Se ci fosse dato di scandagliare autonomamente e con assoluta precisione i pozzi artesiani della coscienza umana al fine di cavarne risposte certe, è probabile che da un lato non esisterebbe la psicanalisi, dall’altro i rapporti interpersonali sarebbero improntati a una congenita empatia. Ma dal momento che le cose stanno diversamente, tutto ciò che è destinato a rimanere almeno in parte incognito è diventato campo d’indagine, oltre che di psicanalisti, anche di scrittori, filosofi e, ovviamente, artisti.
Nel romanzo "Tre piani", dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, tre personaggi che abitano in una palazzina a tre piani di Tel Aviv conducono esistenze profondamente diverse celate dalle barriere architettoniche che li separano, ed essi di fatto conoscono dei condomini solo la punta dell’iceberg che emerge dal quotidiano e distratto tran tran relazionale. Tuttavia, l’ancestrale bisogno di comunicare e soprattutto di condividere il proprio vissuto li spinge a raccontarlo per iscritto a un confidente. Nanni Moretti, assente sul grande schermo dal 2018, ha tratto da questo soggetto l’omonimo film ambientato in un quartiere borghese di Roma.
Mentre nel romanzo i tre racconti sono nettamente separati tra loro, ingenerando in questo modo nel lettore la sensazione di isolamento di un protagonista e quasi il bisogno di passare al racconto del successivo per avere un quadro completo di ciò che accade, la sceneggiatura della trasposizione cinematografica snocciola le vite delle tre famiglie per brevi tappe di pochissimi minuti, passando cioè dalla prima alla seconda, indi alla terza, per poi ricominciare daccapo, con un ordine non prestabilito e perciò stesso spiazzante. In questo modo, lo spettatore viene calato in una diegesi asciutta e compatta, priva di divagazioni, la cui essenza lo pone davanti a temi universali, quali la colpa, il perdono, le conseguenze delle nostre scelte, la giustizia, la responsabilità genitoriale. Il regista romano, tra l’ironico e il polemico, ha dichiarato che sentiva il bisogno di realizzare un film che insistesse sul lascito generazionale che esulasse dalle tematiche ambientaliste; la qualità della vita, in altri termini, è data dalla qualità dei rapporti umani che si lasciano in eredità.
Il concetto di colpa è presente già in apertura del film: Andrea, figlio di due giudici, rientra a casa a folle velocità e a causa dell’ebbrezza investe e uccide una passante prima di sfondare con la macchina la vetrata degli inquilini del piano inferiore. Rispetto al romanzo, al tema del perdono si aggiunge quello delle scuse: Sara rimprovera a Lucio di non aver chiesto scusa né a Renato né a Francesca, così come Vittorio, padre che non riesce a dismettere i panni del giudice inflessibile, non riesce a perdonare il figlio Andrea. Per quanto riguarda il tema delle scelte e delle loro conseguenze, Monica (un’Alba Rohrwacher che surclassa il resto del cast) ospita in casa, all’insaputa del marito, il cognato ricercato, alimentando in tal modo la propria instabilità caratteriale.
Al racconto in prima persona del romanzo, che orienta eticamente il giudizio su persone e fatti, si sostituisce nel film una narrazione non solo asciutta, ma neutra, distaccata, a tratti fredda e attonita, che lascia sulle spalle dello spettatore l’onere della sentenza. La macchina da presa si muove negli interni della palazzina senza punti di vista eccentrici, con inquadrature fisse, oppure avvicinandosi e allontanandosi lentamente, quasi con discrezione. È altresì possibile una chiave di lettura strettamente psicanalitica, freudiana, tra l’altro già presente nel titolo se si dà al termine piano il significato traslato: al primo piano, quello dell’Es, risiede la famiglia in balìa delle passioni e degli istinti (impersonata dal carnale e passionale Lucio); al secondo, quello dell’Io, c’è una donna che cerca di conciliare i desideri con la realtà (Monica che per l’integrità del matrimonio è costretta ad affrontare frequenti periodi di lontananza del marito); mentre al terzo troviamo il Super-Io, che impone di non trascurare l’effetto delle azioni sulla società (Vittorio mette la moglie Dora di fronte all’alternativa di scegliere tra lui e il figlio).
Quello di "Tre piani" è un Moretti privo dell’ironia cui ci avevano abituato "Caro diario" (1993) o "Habemus Papam" (2011) e più vicino al disincanto di "Aprile" (1998). Si può sostenere che nelle dinamiche familiari i vincitori morali siano paradossalmente i bambini e chiediamo a voi di individuare le sequenze in cui ciò emerge più chiaramente. Quanto al confronto con "La stanza del figlio" (2001), le scelte di sceneggiatura di cui si è detto sopra impediscono una sedimentazione degli eventi drammatici a vantaggio invece di una distribuzione sinusoidale della tensione narrativa, fatto che accosta l’ultima opera del regista romano alla produzione per il piccolo schermo. E del Moretti più prettamente "politico" cosa è rimasto? Poco in verità: una brevissima scena, in verità un po’ goffa, in cui una manifestazione xenofoba assale un centro di smistamento di indumenti per i meno abbienti. Più evidente, anche se come sub-plot, la polemica sul machismo, simboleggiato da Lucio.
cast:
Elena Lietti, Adriano Giannini, Riccardo Scamarcio, Margherita Buy, Alice Adamu, Letizia Arno, Stefano Dionisi, Paolo Graziosi, Anna Bonaiuto, Alessandro Sperduti, Denise Tantucci, Nanni Moretti, Alba Rohrwacher
regia:
Nanni Moretti
distribuzione:
01 Distribution, Le Pacte, Filmcoopi
durata:
119'
produzione:
Sacher Film, Fandango, RAI Cinema, Le Pacte
sceneggiatura:
Eshkol Nevo, Nanni Moretti
fotografia:
Michele D'Attanasio
scenografie:
Paola Bizzarri
montaggio:
Clelio Benevento
costumi:
Valentina Taviani
musiche:
Franco Piersanti
Al primo piano di una palazzina vivono Lucio, Sara e la loro bambina di sette anni, Francesca. Nell’appartamento accanto ci sono Giovanna e Renato, che spesso fanno da babysitter alla bambina. Una sera, Renato scompare improvvisamente con Francesca e Lucio teme che alla figlia sia accaduto qualcosa di terribile. Al secondo piano vive Monica, che combatte una silenziosa battaglia contro la solitudine e la paura di diventare preda di disturbi mentali, come sua madre. Dora e Vittorio, ex giudici, vivono al terzo piano con il figlio Andrea. Dopo un omicidio stradale, i rapporti tra padre e figlio si incrinano definitivamente.