Al tempo del cinema muto, quando i
cartelli ornavano gli interludi tra le pantomime degli attori e una Hollywood parsimoniosa mutuava dall'universo della gastronomia il principio per cui della pellicola - come del proverbiale suino - non si butta niente, era prassi comune risollevare l'ingrato destino dei film malriusciti cambiando il contenuto delle didascalie in fase di post-produzione. Lo racconta Alfred Hitchcock a un divertito
François Truffaut nel libro-intervista "Il cinema secondo Hitchcock": quando l'inettitudine di attori e tecnici comprometteva la natura drammatica di un testo sino a volgerlo al ridicolo involontario, i solerti produttori, piuttosto che ingiuriare il fato avverso, cercavano di limitare i danni e, chiusi in sala montaggio, riscrivevano, coi titolisti, i dialoghi che sarebbero apparsi sui cartelli, tramutando melensi
feuilleton resi inservibili da interpretazioni parossistiche in briose satire di costume, allegre e spensierate.
L'avvento del sonoro ha reso tutto più complesso e se in "
Cantando sotto la pioggia" Stanley Donen riusciva ancora, per virtù di ingegno, a trasformare l'invendibile melodramma in costume "Il cavaliere spadaccino" nel musical di successo "Il cavaliere della danza", oggi la strategia appare inservibile e, semmai, demandata alla zelante fantasia del pubblico. Prendiamo, a esempio, questo "Survivor", opera quarta di James McTeigue - dopo l'allegro disastro di "
The Raven". Potremmo dire che il film racconti di una seriosa ufficiale dei servizi segreti (Milla Jovovich) curiosamente scampata a un attentato in cui diversi suoi colleghi hanno perso la vita. Accusata ingiustamente di omicidio si ritrova, inoltre, inseguita dall'Orologiaio, un Pierce Brosnan bolso e incanutito, che arranca per tutto il film nel mancato tentativo di acchiappare la sua facile preda senza mettere a segno un singolo colpo, a dispetto della presunta mira proverbiale.
Alternativamente si potrebbe raccontare la storia in questi termini: un'irreprensibile impiegata del Dipartimento di Stato Usa, cammina per le strade di Londra con gli occhi sbarrati e il passo barcollante di chi ha alzato il gomito; giunta sul luogo di un'esplosione si aggira singhiozzando tra le macerie, quando un elegante
gentleman coi baffi le punta addosso una pistola. In dubbio sul da farsi, spalanca ancor più le palpebre e decide, infine, di scappare, dando suo malgrado l'avvio a un'intrigante caccia alla donna, che culmina nell'appartamento di un suo collega, dove l'Orologiaio (astuto assassino ricco di esperienze che guarda ovunque ma non dietro il divano) cerca di stanarla come fosse l'ispettore Clouseau, tanto che non ci sorprenderemmo se la fuga finisse a porte in faccia. E mentre la fanciulla infila la scalinata a chiocciola, il nostro intraprendente
gentleman si tuffa nel mezzo facendo strage di lampadari, forse memore delle pose ginniche dell'agente 007.
Che il film si presti a un simile ribaltamento non è certo buona cosa, ma la prospettiva comica ha il vantaggio di rendere accettabile l'ora e mezza che precede i titoli di coda, tra improbabili burocrati che in clima post undici Settembre invitano i dipendenti, con garbo politicamente corretto, a non eccedere nell'applicazione delle norme di sicurezza, detonatori che brillano sugli
smartphone come fossero applicazioni scaricabili via internet, facili moraline gettate senza ritegno sugli spettatori prima che una didascalia ci informi sul numero di attentati terroristici sventati dalle forze dell'ordine in territorio Usa. Quando, poi, su un sospiro contrito della protagonista appaiono in dissolvenza le immagini del World Trade Center è difficile per lo spettatore trattenere un moto di esasperazione per la scoperta ovvietà del riferimento.
In questo senso "Survivor" ama giocare con allusioni dirette e inequivocabili, fuggendo qualsiasi sfumatura e chiudendosi scientemente per tutta la durata in una tremenda bolla di ovattato perbenismo, sia politico che stilistico; al punto che la scoperta noncuranza con cui si accenna al movente economico - anziché ideologico - dell'attacco terroristico non fa che deprezzare ulteriormente il progetto.
A dispetto della parabola discendente percorsa negli anni da McTeigue, va detto che la regia, così inconsistente da rendersi invisibile, è, forse, il male minore di una pellicola, in cui la trita superficialità dei dialoghi grida vendetta a ogni schiusa labiale e la recitazione si arresta oltre la soglia del tollerabile. E se Brosnan ha creduto che bastasse piegare gli angoli della bocca in una smorfia da tragedia greca per connotare un cattivo di riguardo, Milla Jovovich ci ha ricordato il commento di Sergio Leone sull'elementare binomio espressivo di Clint Eastwood a inizio carriera: con e senza cappello.
Disgraziatamente la Jovovich non dispone nemmeno di un cappello.
25/05/2015