coerenti del cinema italiano degli ultimi decenni. Moretti affronta il "morettismo" nel senso di forme e toni, tic e nevrosi che lui ha inventato e incarnato attraverso i diversi alter ego; dopo i primi minuti che coagulano diversi stereotipi morettiani (l'invettiva contro l'attore cretino, l'attrice che indossa i sabot), si potrebbe però ridurre l'operazione a un furbo campionario di autocitazioni perfettamente impaginate e da ripartire in clip virali. La rassegna su vizi e vezzi sottopone il suo cinema a una sincera e commovente autoanalisi che, con pervicacia, fa deflagrare il film e il film-nel-film in rivoli e sottotrame, componendo un metatesto a suggello della sua opera. È un lavoro rischioso e terminale che corre sul doppio binario dell'autoparodia, benché spietata come nella trilogia del suicidio artistico di Takeshi Kitano, e dell'ironia nostalgica, come nel testamentario "Radio America" di Robert Altman.
Te lo ricordi, Michele? Te lo ricordi? Te lo ricordi?
In una scena di "Santiago, Italia", capitolo troppo in fretta dimenticato della filmografia recente di Moretti, il regista entra in scena per dichiarare al militare Eduardo Iturriaga, condannato per omicidio e scontento dell'intervista, che lui no, non è imparziale. La presa di posizione radicale è un'ossessione morettiana che si sviluppa all'interno della sua opera come un sistema nervoso, reagendo ai giusti stimoli. Il conflitto all'interno del film-nel-film rappresenta un nodo irrisolto nella coscienza storica del Partito comunista italiano, una sorta di peccato originale da sviscerare: nonostante un acceso dibattito la Rivoluzione ungherese fu abbandonata a sé stessa e il partito si schierò con l'Urss (ogni riferimento alla presente condizione ucraina è casuale, ma non è la prima volta che il cinema di Moretti appare profetico).
Secondo il produttore Pierre (Amalric), gli artisti del circo Budavari, solidali coi connazionali rivoluzionari, sono una metafora dei partigiani del cinema che resistono nonostante le pressioni dei colossi e, in linea di massima, tutti concordano che il progetto del regista rappresenti la morte di qualcosa (dell'arte, dell'amore, dell'ideologia). L'attrice che interpreta Vera è invece sicura che in modo inconscio stia realizzando un film d'amore travestito da film politico. Giovanni non è altrettanto certo delle sue intenzioni, forse le ha dimenticate o forse non le ha mai analizzate.
Un'altra questione che tormenta Moretti, legata alla coscienza politica, è la necessità di ricordare contrapposta alle diverse forme di amnesia dell'eterno presente che ci domina: era ciò che il giornalista francese denunciava all'inizio di "Aprile" e in "Palombella rossa" rappresentava la vera partita su cui si giocava l'esistenza angosciata di Michele Apicella. Come quell'opera di struggente disperazione e straordinariamente inventiva, anche "Il sol dell'avvenire" è tempestato in maniera più o meno sottile da inquietudini e propositi suicidari. Silvio, che interpreta Ennio, dice che ha sempre desiderato dare il volto a un personaggio che la facesse finita: forse quel sol dell'avvenire lo si può vedere solo nel sogno/incubo della morte, come Michele Apicella dopo essersi schiantato con l'automobile. Non è dunque un caso che il cappio intorno al collo lo provi Giovanni, lasciando subito dopo la scena seguito da una macchina da presa che, con un'angolazione plongée, lo mostra attraversare i diversi set del suo film sintetizzando un viaggio in quel tempo interiore che scandisce il montaggio del cinema morettiano. L'attraversamento delle soglie è peraltro una figura tipica del suo stile sin da quel geniale carrello in "Ecce Bombo" che indietreggiando rivela diverse generazioni di una stessa famiglia affacciarsi l'una sull'altra a scrutarsi, mentre in altri casi mostra l'invisibile trapasso tra la vita e il cinema, la realtà e il sogno, il presente e il ricordo. Se il circo Budavari e il quartiere Quarticciolo ricostruiti negli studi di Cinecittà sono set fisici e mentali in cui riassemblare i pezzi di un'esistenza, questa sfugge di mano al protagonista inchiodato dalle sue manie alla solitudine, sfiancato dalle proprie ossessioni in una cronica depressione.
La psicosi di Michele lascia qui spazio all'atteggiamento dimesso e mesto di Giovanni, consapevole del tempo che passa e della marginalità del proprio lavoro. Sebbene voglia ancora incidere, raramente il personaggio di Moretti è apparso così smarrito e in balia delle decisioni altrui: un corpo spento che anche quando si arrabbia sospira sarcastico "Aiuto" e quando invoca la madre ("Mamma, dammi una mano") sussurra. Al contrario di Michele, Giovanni non urla straziato "Mamma, vienimi a prendere!", perché sa già che "i pomeriggi di maggio e le merendine di quand'era bambino non torneranno più".
Voglio vederti danzare
Mentre il regista sta girando una scena chiave, si rende conto che i dialoghi non funzionano, così entra nell'inquadratura per fermare gli attori. Dopo, però, Giovanni non si sposta, impalla i protagonisti non permettendo il prosieguo delle riprese: è una brillante soluzione espressiva che mostra la forza emotiva di Moretti, spesso ingiustamente sottostimato come puro metteur en scène, proprio perché si innesta in un tessuto di quelle "immagini modeste" di cui molti anni fa parlava Enrico Ghezzi. Giovanni si perde a rincorrere un'altra scena poiché, con un raccordo di montaggio sullo sguardo, visualizziamo il suo fuori campo: dall'altra parte del set si sta svolgendo il film d'amore che sta girando parallelamente con la fantasia. I due innamorati, in urto in una scena precedente, hanno ora dei bambini e su "Voglio vederti danzare" iniziano a ballare come i "dervisci rotanti"; questo movimento semplice e ipnotico contagia anche la realtà di Giovanni e alla fine della sequenza l'intera troupe danza sulle note di Franco Battiato. Il film immaginato tracima nella vita e nel lavoro in un unico e continuo movimento che fa pensare alla risposta di Welles sul set del "La ricotta" a proposito di Fellini: "Egli danza… Egli danza". Non è un musical ma "Il sol dell'avvenire" trabocca di canzoni italiane, alcune cantate da Giovanni, una intonata per intero dal cast ("Sono solo parole" di Noemi) amplificando la sensazione che ogni trama si incastri nella mente del protagonista, rielaborando la retorica visiva della nevrosi del primo Moretti.
Il film sui cinquant'anni insieme di una giovane coppia innamoratasi dopo aver visto "La dolce vita" è la reale chiave metacinematografica di questo film, attraverso cui l'autore trascende il proprio sé raccontando l'amore per il cinema (i primi corti morettiani sono di cinquant'anni fa), un amore eternamente giovane in cui lui appare in scena a suggerire all'orecchio dei protagonisti, deus ex-machina che inventa e si reinventa. Tra crisi, conflitti privati e pubbliche ossessioni, si instaura la continuità tra vita e cinema, ma quest'ultimo ha il potere di ri-mettere in scena provando ad acciuffare l'orlo del bandolo prima che si smarrisca per sempre: è la fiducia nell'immagine - etica prima ancora che estetica - l'unica fede rimasta a Giovanni.
Margherita, fai qualcosa di nuovo, di diverso
Come accennato, delle idiosincrasie morettiane "Il sol dell'avvenire" è una piccola enciclopedia: da quelle feticiste per le scarpe, alla passione per i dolci, a quelle cinefile fino all'autocitazione sui mantra propalati da Netflix come automatico generatore di validazione. La cinefilia morettiana è peculiare e oggetto di diatriba anche per gli estimatori del regista: la gag di questo film, che rimanda a quella leggendaria di "Io e Annie", non è un'esplosione fulminante ("Te lo meriti Alberto Sordi!") né una brillante requisitoria sul linguaggio critico (vedi "Caro diario"). Giovanni blocca le riprese di un giovane ed entusiasta regista il cui film è prodotto dalla moglie perché nota che la costruzione dell'inquadratura su un omicidio è piatta, trita, priva di ingegno artistico. Lo giudica un errore che fa male al cinema, ribatte con un'altra estetica della violenza (Kieslowski) e chiama quali testimoni personalità che nulla c'entrano con la Settima arte: tiene insomma in ostaggio la troupe e noi con loro estenuando la gag in una lezione. E lo stile flemmatico della recitazione di Nanni Moretti sembra esaurire le possibilità comiche fino alla rassegnazione, quando un carrello segue il protagonista voltare le spalle alla scena e allontanarsi, mentre questa, nonostante tutti i suoi sforzi, si svolge in secondo piano come desiderava il giovane regista. Giovanni resta fermo e rigido nelle sue posizioni ma non riesce a imporre sé stesso su un reale che non comprende e da cui non è compreso, poiché con ostinazione mette a fuoco problemi che interessano solo lui.
Lo scarto compiuto da "Il sol dell'avvenire" rispetto ad altre autoanalisi del regista si squaderna nella vivisezione molto personale dell'oggetto-cinema. Ricombinando le forme e le figure che hanno innervato l'arte di Moretti, Giovanni realizza ciò che in "Mia madre" Margherita era esortata a fare dal fratello: "Rompi almeno un tuo schema, uno su duecento". L'infrazione rispetto alla sceneggiatura originale - sacrilegio che stava costando il posto al personaggio della Bobulova - e il ripensamento della (propria) Storia politica attraverso il cinema sono le direzioni che permettono di salvare sé e il film. Nella parata circense e felliniana sfilano (quasi) tutti i personaggi e gli attori morettiani convocati dai diversi tempi della sua vita e della sua carriera per riabbracciarli in un liberatorio sogno collettivo dove liberare, forse, anche sé stesso. "Il sol dell'avvenire" è un film che immagina un nuovo orizzonte cinematografico per Moretti, benché persista l'ambigua e malinconica consapevolezza di "un grande avvenire dietro le spalle".
cast:
Nanni Moretti, Margherita Buy, Barbora Bobulova, Silvio Orlando, Valentina Romani, Blu Yoshimi, Mathieu Amalric, Michele Eburnea, Giuseppe Scoditti, Jerzy Stuhr
regia:
Nanni Moretti
distribuzione:
01 Distribution
durata:
95'
produzione:
Sacher Film, Fandango, Rai Cinema, Le Pacte
sceneggiatura:
Francesca Marciano, Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santella
fotografia:
Michele D'Attanasio
scenografie:
Alessandro Vannucci
montaggio:
Clelio Benenvento
costumi:
Silvia Segoloni
musiche:
Franco Piersanti