La difesa della propria abitazione come rifugio dei beni materiali e immateriali del nucleo familiare è un sentimento intimo che ci portiamo dietro fin dalla notte dei tempi. Nel cinema, le storie di attacchi di malviventi o di assassini hanno creato l'
home invasion un sottogenere del thriller e dell'horror che vede il suo capostipite in "Ore disperate" (1955) di William Wyler.
"Breaking in" di James McTeigue s'inserisce in questa corrente dove la maggior parte del film è ambientata in una casa con la famiglia (o parte di essa) sotto assedio da malviventi spinti dai più disparati motivi. In questo caso siamo alle prese con un gruppo di banditi che vogliono rubare cinque milioni di dollari in una villa ultratecnologica isolata appartenente a un ricco finanziere ucciso per recuperare il bottino. Ci vanno di mezzo Shaun Russel (Gabrielle Union) e i suoi due figli che per il fine settimana vanno nella casa avita per liquidarla dopo i funerali del padre di Shaun.
Scritto da Ryan Engle, specialista di thriller e collaboratore di Jaume Collet-Serra (l'ultimo suo film è "
L'uomo sul treno - The Commuter"), "Breaking In" vede la lotta di Shaun contro i quattro banditi che tengono prigionieri i suoi due figli e la lotta per salvarli dalla minaccia della banda senza scrupoli. Il film a tratti ricorda un'altra opera (ben più riuscita) quel "
Panic Room" di
David Fincher, ribaltandone i ruoli: lì erano una madre e sua figlia in lotta contro una banda di rapinatori per impossessarsi di un bottino nascosto in una casa. Se in "Panic Room" l'azione avveniva in una palazzina in città, la famiglia era bianca e i rapinatori erano comandati da un nero, in "Breaking In" la famiglia è di colore e la banda è capitanata da un bianco in una villa isolata nel verde in un piccolo villaggio della ricca borghesia americana.
Il tema della figura materna, che si trasforma in eroina per salvare la propria prole, è all'interno di un "politicamente corretto" rappresentato da una
black family del tutto emancipata. La figura femminile è il centro iconico della pellicola dove la normalità di una madre è la forza di sopravvivenza e di affermazione della famiglia contro il pericolo esterno, in un ribaltamento sociale abbastanza tipico in molta filmografia di questi anni. Del resto, la storia personale dell'attrice (ex modella) Gabrielle Union, vittima di uno stupro da giovane, sembra quasi traslarsi in "Breaking In" come esempio di rielaborazione psicanalitica dell'evento reale nella finzione filmica, in un
transfert tra attrice e personaggio che permette di instillare una vena di riscatto e di giustizia personale.
Il regista James McTeigue ha debuttato dietro la macchina da presa con l'interessante "
V per vendetta", patrocinato dalle sorelle Wachoski, con cui ha collaborato alla trilogia di
Matrix. Ma se in quel film si vede l'influenza della coppia di registe transgender, nel proseguo della sua breve carriera McTeigue ha mostrato la corda con opere poco riuscite ("
The Raven") se non proprio fallimentari ("
Survivor"). "Breakin In" continua a essere un film soprattutto di genere, girato con pochi mezzi e con attori di seconda fila, su una sceneggiatura standard e omologata. Se la tensione è tenuta costante per tutto il film, giocando su continui ribaltamenti delle posizioni di forza tra Shaun e i rapinatori, lo sviluppo diegetico è alquanto telefonato con colpi di scena in cui il risultato è sempre la vittoria della figura materna che non può uscirne sconfitta, pena la mancanza di una spinta narrativa per trascinare il film verso un finale prevedibile e scontato.
Anche la messa in scena si focalizza su una scenografia in cui la casa ipertecnologica è la vera protagonista silente - tautologico
genius loci: completamente automatizzata e impermeabile agli attacchi esterni con tutti gli allarmi e il sistema di videoserveglianza esterno e interno, eppure allo stesso tempo fragile poiché basta tagliare il cavo di connessione con la rete dati nel garage per metterla in scacco. Così sembra che anche i più sofisticati strumenti di sicurezza sono nulla per chi abbia volontà di delinquere e che solo la forza materna (vero "utero emotivo") può salvare la famiglia. Così gli attori si muovono all'interno di essa come in un labirinto con prove di forza e intelligenza lasciate lungo il percorso filmico come in un esperimento sociale in laboratorio.
Ma il regista australiano non aggiunge una qualche visione originale e il suo utilizzo del mezzo cinematografico si rivela ordinario al servizio di una struttura narrativa un po' troppo bolsa e, al di là di alcuni ribaltamenti di ruolo, dal sapore di già visto.