Ondacinema

Esiste un genere più fluido dell'horror moderno? Ce ne offre una appassionata, terrificante panoramica Pier Maria Bocchi, noto critico cinematografico e studioso, nel suo nuovo volume So cosa hai fatto. Scenari, pratiche e sentimenti dell'horror moderno (Edizioni Lindau) 

Dagli spettri digitali di Kiyoshi Kurosawa ai corpi straziati e meccanizzati della New French Extremity, passando per le astrazioni metacinematografiche (ma non per questo disincarnate) alla "Doctor Sleep" (Mike Flanagan, 2019), si può a ben diritto argomentare che il genere sia stato un campo fertile per nuove seducenti sperimentazioni, specialmente a partire dalla rivoluzione digitale dei primi anni 2000. Un campo d'indagine difficile da analizzare e gravido di intuizioni e inquietudini che scuotono il presente, molte delle quali giacciono ancora inarticolate, suggerite attraverso le forme vaghe e nebulose dell'allegoria, del paradosso, della metafora mostruosa.

Qui arriva So cosa hai fatto. Scenari, pratiche e sentimenti dell'horror moderno (Lindau) di Pier Maria Bocchi, critico cinematografico prolifico e pungente, docente di scrittura critica all'Università di Pavia. Bocchi innesta la modernità del genere a cavallo tra anni '70 e '80, quando accanto a pietre miliari come "Shining" (Stanley Kubrick, 1980) e "Maniac" (William Lustig, 1980) escono chicche meno conosciute come il teoricissimo "Effects" (Dusty Nelson, 1979), ed estende la sua analisi fino ai nostri giorni e alle produzioni più recenti come il pandemico "Sick" (John Hyams, 2022) e l'anti-ideologico "Dark Harvest" (David Slade, 2023), portando in copertina "L'uomo invisibile" (Leigh Whannell, 2020) che più di ogni altro titolo materializza – smaterializzandola – l'ubiquità ansiogena dei media-mondo che coprono e offuscano il mondo intero come una nebbia carpenteriana.

Fin dall'introduzione, Bocchi chiarisce che non è la tipica monografia accademica, bensì un "esperimento, tra la riflessione teorica e l'autobiografia, che prende spunto e giustificazione da una relazione famigliare tra soggetto e oggetto del discorso". Ecco perché, piuttosto che ragionare per macro-categorie e principi, So cosa hai fatto assomiglia a un viaggio on the road, con alcune tappe obbligate e altre sorprendenti. A giovarne è anche lo stile effervescente di Bocchi, che pur mantenendo il rigore dell'analisi si sbilancia con scelte nette e giudizi temerari (come comanda la buona critica) che aiutano chi legge a inquadrare quasi mezzo secolo di cinema horror nelle sue traiettorie tematiche, artistiche, critiche e sociologiche.

Questo sguardo personale, radicale ma radicato in una conoscenza cerebrale e un amore viscerale per la materia, offre numerosi spunti di riflessione. Le stilettate più feroci vengono inferte all'horror Nineties, un horror "pavido, incolore, anemico … si sviluppa attraverso moduli di riciclaggio postmoderno in prevalenza pigri, e, quel che è peggio, senza vere firme. È un horror vile" che si inserisce, secondo Bocchi, tra il "vigore fibroso" del Reaganesimo e l'horror del nuovo millennio che prolifera in varie forme: l'horror scandinavo "adulto, pensoso, grave, solenne", la cinefilia antropologica dei reboot, l'horror tautologico, quello politico, in un contesto culturale che pare particolarmente attratto dalla problematizzazione dell'io e dello spazio, due concetti (o percezioni) che si erodono a vicenda nella contemporaneità.

Il titolo recente che meglio di ogni altro converge su quest'ultima riflessione è "It Follows" (David R. Mitchell, 2014), oggetto di un capitolo ispirato nel volume di Bocchi, che osserva come Mitchell usi "la profondità di campo e la lentezza non soltanto per creare la suspense, ma in particolare per mappare un mondo vago e irrisolvibile" a cui è assegnato un formato scope in 2.39:1, che "conferisce il massimo dell'apprensione". E qui affiora un altro pregio di So cosa hai fatto, ovvero il rifiuto di limitarsi a enumerare interpretazioni e concetti per tornare piuttosto alle immagini, come viene reso esplicito in un altro capitolo bello e ispirato, quello su "Nope" (Jordan Peele, 2022): "Abbiamo trascorso lunghissimi periodi, decenni interi, inibiti dal terrore per le immagini: quando l'argomento e l'ideologia dovevano prevalere … Adesso che le immagini condizionano e ri-registrano ogni giorno il nostro sguardo, naturalmente anche la critica più scettica torna sui suoi passi e ammette che sì, probabilmente le immagini sono sempre state importanti".

Non è un caso che questa dichiarazione programmatica deflagri proprio parlando del mostruoso alieno di "Nope", che sempre Bocchi su Cineforum descriveva icasticamente come "processo fotografico a ripetizione, scatti multipli per mezzo di un green screen che si rilancia e si rinnova a più riprese, un piccolo schermo quadrato, verde per davvero, dentro a uno schermo bianco più grande, senza misura, frastagliato, né rettangolare né circolare, un Imax sbrindellato, una macchia bianca di Rorschach". Quella di "Nope" è infatti un'immagine che si mangia e si perturba da sé, assurgendo quasi a metafora sconfinata di un genere con cui Bocchi dimostra un rapporto frequentativo – So cosa hai fatto, caro il mio horror, quasi una lettera d'amore che diventa un dialogo appassionato tra cinema e lettori e che, analizzando l'horror della modernità, ribadisce l'eterna modernità dell'horror.