E' lui il vincitore della prima edizione del premio speciale di Ondacinema, riconoscimento che la nostra redazione assegna a chi abbia contribuito in particolar modo al progresso del cinema mondiale
And the winner is...
È David Lynch ad aggiudicarsi la prima edizione dell’OndaNobel, il riconoscimento annuale che la redazione di Ondacinema conferisce alla figura vivente che più delle altre abbia contribuito in modo significativo al progresso della settima arte. Il regista del Montana ha sbaragliato la concorrenza di molti altri suoi colleghi, oltre ad attori, sceneggiatori e direttori della fotografia.
Da sempre considerato un cineasta eclettico e profondamente ermetico, Lynch ha conquistato in poco più di trent’anni di carriera gli amanti del cinema grazie al suo stile onirico e surreale, stregando allo stesso tempo la critica internazionale che lo ha eletto artefice di una nuova forma di narrativa fortemente evasiva e votata all’avanguardia. I suoi film vanno vissuti come un’esperienza emotiva che travalicano il confine della mera visione tradizionale. Sperimentalismo che, per contro, è stato anche la causa principale di una netta spaccatura all’interno del pubblico e che ha creato inevitabilmente da una parte un drappello di fan indefessi dediti al credo lynchiano e dall’altra una considerevole schiera di detrattori rimasti spiazzati dall’inaccessibilità del suo pensiero e dalla imperscrutabilità delle sue opere. “O lo si odia o lo si ama” è il luogo comune che mette tutti d’accordo, prendere o lasciare.
“Per me i film sono piuttosto simili a fiabe o a sogni. Per me non sono un modo per fare politica o una sorta di commento o un modo per insegnare qualcosa. Sono solo cose. È un altro mondo in cui scegli di entrare, se lo vuoi”. Varchiamo la soglia di questo mondo e scopriamo chi è davvero David Lynch, l’uomo che è riuscito a plasmare un nuovo modo di intendere la fruizione cinematografica.
Ossessioni di un giovane visionario
Oggi, all’età di sessantacinque anni, Lynch rappresenta l’icona di un cinema smembrato da qualsiasi componente reale o razionale, la sua Weltanschauung è un marchio di fabbrica impresso nell’immaginario collettivo. Non che si possa dire esattamente la stessa cosa del Lynch che nel 1976 esordì dietro la macchina da presa: l’immagine allora era quella di un miserabile che si ritrovava ad aver ultimato i fondi a disposizione per il suo primo film, rintanandosi a vivere all’interno degli studi di registrazione senza un soldo e sottoponendo la pellicola a continue interruzioni per ben sei lunghi anni. L’uscita di “Eraserhead” (1976), presentato in prima mondiale al pubblico newyorkese, contribuì ad alimentare le sciagure del regista ottenendo un insuccesso clamoroso, almeno sino all’avvento di Ben Barenholtz, distributore e inventore dei midnight movies. Sarà proprio l’ambiente immondo e lurido dei cinema di mezzanotte a forgiare il destino di “Eraserhead” in vera e propria opera culto, un viaggio allucinante ed angosciante che rivoluziona in novanta minuti i canoni del cinema classico hollywoodiano. Immerso in un bianco e nero sudicio ma visivamente avvenente e sorretto da alienanti suoni industriali, il film dispiega la sua natura “oscura ed inquietante” attraverso le peripezie vissute dal bizzarro e kafkiano Henry Spencer alle prese con polli meccanici, neonati mostruosi, attacchi epilettici e tumori facciali.
La visione tormentata di “Eraserhead” rappresenta la coraggiosa ascesa di un giovane e talentuoso visionario scosso da un’infanzia piuttosto particolare, il che probabilmente ha contribuito ad alimentare (e non poco) il genio del regista. Già, perchè sin dalla tenera età il piccolo David vive turbamenti continui: il piccolo quadretto bucolico familiare paradossalmente lo rende presto instabile e smanioso, la normalità lo inquieta e lo inghiotte lentamente, nasce in lui il desiderio di vivere una situazione parallela e insolita (l’incipit di “Velluto blu” è forse il modo migliore per descrivere questo disagio). Reminescenze passate conducono a macabri passatempi come quello di dissezionare un gatto morto o effettuare esperimenti sugli insetti; lo salva la passione per la pittura e l’iscrizione alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia al termine della quale, a soli ventotto anni, confezionerà già due film painting (“Six Men Getting Sick” e “The Alphabet”), un cortometraggio (“The Amputee”) e un mediometraggio (“The Grandmother”) palesemente influenzato proprio dal disagio familiare oltre che dal lavoro del padre, che all’epoca conduceva esperimenti sulle malattie degli alberi. Sono progetti che presentano, seppur allo stato seminale, i primi tratti distintivi del cinema di Lynch (surrealismo, onirismo, angoscia, le ossessioni che lo accomunano nella pittura al grande Francis Bacon) e che, come detto, saranno fondamentali per la realizzazione pochi anni dopo di quel grande capolavoro che prende il nome di “Eraserhead”.
La grande illusione
Nei primi anni ottanta le porte di Hollywood si spalancano al talento di Lynch grazie alla lungimiranza di Mel Brooks che lo vuole alla regia di un film prodotto dalla sua Brooksfilm. “The Elephant Man” (1980) racconta la storia del deforme Joseph Merrick e mette in risalto tutta la sofferenza di un uomo che viene privato della dignità per colpa del suo mostruoso aspetto. Il film abbandona il carattere surreale del regista, adattandosi allo standard narrativo del prodotto commerciale ma conferma l’uso di un vivido bianco e nero dall’elevato contrasto. Si tratta di una pellicola meravigliosa, che invoca a gran voce il valore della filantropia e della misericordia attraverso le immagini di un’umanità che, il più delle volte, si rivela essere il vero “mostro”. A commuoversi sono pressoché tutti. Tutti tranne la manifestazione più celebre di Hollywood, che senza scrupoli non elargisce nemmeno una statuetta al film a dispetto delle otto nominations ricevute. È l’episodio che sveglia Lynch dal torpore delle prime luci del successo e che lo scuote destando in lui le prime perplessità nei confronti dell’archetipo dell’Hollywood system.
Se la pellicola d’esordio aveva stupito tutti per la lugubre visionarietà, “Elephant Man” mostrava al mondo intero la completezza del regista, la maestria nel saper raffinare generi e stili differenti. Dune (1984), il secondo progetto su commissione, doveva presentarsi come la prova del nove per il regista, che invece deve arrendersi al triste esito di una sciagura immane. Prodotto da Dino De Laurentiis e tratto dal bestseller di Frank Herbert il film verrà infatti ricordato come uno dei più grandi fallimenti commerciali se rapportato al suo altissimo budget (quaranta milioni di dollari all’epoca) e fu ferocemente criticato all’unanimità. Sembra non esserci pace per il regista che sfiduciato decide di ritornare sui suoi passi, lontano dal clamore della popolarità e alla ricerca di un’ispirazione puramente personale.
Lynchmania
“Preferisco i film che lasciano spazio al subconscio, come i film noir... D’altra parte amo andare a curiosare nel subconscio delle persone, tuffarmi in quella zona infinita che si trova dietro la facciata del loro volto e pormi delle domande sulla loro anima, sui loro pensieri. Lo trovo affascinante. Mi sarebbe piaciuto fare lo psichiatra...” Nei film di Lynch questa interiorità sgorga soprattutto dalla forza dei dialoghi. “Velluto blu” (1986) rappresenta in questo senso un passo fondamentale per la travagliata carriera del regista, una sorta di apripista che sarà di preludio al successo (quello vero). Si torna a un cinema umile, di nicchia e con finanziamenti limitati. Le atmosfere che si respirano a Lumberton (cittadina immaginaria dove si sviluppa la vicenda) trovano un comun denominatore nell’infanzia disturbata del nostro: un adolescente dall’innato spirito di investigazione si ritrova in un mondo di prevaricazione, di degenerazione sessuale e violenza dopo aver rinvenuto un orecchio mozzato. Le note di Bobby Vinton, i colori cangianti e i saluti rasserenanti del nucleo urbano delineano solo lo strato epidermico e mellifluo di un’umanità che si rivela per contro brutale. Un mondo parallelo che si nasconde nel sottosuolo e che lascia adito a una realtà imperniata sullo smarrimento dei sensi, sulla paura, sull’incontrollabilità e l’ingovernabilità degli impulsi. Oltre a smascherare con un meraviglioso onirismo l’altra faccia dell’America (incarnata da un violento Dennis Hopper che inala popper a profusione da una mascherina), “Velluto blu” segna altresì l’inizio di una lunga collaborazione con il compositore Angelo Badalamenti. Considerato da molti il capolavoro indiscusso di Lynch, il film ottiene una nuova nomination agli Oscar per la miglior regia ma in generale viene accolto con fastidio a causa della sua eversività. Gian Luigi Rondi, solo per fare un esempio, ne respinge la partecipazione al Festival di Venezia a causa del nudo della Rossellini. Il regista sembra ricevere convinti apprezzamenti solo dai francesi, un fattore questo che si rivelerà fondamentale nella seconda parte di carriera.
“Cuore selvaggio” (1990) prolunga in modo del tutto naturale il metatesto di “Velluto blu”: la violenza e il bizzarro evolve dalla piccola cittadina verso nuovi territori inesplorati e il genere “on the road” è perfetto per delineare il bisogno di Sailor e Lula di fuggire da una realtà “pericolosa” minacciata addirittura dalla famiglia di lei. Lynch indugia ossessivamente sulla bocca e sui denti, un tormento misto a fobia che il regista porta dietro sin dai primi periodi in cui nutre la passione per la pittura di Francis Bacon; sperimenta l’eccesso di violenza (mani mozzate, crani fracassati) unito all’imprevedibilità dell’apporto ironico, della commedia nera e del grottesco (il finale con la fatina del Mago di Oz) contribuendo a imprimere alla pellicola una forza visiva impressionante. Stessa bizzarra sorte tocca alla colonna sonora che il nostro sperimenta associando al rock’n roll di Elvis Presley e al jazz di Glenn Miller lo speed metal più chiassoso della storia del cinema. Gli anni novanta fanno da sfondo a una vera e propria Lynchmania che culmina con la realizzazione di “Twin Peaks ” per la tv e con la Palma d’Oro a Cannes per “Cuore selvaggio” assegnatagli in larga parte per merito del presidente di giuria Bernardo Bertolucci. Ma non esiste pace per il regista, che è costretto a sorbirsi molteplici forme di dissenso e vergogna che giungono dai meticolosi e composti salotti di Cannes. Nonostante il formidabile periodo e il successo raggiunto su larga scala, per alcuni David Lynch rimane, pur sempre, solo un fenomeno da baraccone, uno Joseph Merrick del Montana.
Chi ha ucciso Laura Palmer?
“Quando un film è forte la gente ha immediatamente una reazione di rigetto, perché questa forza fa loro paura. In tv invece si vedono continuamente uomini morire assassinati, ma la scena è asettica: la vittima cade per terra… Ed ecco una pubblicità di deodoranti!” L’assioma felliniano pronunciato da Lynch ai danni della televisione non basta a fargli prendere le distanze dal piccolo schermo. Così nei due anni a cavallo tra il 1990 e il 1991, “Twin Peaks” (in Italia “I segreti di Twin Peaks”) spopola tra i media e soprattutto tra il pubblico di tutto il mondo. Ognuno in quegli anni cerca di calarsi nella parte dell’agente Cooper per scoprire chi tra i personaggi della serie possa aver ucciso la bella e giovane studentessa Laura Palmer. Quello di “Twin Peaks” è stato sicuramente un evento che ha profondamente contribuito all’evoluzione del linguaggio televisivo e che ha portato in nuce un nuovo e dirompente coinvolgimento nei riguardi dei serial. Lynch era riuscito nell’incredibile impresa di unire i codici narrativi del piccolo schermo (la soap-opera, la detective story) con l’esperienza turbante che deriva dal suo cinema, creando così una veste unica nel panorama internazionale. Lo sceneggiato ha molte analogie con “Velluto blu”, entrambe infatti investigano sul versante maligno e violento che si cela dietro all’apparente serenità dell’anonima cittadina americana.
Dopo trenta episodi e due stagioni, il sogno targato “Twin Peaks” giunge effimero al capolinea a causa dell’improvviso decremento di ascolti (dopo la rivelazione dell’assassino) ma Lynch ne mantiene alto l’interesse trasportando il fantasma di Laura dal piccolo al grande schermo, con l’idea di girare il prequel dell’intera vicenda. Con “Fuoco cammina con me” (1992) il regista fa il suo ritorno a Cannes ma questa volta viene accolto con manifesto disappunto dalla critica e, al tempo stesso, dal pubblico a causa di un cinema troppo criptico anche per chi ha avuto la fortuna di seguire la serie televisiva. A salvare Lynch sono comunque alcune sequenze geniali (la presentazione di Lil, dove lo stesso regista compare come attore nelle vesti di un agente segreto) e la colonna sonora di Badalamenti. Nello stesso anno Lynch chiude il ciclo televisivo dirigendo “On The Air”, una serie di sette episodi, e “Hotel Room” insieme a James Signorelli, film tv dalle tinte noir prodotto dalla HBO e incentrato su tre episodi ambientati all’interno di una camera d’albergo.
Beyond the infinite
La seconda fase della carriera di David Lynch è volta all’anarchia più totale nei riguardi della logica narrativa. In tal modo la visionarietà e il surrealismo del regista raggiungono livelli indefinibili, la carenza di appigli ermeneutici “reali” disorientano sempre più il povero spettatore, denigratore o adulatore, qualunque esso sia. L’approdo a questo paradigma cinematografico svuotato dai principi cardine della narrazione (in perfetto stile classico-hollywoodiano), richiede un ampio uso di connotati semiotici e psicoanalitici. “Strade perdute” (1996) è la porta di accesso a questo nuovo mondo lynchiano, un noir sezionato in minuziosi pezzetti (come il corpo della povera Renèe) e poi ricomposti dal regista in modo da creare un disorientamento continuo che riporta alla letteratura borgesiana. La storia del sassofonista Fred Madison è un vortice di paura, inquietudine e allucinazione lungo i confini del tempo, dello spazio e dell’identità (il film espone il tema della personalità multipla). Caricato oltremodo da una forte componente erotica incline al porno più nichilista e sorretto da una formidabile colonna sonora (l’industrial di Reznor e il gothic metal dei Rammstein, oltre al solito Badalamenti e a Bowie), “Strade perdute” stordisce per la sua ambiguità polisemica che mette a dura prova lo spettatore più audace, costringendolo a prender parte a un gioco accattivante e malato che si esplica mediante sillogismi e abduzioni (“e tu, invece, come ti chiami? Che cazzo di nome hai tu?”). Agli occhi dei più, la rivoluzione semiotica in ambito cinematografico attuata da Lynch è vista come una goliardica presa per i fondelli ai danni dello spettatore, ma per Umberto Eco un tale comportamento scettico e disfattista non rappresenta altro che la massima espressione di quella che viene intesa come “economia dell’interpretazione”: l’interprete/spettatore assimila solo quelle condizioni che confermano la propria tesi, mentre sorvola sui dettagli chiaramente incompatibili con l’ipotesi sostenuta, ossia con la propria visione della realtà (nel caso del film, lo spettatore non riesce a spiegare il cambio di identità tra Fred e Pete avvenuto in cella, anzi, non lo accetta proprio e cerca quindi una soluzione che rimanga ben aderente alla realtà scartando a priori il potenziale onirico). “Strade perdute” è il primo lungometraggio di Lynch a essere prodotto in Francia, un sodalizio che continuerà con i successivi “Mulholland Drive” e “INLAND EMPIRE”.
“La tenerezza può essere astratta quanto la follia”. Con queste parole David Lynch presenta, tre anni dopo, il suo lungometraggio più criptico e indecifrabile: “Una storia vera” (1999). Lineare e formativo, la pellicola nel suo svolgersi impeccabile sembra essere il corpo estraneo dell’intera filmografia, soprattutto subito dopo la svolta compiuta con “Strade perdute”. Tutto è troppo perfetto, troppo bello per essere vero. Si ha l’impressione che Lynch nasconda qualcosa di ben più profondo che trascende la lettura narrativa del film. Se vi è un carattere in cui il regista indugia anche in questa pellicola è senza ombra di dubbio l’ossessione nello storpiare i generi di appartenenza; così dopo il noir è il turno del road movie a essere totalmente capovolto dai canoni dello stilema. La velocità e l’impeto prodotto in “Cuore selvaggio” lasciano il posto a una lenta (il tagliaerba) e paralizzante (l’infermità del vecchio Alvin) mise en scène che molti critici riconducono alla difficile assimilazione del (suo) cinema contemporaneo. Ma forse è l’ennesimo tranello di un genio, forse quella del vecchio Alvin è semplicemente una splendida e commovente elegia sulla famiglia, sulla fratellanza, sulla senilità. Una “storia vera” e degna di essere raccontata.
L’impero di Hollywood
Il nuovo secolo prosegue sulla stessa linea guida profetizzata da “Strade perdute” e trova l’acme nel capolavoro di “Mulholland Drive” (2000). Nato come episodio pilota di una serie tv, poi scartata negli Stati Uniti, il film deve gran parte del merito alla produzione francese di Studio Canal che ne ha curato la realizzazione; scelta che si è rivelata vincente visto il successo bissato da Lynch a Cannes, questa volta per la miglior regia, e l’assegnazione della terza nomination personale agli Oscar, naturalmente senza vincere alcun premio. “Mulholland Drive” è la perfezione del linguaggio lynchiano, il compendio di ogni singola esplorazione affrontata dal regista nelle opere precedenti. Un mix di inquietudini, memorie distorte e identità smarrite, appagamenti di desideri che echeggiano nello scibile della psiche umana, in quella parte sommersa dell’iceberg che solo la potenza del sogno è in grado di decifrare. Secondo il filosofo Edmund Burke, “il sublime è il desiderio, la passione di essere sottomessi, sino a sfiorare l’annientamento […] L’esperienza del sublime, in una parola, è l’esperienza di un potenziamento dell’io”. Il cinema assume con questa pellicola una concezione totale dell’arte, un'arte che arriva a commuovere e ad appassionare allo stesso modo della poesia o del dipinto (o del teatro, come testimonia il Club Silencio e il magniloquente finale artefatto). Il dolore e il pericolo avvertito in un film come questo è una fonte del sublime, la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. “Mulholland Drive” è altresì la risposta definitiva del regista nei confronti della dream factory hollywoodiana, una rivisitazione in era digitale di “Viale del tramonto” che culmina in una fenomenologia del potere capace di elevare tutta l’amoralità, la corruzione e l’avversità dello star system, tesi confermata in senso pratico dall’ostilità che il mondo di Los Angeles ha sempre nutrito nei confronti di un regista troppo sovversivo e stravagante per competere con lo stile classico e assuefatto di Hollywood. La pellicola è fortemente influenzata dai caratteri bergmaniani di “Persona”. Ma se il sogno per il regista svedese è la ricerca disperata di dare un senso all’esistenza, mostrando l’inquietudine di chi non ha ancora aperto gli occhi (Alma, che inizialmente ha come massima aspirazione un mediocre matrimonio ed una vita innocua) per Lynch è la volontà di dar voce alle oppressioni di una realtà da incubo, fagocitata dal potere. Alma/Diane e Elisabeth/Camilla sono ulteriori sdoppiamenti di una stessa ideologia (il mestiere di attrice, l’analisi introspettiva femminile, il sentimento di amore-odio, l’omosessualità, la disillusione e l’incomunicabilità, la morte) seppure i temi lynchiani siano prospetticamente più improntati sul surreale e sul nonsense. “Mulholland Drive” è una chiave (blu) che dà accesso a un cinema di meravigliosa sublimità.
Labirintico e complesso all’inverosimile, INLAND EMPIRE (2006) riprende le tematiche sviluppate nel lungometraggio precedente (entrambi i titoli sono strade di Los Angeles). La metropoli ha ormai fagocitato le piccole cittadine di “Velluto blu” e “Cuore selvaggio”, la macchina da presa concentra la sua attenzione sulla fama e sul cinema in senso lato. Il film infatti illustra come le vite degli attori rispecchiano quelle dei personaggi che interpretano, creando un conflitto che Lynch rappresenta mediante un climax di profonda apprensione e ingiustificato terrore. Il mondo di Hollywood è (ancora una volta) vissuto da barboni, prostitute e assassini, le loro vite si intrecciano in mondi paralleli, dando la sensazione di vivere un film dentro un altro film (“Il buio cielo del domani”), un loop ossessivo che tuttavia culmina in un insperato lieto fine (caso unico nella trilogia dell’inconscio). Girato interamente in digitale, “INLAND EMPIRE” neutralizza ogni minima regola o convenzione cinematografica in modo ancora più evidente di quanto già avvenuto in “Mulholland Drive” (i dialoghi deliranti nell’intermezzo di “Rabbits”, il personaggio femminile che rivolto al pubblico fissa la macchina da presa e domanda “Chi è quella?”, il musical dei titoli di coda). Racchiuso nell’ermetismo più esasperante, lo spettatore che non sta alle regole di Lynch rischia di scivolare in una angolazione di lettura diretta, logica e ragionevole a tutti costi, in una prospettiva in grado di spiegare, e non piegare, il testo. Ammesso e non concesso che un testo debba essere spiegato.
Epilogo
In un mondo dove tutto deve essere spiegato e ostentato, David Lynch ha sempre rifiutato nella sua carriera qualunque commento o spiegazione riguardo alle sue opere, sottolineando che l’emozione si percepisce, non si capisce. È un cinema quello di Lynch che eleva all’ennesima potenza gli insegnamenti di maestri precursori quali Kubrick, Fellini e Buñuel. I primi due in riferimento a un cinema totale, che risponde ai requisiti del sogno e dell’inconscio. Il terzo in relazione a un surrealismo volto alla denuncia e allo smascheramento dei soprusi. Il grande merito di Lynch è quello di aver creato un nuovo modello di fruizione, uno “spazio filmico” (tanto per utilizzare un concetto prettamente hitchcockiano) sperimentale e trasgressivo rivolto al grande pubblico mainstream, merito per lo più della sua grande poliedricità in ambito artistico e della sua fervida e immaginaria creatività che spazia dalla letteratura kafkiana alla pittura baconiana degli esordi, dagli spot pubblicitari ai video musicali, senza dimenticare gli ultimi lavori in campo fumettistico e musicale. Un contributo di imponente levatura grazie al quale l’immaginario cinematografico ha trovato la sua degna evoluzione nell’arco dell’ultimo trentennio e che ha influenzato una nuova generazione di cineasti del calibro di Tarantino, Gondry, Aronofsky, Kelly. Ma questa è un’altra storia…