Uscito in poche sale nell’aprile 2024 e poi disponibile in streaming su Mubi, "I delinquenti" conferma il grande stato di salute del cinema argentino contemporaneo, incoronato l’anno precedente da quel "Trenque Lauquen" per noi già pietra miliare. Il regista e sceneggiatore Rodrigo Moreno, al 6° lungometraggio, riprendendo (senza far parte del suo collettivo, El Pampero Cine) alcuni elementi di "Trenque Lauquen" (richiamato anche dalla presenza in un piccolo ruolo di Laura Paredes, protagonista del film di Laura Citarella) e altri dai suoi precedenti lavori (in particolare la centralità dei soldi e dei lavoratori della classe media) realizza un’opera che si avvale di un’elaborata messa in scena, un notevole mix di generi e un’acuta riflessione sulla moderna (e globale) società economica. Concentriamoci su questi tre fronti per addentrarci nell’opera.
L’analisi visiva dell’incipit
"I delinquenti" si apre con un primo piano del completo del protagonista Morán (Daniel Elías) posto su una sedia, pronto per essere indossato. Fuoricampo, l’uomo alza le tapparelle facendo entrare nella stanza i raggi del sole del mattino. Mentre è ancora in casa, la macchina da presa si colloca a distanza e, in un campo medio, pone in primo piano le cornici delle porte che stringono il personaggio e si frappongono tra esso e il punto di vista della ripresa. Poi l’uomo beve da una tazza sul balcone: la sua figura è ai margini dell’inquadratura; le tapparelle semiabbassate molto vicine alla sua testa e la grata all’altezza del ventre nuovamente comprimono l’uomo tra due estremi. Poco dopo, scende per le strade di Buenos Aires molto trafficate e si perde tra la folla di persone che come lui stanno iniziando un’altra, sempre uguale, giornata lavorativa. Entrando nella banca in cui è impiegato, si reca subito nel caveau: la cinepresa si pone a distanza, mettendo in rilievo le grate dell’inferriata e l’uomo dietro di essa, come se fosse in prigione, fino ad arrivare a un mascherino intradiegetico del personaggio, replicato poco più avanti da un oblo. Eccolo così con un collega a contare i soldi, con il particolare delle mani dall’immediato rimando bressoniano (poi citato esplicitamente).
Arriviamo così negli uffici, dove la regia mostra i tanti piccoli scompartimenti di ogni dipendente uno attaccato all’altro, in una visione che il cinema statunitense, da "La folla" di King Vidor a "Gli incredibili" della Pixar, ha spesso proposto. Ne "I delinquenti", il regista, ponendo ancora una volta la camera in campo medio, mette in rilievo il soffitto molto basso e le pareti, che soffocano tutti i presenti. Morán ha un ufficio che sta ai margini ed è separato da una lastra di vetro, e, come il protagonista di "La fiamma del peccato", riprendendo l’analisi di Antonio Pettierre, quando esce si muove nel perimetro della stanza. Al termine della giornata lavorativa, lo vediamo abbandonare l’edificio con circospezione: una volta tornato a casa, abbassa le persiane e tutto diventa buio. Può dunque cominciare il noir: scopriamo infatti che dalla banca ha rubato 650 mila dollari, che equivalgono al doppio di quanto avrebbe guadagnato negli oltre vent’anni che lo attenderebbero prima della pensione. Il suo piano: affidare il malloppo, dividendo l’ammontare complessivo, a un collega, Román (Esteban Bigliardi), consegnarsi alla polizia (senza rivelare l’ubicazione dei soldi) così da scontare sei anni (tre e mezzo per buona condotta, spera) dopo i quali essere finalmente libero. Ne parla a Román in un bar: dopo una breve titubanza, quest’ultimo accetta.
In un film di circa tre ore, i primi 20 minuti descritti sopra sono dunque fondamentali per iscrivere visivamente (e narrativamente, come vedremo) le coordinate principali della storia: l’incipit caratterizza i personaggi, anticipa il loro destino e i temi al centro della storia, esplicita l’adesione a un genere ben definito.
Dal noir alla love story
[Per semplicità, i paragrafi che seguono la fabula del racconto, anticipando i principali eventi del film].
La struttura narrativa portante de "I delinquenti" è dunque quella del noir. Moreno non adotta l’orizzonte consapevolmente di secondo grado del noir postmoderno (soprattutto di matrice coeniana): guarda per certi versi (e per altri si distanzia) alla tradizione classica. Seguendo i suoi canoni, possiamo dire che Morán sia la dark lady che coinvolge un uomo ignaro (Ramon) a "uccidere" un comune "marito" cattivo (la moderna società economica). In sintonia con i suoi topoi, i protagonisti sono due uomini qualunque che architettano un misfatto, il genere è il grimaldello per scavare nei problemi della società contemporanea, così come l’utilizzo di analessi, prolessi ed ellissi instaura una temporalità complessa (che in questo caso rimanda anche a "Trenque Lauquen"). In dissintonia, "I delinquenti" propone un finale aperto e speranzoso, rispetto a quello tipico cupo e fatalista. e soprattutto una diversa caratterizzazione dei protagonisti, sotto il profilo della moralità. Cardine del noir è il confine labile tra bene e male, personaggi buoni e cattivi, poliziotti e criminali. Anche Morán e Ramon sarebbero due delinquenti, come parrebbe suggerire il titolo, ma il loro ritratto che ne emerge è assolutamente positivo: il "cattivo" è il sistema che ha messo al centro di tutto il lavoro, come ha modo di spiegare Morán.
Aspetto che ritorna anche nel rapporto con il sottogenere heist movie, che raggruppa i film sulle rapine (specialmente in banca) e del resto spesso porta con sé i tratti del noir ("Giungla d’asfalto", "Rapina a mano armata"). Ne "I delinquenti" non ci sono povertà o un background criminoso a spingere al colpo grosso il protagonista, bensì la condizione di medietà (o mediocrità) dell’uomo comune, insostenibile nel mondo di oggi.
Un ulteriore riferimento è dato da "L’argent" di Robert Bresson, che Ramon guarda in una sala cinematografica. Nel volume "French Film Noir", Robin Buss ascrive al genere l’opera del regista francese in quanto "per gran parte della sua durata, tutti gli scambi sono ridotti allo schema di transazioni finanziarie, anche quando quest’ultime non sono coinvolte. I protagonisti comunicano tramite scrivanie, sportelli, tavoli, il banco del giudice nell’aula di tribunale, il pannello di vetro nella stanza delle visite in prigione" [1]. Coordinate che richiamano la rappresentazione dell’ufficio bancario all’inizio de "I delinquenti", dove, riprendendo quanto detto poc’anzi (non ce ne eravamo dimenticati), il primo contatto coi clienti avviene attraverso una grande lastra di vetro e la macchina da presa si pone proprio orizzontalmente rispetto a essa, facendo quasi scomparire le persone dietro lo sportello.
Tutto cambia quando, prima di consegnarsi, Morán intraprende un viaggio in un territorio di campagna premontano, in un contesto diametralmente opposto a quello metropolitano. Come il personaggio di Franz Rogowski appena arriva a Marsiglia ne "La donna dello scrittore", il primo contatto con una realtà nuova e sconosciuta si crea giocando a calcio con dei ragazzini, sport e linguaggio universale. In questa scena, Moreno propone un campo lungo dove, significativamente, non ci sono ostacoli tra il punto di vista della camera e l’uomo, che così appare immerso nel paesaggio circostante. Morán si immerge nella natura e scopre un altro ritmo di vita, così fa il film stesso. In questo frangente, "I delinquenti" assume tempi dilatati, pochi dialoghi, attese e un approccio contemplativo. Come "Trenque Lauquen", ma senza la sua radicalità, fa dunque propri "la riflessione e alcuni tempi da slow cinema […] senza trascurare l’aspetto narrativo” (riprendiamo le parole della nostra pietra miliare). In un momento chiave, la macchina da presa resta fissa per alcuni istanti a inquadrare un laghetto naturale mentre i personaggi si muovono fuori dall’inquadratura e restano fuoricampo, per poi tornare da loro con un repentino movimento (quasi come se si accorgesse di essere rimasta incantata). In questo contesto di riferimento, il film di Moreno ha dunque il merito di portare alcune coordinate del film di Citarella (e in generale del Pampero Cine) in un (maggiormente) marcato universo di (dei) generi, mettendo sempre in primo piano il piacere del racconto.
In sintonia col recente "What Do We See When We Look at the Sky?", la questione passa anche su un livello metatestuale con la presenza di una piccola troupe che Morán (e poi Román) incontra e che scopre stare girando da un anno e mezzo un documentario sul luogo, "di natura incontaminata, senza intervento umano". Un’opera che, dicono loro stessi, "cambia continuamente, come il paesaggio". Tra loro, c’è Norma (Margarita Molfino), che gestisce una fattoria con la sorella Morna e li aiuta: Morán (e poi Román) finisce per innamorarsi di lei e iniziare una relazione. "I delinquenti" assume qui i connotati di una love story, genere con cui Moreno gioca con notevole capacità di sintesi. Quando lei e Ramon si devono momentaneamente lasciare, ecco che improvvisamente piove a dirotto, un’immagine che suscita immediata commozione, resa archetipica da tanti film celebri, che siano "Quattro matrimoni e un funerale" o "I ponti di Madison County".
L’idillio tra Norma e Morán è destinato a finire perché l’uomo si consegna e finisce in prigione, dove scopre una realtà molto più dura di quella che si immaginava. In poche scene, il film si allaccia dunque al genere carcerario, riprendendo lo stile crudo e realista di "Il profeta" di Jacques Audiard (nonché la fotografia, con i piccoli sprazzi di luce in interni quasi completamente al buio). Ma non solo: in una veloce immagine, vediamo Garrincha (il boss della prigione) seduto nell’ora d’aria sul gradino in alto di una gradinata, con sotto altri internati. Una disposizione che richiama "Fuga da Alcatraz", in cui il protagonista, interpretato da Clint Eastwood, durante l’ora d’aria in cortile cerca di parlare con l’afroamericano English, seduto sulla fila più alta di una serie di gradini. Quando prova a salire, è fermato da altri afroamericani che occupano i piani inferiori. "Più in alto siedi, più in alto è il tuo rango", gli spiega poi English. "Sono come i gradini della scala sociale, e anche qui bisogna conquistarseli". A questo quadro, "I delinquenti" aggiunge un fattore: sopra Garrincha vediamo un altro uomo, che resta in silenzio e che possiamo dedurre essere ancora più in alto di lui nelle gerarchie della prigione. Il carnefice ha a sua volta un suo carnefice.
Il tema del doppio
Per parlare ora dei personaggi e i temi del film, torniamo all’incipit. La regia e la storia delineano Morán come un comune impiegato, che si perde nella folla. Nella prima scena in banca, arriva un’anziana signora che vorrebbe depositare un assegno, il quale però dà problemi in quanto la firma della donna risulta identica a quella di un altro cliente (introducendo così il tema del doppio). Mentre per il direttore Del Toro questo è un impedimento sufficiente a bloccare l’operazione, Morán cerca di fornirne spiegazione plausibile: "Se c’è chi ha la stessa grafia, ci può essere chi ha la stessa firma". In una pausa, chiacchera con una collega a cui dice di voler smettere di fumare, accettando però subito dopo una sigaretta.
Questi passaggi rendono l’idea di un uomo che, alla fredda ragione della banca e del suo direttore, che persegue l’orizzonte del profitto, contrappone e si fa paladino della logica che mette al centro l’uomo. Allo stesso tempo, la battuta sulla sigaretta fa di lui un moderno Zeno Cosini che però riesce a vincere l’inettitudine portando a termine il suo piano e cambiando vita. Le ragioni dietro il suo atto le spiega a Norma: "Anche se non ho niente da fare, devo comunque andare a lavorare, fare le stesse cose, vestirmi uguale, circondato dalle stesse persone, ogni giorno. Viviamo solo per lavorare”. Così tre anni in prigione è una prospettiva migliore di venti al lavoro, un carcere più asfissiante e pervasivo.
Il legame tra le due realtà è poi suggerito dal fatto che l’interprete del direttore della banca, Germán de Silva, veste i panni anche di Garrincha, stabilendo un beffardo parallelismo tra i due personaggi, che in un microcosmo assoggettano alle proprie regole e Morán gli altri per il proprio tornaconto.
Morán è poi messo in relazione con Román, suo collega e compagno nell’impresa delinquenziale. I loro nomi sono l’uno l’anagramma dell’altro (mentre Ramón si chiama il regista del documentario) così come le stesse cinque lettere compongono i nomi delle due sorelle in campagna (Norma e Morna). La regia li lega visivamente attraverso chiari parallelismi: le cornici e le porte che li stringono, i simili mascherini intradiegetici su di loro, le grate delle porte in carcere quando il secondo va a trovare il primo. Anche narrativamente, i due vanno incontro a un percorso simile: Morán consiglia a Román di nascondere i soldi in un punto preciso della montagna dove era stato in precedenza, e quest’ultimo finisce per imbattersi nella stessa troupe e proprio in Norma, di cui si innamora. Se lei e Morán consumano la loro relazione nei boschi, con Román invece si reincontra a Buenos Aires. Quest’ultimo infatti, dopo la parentesi in campagna, fa ritorno nella prigione della metropoli e non a caso in una scena la stanza dove lui è al buio viene messa in relazione tramite uno split screen con la cella di Morán. Per poter essere realmente libero, Román deve lasciare suo malgrado la donna (che, scoprendo il legame e il piano dei due uomini, fugge da entrambi) e immergersi, questa volta definitivamente, nella natura, senza neanche più pensare ai soldi. Arriva fino al punto dove ha nascosto il bottino e aspetta forse Morán, che intanto è uscito di prigione, e, dopo essere passato dalla fattoria senza trovare nessuno, cavalca libero nello sconfinato spazio desertico. In un finale che, ancora una volta, da una parte richiama quello di "Trenque Lauquen", dall’altra ha qui un sapore molto western, a proposito di grandi generi cinematografici.
[1] R. Buss, French Film Noir, Marion Boyars Publishers, Londra, 1994, pag. 140.
cast:
Daniel Elías, Esteban Bigliardi, Margarita Molfino, Germán de Silva, Laura Paredes
regia:
Rodrigo Moreno
titolo originale:
Los delincuentes
distribuzione:
Mubi
durata:
189'
produzione:
Wanka Cine, Les Films Fauves, Sancho&Punta, Jirafa Films, Jaque Productora, Rizoma Films
sceneggiatura:
Rodrigo Moreno
fotografia:
Inés Duacastella, Alejo Maglio
montaggio:
Karen Akerman, Manuel Ferrari, Nicolás Goldbart, Rodrigo Moreno
costumi:
Flora Caligiuri