Moonrise Kingdom
In "Oppenheimer", ultima pellicola di Christopher Nolan, il protagonista dice che il suo sogno è fondere la fisica e il New Mexico, stato di cui è innamorato e che usa come luogo dell'anima in cui far defluire le tensioni della ricerca scientifica e del mondo accademico. "Asteroid City" è ambientato in un non meglio identificato deserto al di là delle Montagne rocciose e presenta i medesimi spazi western del della Los Alamos di Oppenheimer. In questa curiosa ambientazione, epitome dell'America da cui Anderson proviene (è texano), ricostruita però nel deserto spagnolo, ogni tanto si sente un boato e si vede un fungo atomico levarsi sullo sfondo. È un test nucleare, si dirà. Segno concreto di tensioni e paranoie contemporanee proiettate in una versione retrofuturista degli happy days degli anni Cinquanta.
Asteroid City conta 87 abitanti. È una cittadina del deserto insediata nei pressi del cratere di un meteorite caduto 5000 anni fa. È provvista di bungalow, un'officina, un diner, una rampa sospesa sul vuoto per un errore di calcolo. È attraversata da un binario ferroviario su cui viaggia un treno merci che va a 10 km l'ora, il tenutario dei bungalow ha dei distributori automatici che servono per ogni evenienza, tra queste c'è l'acquisto di un lotto di deserto, un investimento nel caso di sviluppo urbano. C'è anche un osservatorio spaziale e qui si svolge l'"Asteroid Day", un concorso annuale per giovani e brillanti scienziati che presentano le proprie invenzioni, venendo premiati da una fondazione privata insieme all'esercito degli Stati Uniti (che si appropria così dei brevetti).
Fig. 1. Cornice e supercornice: soglie narrative in "Grand Budapest Hotel" (sopra), spazi narrativi e scenici in "Asteroid City" (sotto).
Anderson sottolinea l'essenza profondamente americana dell'ambientazione e, come accadeva in "Moonrise Kingdom", questo ritorno a casa genera un'opera maggiormente stratificata, abile nel riproporre sé e il suo stile ma generando momenti di spiazzamento. Dopo "The French Dispatch", summa metatestuale che sapeva di requiem, il regista firma un'opera contigua sul piano concettuale ma speculare su toni e forme. Quanto il film precedente era zeppo di dettagli, quanto questo è astratto; se da una parte avevamo diverse tavolozze di colore, qui la campitura cromatica è definita e la palette ridotta soprattutto sulle gradazioni della southeast color palette.
Lo stile andersoniano che in "The French Dispatch" era manierismo esibito in vignette, compresse del suo mondo autoriale, in "Asteroid City" allarga il respiro: la macchina da presa taglia lo spazio scenico, muovendosi tra elaborati tracking shot e panoramiche che aprono e attraversano la realtà fittizia della cittadina. In tal modo la regia dona quella tridimensionalità apparentemente assente sul set, dove il sole a picco proietta ombre nette e il rapporto tra figure e sfondo genera un ambiente astratto, la forma live action del deserto dei "Looney Tunes". La sfida affrontata dal direttore della fotografia Robert Yeoman è il lavoro attraverso la luce naturale, sfruttando appieno il sole bianco, accecante e impietoso del deserto spagnolo. L'ambizione di Anderson è la costruzione del solito microcosmo vivido e tridimensionale su una messa in scena che non cela la natura teatrale del set, comprendente location reali, manufatti scenografici e modellini. Il virtuosismo coloristico del regista si esprime nelle campiture ocra del deserto, in quelle bianco panna delle case in legno e in quelle azzurre del cielo e sulle diverse gradazioni e interazioni di questi colori dominanti. Al contempo le cromie si riverberano simbolicamente sulle dominanti tematiche: la terra e il cielo, l'uomo e l'alieno, il palcoscenico e la realtà. "Asteroid City" si pone interrogativi universali senza fornire risposte, amalgamando l'afflato cosmico della storia alle questioni che affliggono da sempre i personaggi andersoniani: la difficoltà degli affetti familiari e della comunicazione, l'essere giovani in un mondo di adulti, la scoperta dell'Altro, il lutto e la sua elaborazione.
Asteroid City, però, non esiste e, come Ennui-sur-Blasé di "The French Dispatch", è un altro moonrise kingdom di Wes Anderson. Il ricorso alla struttura a matrioska di cornice e super-cornice è annunciato sin dall'incipit, quando il presentatore di un programma televisivo (Bryan Cranston) informa che Asteroid City è la città immaginaria di un testo teatrale (fig. 1). E nemmeno il testo teatrale esiste ma è un'ipotesi, una fabbricazione volta a raccontare il processo creativo dietro a una pièce e al suo allestimento sul palcoscenico.
W for W(ell)es
Il programma televisivo è girato in studio, in bianco e nero e in Academy Ratio (1.37:1), la pièce a colori in widescreen (2.39:1), la divisione è apparentemente inequivocabile ma nel corso del film i due livelli comunicano. Il programma televisivo è sia uno studio sull'atto creativo e sull'intimità che si instaura tra il drammaturgo Conrad Earp (Edward Norton, che riassume i grandi autori teatrali americani) e i suoi personaggi, sia sull'organizzazione dello spettacolo teatrale che guarda esplicitamente a Elia Kazan, raffigurato dal regista Schubert Green (Adrien Brody).
Ad Asteroid City, dove si incrociano numerosi personaggi, Anderson crea una mondanità fatta di chit-chat, riti infantili, sfide adolescenziali, primi amori e passioni adulte, osservazione delle stelle e incontri ravvicinati del terzo tipo. Sono quadri di quotidianità ed eccezionalità dalle tonalità pastello, che rimandano alle scene di Norman Rockwell e di altri illustratori americani (fig. 2). Le battute affilate da quel lieve cinismo e l'umorismo deadpan sono invece tratti irrinunciabili della scrittura di Anderson, che ha composto la sceneggiatura insieme all'amico Roman Coppola.
Fig. 2. Immaginari americani: sopra due scene di "Asteroid City", sotto due illustrazioni, la prima del celebre Norman Rockwell, la seconda del blogger "Roger Wilkerson".
Il consueto approccio planimetrico e l'adozione di simmetrie bilaterali trova in "Asteroid City" un'interessante variazione nell'uso dello split screen: in questo modo due personaggi che parlano per telefono comunicano con l'interlocutore guardando direttamente di fronte a sé, oppure guardando in faccia l'altro posto nell'adiacente sezione dell'inquadratura. In altre scene sono invece gli elementi architettonici della scenografia a fungere da linee di demarcazione, separando personaggi compresenti nel medesimo ambiente (fig. 3).
Fig. 3. Esempi di linee, split screen e quadri nel quadro in "Grand Budapest Hotel", "Fantastic Mr. Fox" (sopra) e "Asteroid City" (sotto).
L'eccentrica storia d'amore tra il fotografo di guerra Augie Steenbeck (Jason Schwartzman) e la diva Midge Campbell (Scarlett Johansson) è costruita sul montaggio di campo e controcampo, con gli attori incorniciati dalla finestra in un gioco di surcadrage che amplifica le soluzioni espressive e le possibilità di contenimento dello schermo. I personaggi si allontanano e si avvicinano alla finestra, provano le scene che l'attrice deve recitare e il fotografo le fa vedere in anteprima i suoi scatti: in questo montaggio di primi piani i protagonisti rimangono separati ma posizionati perpendicolarmente rispetto alla macchina da presa - à la Ozu, come più volte ha puntualizzato Dario Tomasi - in modo che l'intreccio da loro rappresentato di solitudine, egoismo e disperazione esistenziale abbia un punto di fuga nello sguardo verso l'altro.
Il gesto ripetuto di guardare fuori dalla finestra rimanda a una serie di dipinti di Edward Hopper, pittore di immagini sospese, tese verso l'epifania, la rivelazione metafisica del fuori campo (fig. 4). Al contrario di Anderson che è ossessionato dallo svelamento del fuori campo, sia tramite una carrellata laterale spinta dallo sguardo di un personaggio, sia da un movimento di macchina a 360° che mostra l'orizzonte del visibile, in modo tale che ogni elemento del profilmico prima o poi venga inquadrato. La macchina da presa che ruota su sé stessa lascia però che i personaggi escano dall'inquadratura per ritrovarli, un attimo dopo, in un angolo diverso: l'ansia di certificare l'esistenza tramite l'esercizio dello sguardo ha un attimo di sospensione.
Fig. 4. Uomini e donne alla finestra in Wes Anderson e Edward Hopper.
Quale sia il nucleo di "Asteroid City" non è però chiaro a nessuno: il drammaturgo se lo domanda ancora incerto e gli attori non comprendono perché debbano reagire in un determinato modo. L'alieno è una metafora oppure è un alter-ego, così come Conrad Earp che scompare durante il programma? Sul film si percepisce l'eco del recente lockdown e la paranoia della Guerra fredda ma, al contempo, emerge la consapevolezza che niente esiste, ogni cosa è fabbricata e, pertanto, reinventata nella forma del caos controllato del cinema andersoniano.
In "Asteroid City" la cinefilia del regista si confronta anche con l'eredità wellesiana, naturalmente declinata attraverso la lente del proprio sguardo e piegata alle proprie idiosincrasie. Difficile non scorgere nel programma televisivo che racconta la creazione e l'allestimento di uno spettacolo teatrale, il quale a sua volta ha quale fulcro narrativo il primo contatto con la vita extraterrestre, un riferimento alle gesta del giovane Orson Welles, istrione alla guida del Mercury Theatre che gettò nel panico gli ascoltatori della sua riduzione radiofonica di "La guerra dei mondi". Questa riflessione sugli infiniti gradi di finzione che riesce a coniugare, in modo per ora inedito, sia una ponderata analisi sulle forme della propria messa in scena, sia un sincero omaggio al coro dei suoi attori, è pure profondamente wellesiana. Nel film accade che le carrellate laterali passino dal palcoscenico al dietro le quinte: una volta il presentatore entra in scena per errore, in altri casi gli attori escono dal palco smettendo temporaneamente i panni dei personaggi in una finzione al cubo che esaurisce la realtà nel microcosmo fittizio. La ricerca di senso e di un senso si arena, le esistenze dolorosamente inceppate dei personaggi galleggiano tra set e backstage e i segreti dell'universo rimangono tali, l'unica certezza è che la fotografia scattata riesca, che l'immagine riveli sé stessa.
Tra le sequenze più magiche di "Asteroid City" è da annoverare la lezione di recitazione, omaggio al leggendario Actors Studio, dove Willem Dafoe (nelle vesti di una sorta di Lee Strasberg) dice ai giovani attori: "Siate inerti, poi sognate". Dopo essere scivolati in uno stato catatonico - e aver visto un altro segmento della pièce - Anderson inquadra il suo cast in un profluvio di dutch angles mentre scandiscono come un mantra la frase "Non puoi svegliarti, se non ti addormenti".
È forse il sogno condiviso il baricentro di "Asteroid City", lo spazio liminare del set, in perfetto equilibrio tra astrazione immaginativa e concreta rappresentazione, che permette l'armonia tra persone diverse, sviluppa relazioni sincere e persino scampoli di amore e affetto. Poi si aprono gli occhi e tutto svanisce, i compagni se ne vanno, il set è in disarmo.
cast:
Jason Schwartzman, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Bryan Cranston, Tilda Swinton, Jeffrey Wright, Edward Norton, Adrien Brody, Liev Schreiber, Hope Davis, Steve Carell, Stephen Park, Rupert Friend, Maya Hawke, Matt Dillon, Hong Chau, Tony Revolori, Willem Dafoe, Jeff Goldblum, Jack Ryan, Sophia Lillis, Jarvis Cocker, Margot Robbie
regia:
Wes Anderson
titolo originale:
Asteroid City
distribuzione:
American Empirical Pictures, Indian Paintbrush
durata:
105'
produzione:
Universal Pictures
sceneggiatura:
Wes Anderson, Roman Coppola
fotografia:
Robert Yeoman
scenografie:
Adam Stockhausen
montaggio:
Barney Pilling
costumi:
Milena Canonero
musiche:
Alexandre Desplat