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recensione di Giuseppe Gangi
6.0/10

the french dispatch wes anderson

Wes Anderson completa il processo di mappatura tematica e di stilizzazione del proprio linguaggio con "I Tenenbaum" (2001), il suo terzo lungometraggio. Di lì in poi proseguirà secondo lo schema della variatio/amplificatio, un complesso di artifici retorici per cui al meccanismo della ripetizione si associa l'amplificazione, tecnica trasformativa che genera prospettive, registri e tonalità differenti. Il manifesto teorico di questo metodo viene inscenato nel prologo dell'eccellente "Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore" (2012), che segna anche l'ultimo vero ritorno a casa di un regista dalla vocazione transnazionale e cosmopolita. Gli ultimi tre film insistono, infatti, nell'elemento "global" del suo cinema: "Grand Budapest Hotel" (2014) è un omaggio alla cultura Mitteleuropea sotto la guida spirituale di Stephen Zweig e formale del Lubitsch touch, l'animazione in stop-motion di "L'isola dei cani" (2018) è un atto d'amore nei confronti della cultura pop giapponese (frullando insieme immaginario pittorico, calligrafico, manga e anime) e in "The French Dispatch" può esternare il suo affetto per Parigi (da anni la sua seconda casa) e la devozione per i cineasti francesi (da Renoir a Truffaut, da Malle a Godard).
La struttura di "The French Dispatch" non ricorda però il cinema francese, bensì quello italiano. Sin dal 2014 Anderson accenna a un progetto che si richiami a "L'oro di Napoli" di Vittorio De Sica, anche se l'ensemble all star che ormai accompagna Anderson da molti anni ricorda certe operazioni degli anni 70, quando alcuni lavori collettivi come "Signore e signori, buonanotte" (1976) e "I nuovi mostri" (1977) erano una galleria dei volti più noti del nostro cinema. 

Nell'incipit, la voce narrante comunica che Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray), fondatore e direttore della rivista The French Dispatch, inserto di politica, costume e cultura della succursale di stanza a Ennui-sur-Blasé del giornale Liberty, Kansas Evening Sun, è deceduto per un attacco di cuore. Dando seguito al bipolarismo crudele che affetta molti personaggi andersoniani, Howitzer lascia nel testamento il comando di pubblicare un ultimo numero celebrativo del suo giornale per poi spegnere per sempre le macchine tipografiche e chiudere la redazione. "The French Dispatch" si articola dunque in un necrologio, nel prologo "Il reporter di ciclismo" (di Sazerac/Owen Wilson), niente più che un'illustrazione del setting sulla scorta di Jacques Tati, e le tre storie centrali: "Il capolavoro di cemento" di J.K.L. Berensen/Tilda Swinton, "Revisioni a un manifesto" di Lucinda Krementz/Frances McDormand e "La sala da pranzo privata del commissario di polizia" Roebuck Wright/Jeffrey Wright. La rivista The French Dispatch è ovviamente un omaggio al New Yorker, così come molti personaggi del film sono ispirati a giornalisti, scrittori, collezionisti d'arte. 

Decimo lungometraggio del suo autore, "The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun" appare pensato come un atlante e organizzato nella forma di diorama, con una precisa legenda tale da potersi orientare nel migliore dei modi all'interno del mondo andersoniano. Più che alla variazione sul tema e/o all'intensificazione di alcuni tratti stilistici, in quest'opera Anderson mira alla summa metatestuale che da ogni film riprende un elemento: ultimo in ordine d'arrivo, il ricorso alle didascalie che erano molto presenti ne "L'isola dei cani" (in lingua giapponese più sottotitoli) e la recitazione multilingua (qui francese e inglese). Tale condensazione radicalizza e comprime l'arte di un equilibrista in perenne bilico tra formalismo e autoindulgenza, minimalismo e bozzettismo, levità e vacuità. Anche l'ingombrante cast grava sulla grammatica nella continua ricerca di piani e figure che verifichino la presenza di Saoirse Ronan, di Christoph Waltz, di Cécile de France, di Elisabeth Moss, di Jason Schwartzman, di Willem Dafoe, di Edward Norton, sebbene il loro tempo in scena sia di una manciata di secondi o di un paio di minuti. A venire schiacciati nel meccanismo della frammentazione antologica sono infatti i personaggi, vero cuore pulsante del cinema del regista a cui non sempre riesce il consueto lavoro di cesello prediligendo il tratto rapido e grossolano, lo schizzo di colore, come nella pittura di Moses Rosenthaler (Benicio Del Toro).


Fig. 1. Stile planimetrico: sopra "Grand Budapest Hotel" e "The French Dispatch" di Wes Anderson,
sotto "La chinoise" (1967) e "Masculin Féminin" (1966) di Jean-Luc Godard.

"Il capolavoro di cemento" diventa una meta-lezione sull'arte andersoniana che nei colori e nelle forme astratte scorge se stesso, la sua Musa, il suo sguardo sul mondo. Al contempo, è una satira sulle tendenze, sulle mode create dal mercato dell'arte, mentre l'artista - quello vero - resta solo e imprigionato dalle sue ossessioni. Anderson, che più volte ha adoperato la maschera del timido con raptus violenti, usa Rosenthaler come veicolo per ammettere la colpa di essere artefice della propria prigione, che per l'autore significa la gabbia della forma, l'unica dimensione a permettergli la libertà di esprimersi.
David Bordwell riporta lo stile compositivo dell'immagine filmica andersoniana a quello che lui definisce approccio planimetrico[1]. L'idea base di quest'approccio è che la scena sia posta perpendicolarmente rispetto alla macchina da presa e al punto di vista di chi guarda, come in un quadro - su cui si può lavorare sulla presenza o assenza di profondità di campo. È un espediente formale che proviene dal cinema muto (si pensi a Buster Keaton), largamente impiegato da Jean-Luc Godard nei suoi film degli anni 60, spesso utilizzato anche da Takeshi Kitano (coinvolgendo un'altra tradizione, quella nipponica). Per Wes Anderson lo stile planimetrico è essenziale alla forma del suo cinema, dalla realizzazione delle ormai proverbiali simmetrie centrali dei primi film fino al lavoro sui diversi formati che investe quest'ultima fatica.
Lo stile planimetrico consente allo spettatore di guardare dentro l'inquadratura secondo l'orientamento definito dalle linee di forza e dalla disposizione del profilmico: vi può essere permutazione tra sfondo e figure in base agli elementi di scena e alla palette cromatica in una sorta di reticolato formale da interpretare, oppure, l'alternarsi delle inquadrature acutizza la comicità deadpan che permea la narrazione (fig.1). Di questo stile "Grand Budapest Hotel" è stato l'esempio di massimo virtuosismo, poiché alle focali lunghe che appiattiscono la profondità di campo seguendo un modello pittorico, il regista spesso alternava lenti grandangolari che, complicando gli schemi della messa in quadro, ampliavano le possibili variazioni compositive.
"The French Dispatch" cristallizza il processo tornando alla simmetria centrale e alla variante della simmetria bilaterale (fig.2) in tableaux che esplodono per il piacere infantile della bagarre, per fotografare il romantico ralenti di una corsa in motorino, ruzzolando in una giostra di generi in cui il racconto sconfina nell'illustrazione animata e il fumetto nel saggio teorico.


Fig. 2. Simmetrie: sopra Catherine-Isabelle Duport in "Masculin Féminin" e Léa Seydoux in "The French Dispatch",
sotto i rivoluzionari di "La chinoise" e di "The French Dispatch".


"Revisioni a un manifesto" si lega alle atmosfere del maggio francese (che a Ennui avviene a marzo del 1968), in cui il giovane Zeffirelli (Timothée Chalamet) insieme ad altri amici danno vita alla Rivoluzione della scacchiera: in un cortocircuito tra passato e presente, in cui i giovani - ci dice Lucinda Krementz - sono sicuri di non voler morire nel mondo creato dai loro padri, la cronista si interroga sull'impossibile distacco rispetto a una storia di cui non è solo testimone ma parte integrante (è lei a rivedere il manifesto politico-programmatico di Zeffirelli). È questo l'episodio in cui è più riuscita la relazione tra figura e sfondo, tra personaggio e scenografia che tanti dolori adduce ai detrattori impenitenti di Wes Anderson. Questo particolare della sua messa in scena in "The French Dispatch" è spesso confinato all'arredo[2], restando quasi sempre eminentemente descrittivo: per contrasto basti ricordare il ruolo del completino da tennis indossato da Luke Wilson ne "I Tenenbaum", il binocolo e i libri di Suzy in "Moonrise Kingdom", il profumo Air de Panache di Monsieur Gustave in "The Grand Budapest Hotel". I personaggi di Anderson appartengono alla categoria semiotica dei "corpi rivestiti", poiché attraverso il visibile (abiti, oggetti, feticci) "il soggetto realizza il suo essere al mondo" e difatti il mondo circostante (comprensivo di scenografie, accessori e colori) costituisce "un linguaggio non verbale, inteso come congegno di modellazione del mondo, come forma di progettazione, di simulazione, valida per la società e per l'individuo"[3]: la risonanza psicologica ed emotiva che lega gli uomini alle cose è chiara in personaggi come Juliette (fig.3) e Zeffirelli ma anodina in altri, nonostante i set-décor siano stipati di dettagli e riferimenti.


Fig. 3. Feticci: il casco che Juliette (Lyna Khoudri) ha sempre indosso
somiglia a quello di Catherine-Isabelle Duport ne "Il vergine" di Jerzy Skolimowski (1967)


Al pari di Lucinda Krementz, in un cantuccio a battere a macchina la sua storia, Roebuck Wright, modellato sullo scrittore James Baldwin, è emarginato dalla sua condizione di nero omosessuale espatriato in Francia. L'unica consolazione è il cibo, il calore di un'osteria, il piacere dello stare a tavola: in questa descrizione altamente sensoriale in cui l'accento è posto dalle accensioni a colori in una narrazione impaginata soprattutto in bianco e nero, la storia si svolge secondo i canoni del poliziesco d'azione (un rapimento, una breve indagine, una sparatoria e l'inseguimento finale) risolto per mezzo di sequenze animate che guardano alle illustrazioni del New Yorker e a Le avventure di Tintin.

Al languore malinconico di scrittori conviviali ma soli, di rivoluzionari che saranno giovani per sempre, "The French Dispatch" vorrebbe tendere ma riesce solo a mostrarne scampoli di verità. Al contrario di "Grand Budapest Hotel" in cui la costruzione del racconto con doppia cornice e le strategie di messa in quadro riproducevano l'idea di distanza, simulando l'osservazione filtrata da un vetro o da una finestra tramite cui ammirare il frammento di un mondo prima del definitivo dissolvimento, "The French Dispatch", pur impregnato della medesima nostalgia, non riesce nella magia di riconfigurare una realtà a più dimensioni. Le storie, compiaciute di arzigogoli e geometrie visive, riconducono comunque alla stanza dell'editore in cui giace la salma di Howitzer: mise en abyme della morte dell'autore che riafferma la sua immortalità e onnipresenza, Wes Anderson crogiola il proprio pubblico in queste short stories dal tono nostalgico, quasi fossero le eulogie funebri del proprio mondo.

[1] Cfr. D. Bordwell, THE GRAND BUDAPEST HOTEL: Wes Anderson takes the 4:3 challenge, in "Observation on Film Art", 26 marzo 2014.

[2] Che Wes Anderson sia un eccellente arredatore è noto e non a caso un suo riuscito side-project è stata la progettazione del Bar Luce per la Fondazione Prada di Milano.

[3] P. Calefato, Sensorialità e visione nella moda e nel cinema, in P. Calefato (a cura di), Moda e cinema. Macchine di senso, scritture del corpo, Costa & Nolan, Milano, 1999, p. 45


17/11/2021

Cast e credits

cast:
Bill Murray, Edward Norton, Christoph Waltz, Owen Wilson, Willem Dafoe, Elisabeth Moss, Lyna Khoudry, Mathieu Amalric, Jeffrey Wright, Tilda Swinton, Timothée Chalamet, Frances McDormand, Adrien Brody, Léa Seydoux, Benicio Del Toro, Saoirse Ronan


regia:
Wes Anderson


titolo originale:
The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun


distribuzione:
Searchlight Pictures, Walt Disney Studios Motion Pictures


durata:
108'


produzione:
Searchlight Pictures, American Empirical Pictures, Indian Paintbrush


sceneggiatura:
Wes Anderson


fotografia:
Robert Yeoman


scenografie:
Adam Stockhausen


montaggio:
Andrew Weisblum


costumi:
Milena Canonero


musiche:
Alexandre Desplat


Trama
In seguito alla morte di Arthur Howitzer Jr., direttore del French Dispatch (una rivista americana a larga diffusione della città francese di Ennui-sur-Blasé), la redazione si riunisce per scrivere il suo necrologio. I ricordi legati a Howitzer confluiranno nella creazione di quattro articoli.
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