Alla riscoperta del ruolo della scrittura nel cinema e, più precisamente, in quel paradiso/inferno terrestre che risponde al nome di Hollywood. Dopo decenni in cui si è stati convinti che un "grande regista" riesce a fare la differenza, è forse tempo di riscoprire il mestiere di sceneggiatore
Non importa chi ha scritto la sceneggiatura del film perché, se la messa in scena è curata da un grande regista, in fondo quei film racconteranno tutti la stessa storia. Questa è, riassumendola in maniera brutale, l'idea di fondo della politica degli autori sviluppata e portata avanti da François Truffaut e dai cosiddetti "giovani turchi" che scrivevano su Cahiers du Cinema alla fine degli anni Cinquanta. Una teoria, questa, che ebbe una portata inimmaginabile sul cinema dei decenni successivi (anche e soprattutto quello americano, di cui ci occupiamo qui), decretando per la figura della sceneggiatore una rapida e inesorabile svalutazione.
Uno svilimento che ha colpito la categoria forse non tanto nell'ambiente degli addetti ai lavori, dove l'attività dei bravi scrittori è sempre riconosciuta (anche se probabilmente non dal punto di vista economico), quanto da una prospettiva critica e di percezione esterna del pubblico.
Ma non sempre è stato così e, come vedremo nell'ultima parte di questo speciale, c'è anche chi sta lottando affinché questa visione registo-centrica venga, se non abbattuta, quantomeno ridimensionata.
Lo sceneggiatore hollywoodiano: da semplice impiegato ad autore completo
Il film Viale del tramonto (Sunset Boulevard,1950) scritto - con l'aiuto di Charles Brackett - e diretto da Billy Wilder oltre ad essere un atto d'amore nostalgico verso il cinema del divismo è anche la storia di due sceneggiatori (Joe e Betty) di Hollywood, il cui lavoro negli uffici della Paramount somiglia tanto a quello di due semplici impiegati, con tanto di orari fissi e timbro del cartellino. Ma era davvero così?
Se non proprio nel cinema delle origini (dove, in ogni caso, sia Griffith che Chaplin utilizzano degli pseudo-copioni) è quasi da subito - pressappoco intorno alla prima guerra mondiale - che il cinema americano usa le sceneggiature come strumento mirante alla massima efficienza narrativa e, di conseguenza, produttiva del film. Questo scrittore professionista (spesso si tratta di giornalisti, come C. Gardner Sullivan) è chiamato a predisporre una sceneggiatura dettagliata, inquadratura per inquadratura, tale da permettere un'efficiente pre-produzione, conoscendo in anticipo i costi. Gli sceneggiatori diventano, così, degli operai la cui competenza nello scrivere racconti e strutture narrativo-drammatiche deve essere in grado di soddisfare i molteplici generi (si va dal western al sentimentale, dall'epico alla commedia) che la macchina cinema sforna a tamburo battente. La particolarità di questo periodo storico - caratterizzato da una dimensione produttiva quasi domestica - è che si tratta in maggioranza di sceneggiatrici donne e che queste non smettono di lavorare sul film nel momento in cui completano la sceneggiatura, ma restano sul set per cambiare il copione secondo le necessità. Rispetto ai registi, i quali si "limitano" a mettere in pratica queste istruzioni ed a gestire la vita sul set, sceneggiatrici come June Mathis e Frances Marion detengono posizioni di potere e, addirittura, sono in grado di intervenire sul casting o scegliere i registi. La Marion, ad esempio, nel culmine dello star system dei grandi attori diventa essa stessa una stella: riesce, infatti, a vincere due Oscar per la migliore sceneggiatura con Carcere (The Big House, 1930) diretto da George Hill e Il campione (The Champ, 1932) con la regia di King Vidor. Ma di lì a pochi anni il cinema hollywoodiano incomincia a cambiare colore, il rosa sbiadisce, lo studio system incomincia ad abbracciare un'industrializzazione più competitiva e feroce. Il sonoro è l'innovazione cinematografica che più di tutte esalta l'importanza di una buona scrittura. I motivi sono quasi ovvi: i dialoghi sono la novità, l'elemento cui lo spettatore pone maggiore attenzione e dunque i produttori hollywoodiani quasi temendo di essere ripresi per qualche errore di sintassi decidono di affidarsi a scrittori professionisti, provenienti soprattutto dal mondo della letteratura e del teatro ed in minima parte da quello della carta stampata, e alle donne sceneggiatrici non resta che imboccare il viale del tramonto. Professionalità significa anche regole rigide: i produttori investono molto sulla scrittura e di conseguenza non possono permettersi ritardi o imprecisioni che possono tramutarsi in ingenti perdite economiche. Ecco, dunque, che: in regime di studio system, gli sceneggiatori lavorano in un edificio apposito, il Writers Building, con orari di ufficio; scrivono a ciclo continuo, passando da un copione all'altro. La sceneggiatura diventa macchina di efficienza narrativa, stampo per la realizzazione del film.
E' il cinema dei grandi produttori, un cinema che in un modo o nell'altro non è mai completamente sparito da Hollywood. E' il cinema di personaggi come Louis B. Mayer e Irving Thalberg, i quali dirigevano la Mgm con una politica di film d'alto profilo e alti budget introducendo, inoltre, la pratica di far lavorare più scrittori ad ogni sceneggiatura; cosa comune al boss della 20th Century-Fox Darryl F. Zanuck, anche se quest'ultimo, rispetto ai colleghi, dà molta più importanza alla storia ed alla sceneggiatura, salvaguardando così il lavoro degli scrittori. Cosa che invece non succede nella società di Jack Warner, il quale definendo gli sceneggiatori ''cretini presuntuosi con la macchina da scrivere'' porta avanti una politica di riciclo dei soggetti, creando generi popolari da spremere fino in fondo.
Anche se ci sono diversi sceneggiatori indipendenti come Dudley Nichols, Ben Hecht e Jules Furthman, di norma, in quel periodo, gli sceneggiatori sono legati agli studios da contratti pluriennali, finendo a lavorare sempre con gli stessi registi e attori e sempre sotto il ferreo controllo dei produttori. Il film è un prodotto industriale dove ogni piccolo elemento viene realizzato in una catena di montaggio. Gli sceneggiatori vengono pagati profumatamente, il loro lavoro è di fondamentale importanza ma si riduce alla sola pre-produzione. Non vengono coinvolti sul set e non hanno alcun controllo su quel che ne viene fatto delle loro pagine di copione. Comincia, così, a serpeggiare una sorta di alienazione intellettuale, che porta alla costituzione della Screen Writers Guild (il sindacato degli sceneggiatori) ed a varie lotte politiche, alla fine delle quali molti sceneggiatori decidono di fare il grande salto verso la regia pur di poter ottenere più controllo sui film.
Il risultato diventa visibile negli anni settanta dopo un paio di decenni costellati da grandi mutazioni: lo studio system entra in una crisi profonda e insanabile con il clamoroso crollo degli spettatori registrato nel 1957 e la conseguente chiusura della Rko (una delle più importanti major). Inoltre, i grandi studios vengono dichiarati colpevoli di condotta monopolistica dalla Corte Suprema e di conseguenza l'aspetto industriale lascia il posto ad un cinema più vicino ai tempi e alle modalità delle produzioni indipendenti. Gli studios più piccoli, avendo ora accesso a sale più grandi, producono film a budget più alto, venendo imitati da divi e registi che fondano proprie società. Tutta questa serie di fattori permette l'emergere di una nuova figura profondamente debitrice con il cinema autoriale francese ed italiano: il regista-sceneggiatore.
Il perfetto esempio di questa evoluzione è Francis Ford Coppola, il quale prima esordisce come sceneggiatore scrivendo, tra gli altri, Questa ragazza è di tutti (This Property is Condemned, 1966) diretto da Sydney Pollack, poi diventa regista e produttore, assorbendo sia l'insegnamento e i denari di Hollywood, realizzando kolossal di grande successo come Il Padrino pt. I e pt. II (The Godfather: Part I, 1972; Part II, 1974) e Apocalypse Now (id., 1979), che l'indipendenza produttiva e artistica degli indipendenti firmando regia e sceneggiatura di un prodotto dal respiro più autoriale come "La conversazione" (The Conversation, 1974), ai quali aggiunge il gusto per la sperimentazione tecnologica come ravvisabile nella singolare messa in scena del film-musical Un sogno lungo un giorno (One from the Heart, 1982).
Poi c'è uno dei casi più interessanti che è quello di Woody Allen: inizia scrivendo testi comici per la televisione, commedie per il teatro e poi fa il grande salto al cinema dove sceneggia un paio di film minori (ma comunque piuttosto apprezzati da pubblico e critica) tra cui Ciao Pussycat (What's New Pussycat, 1965) diretto da Clive Donner dove esordisce come attore, e soprattutto Provaci ancora, Sam (Play it Again, Sam, 1972). Il film è tratto da un'opera teatrale di Allen, lo vede come attore protagonista, ha in nuce tutte le caratteristiche della sua futura filmografia, ma è diretto da Herbert Ross. Chi è allora l'autore? Pur non volendo sottovalutare il tocco di Ross (dirige un altro paio di successi tratti da opere teatrali e letterarie), ci viene difficile considerarlo un suo film piuttosto che di Woody Allen. Fatto sta che Allen, dopo il timido tentativo di Prendi i soldi e scappa ( Take the Money and Run, 1969), decide di mettere in scena da solo i propri copioni realizzando numerosi film memorabili, il tutto mantenendo sempre in primo piano la scrittura, tanto da riuscire a raggiungere un accordo unico che gli ha consentito di mantenere il controllo sulla sceneggiatura, la scelta del cast, il montaggio e persino la possibilità di rigirare parti dei suoi film.
Contemporaneamente altri grandi autori come Steven Spielberg, Martin Scorsese e Stanley Kubrick contribuiscono alla crescita qualitativa del cinema hollywoodiano (anche se molte delle ultime produzioni di Kubrick siano, in realtà, per metà britanniche), trasferendo la qualità delle produzioni indipendenti nei canali mainstream. Ma mentre i primi due con il passare degli anni abbandonano la scrittura commissionando sempre più spesso le sceneggiature, Kubrick firma sempre, anche se spesso partendo da adattamenti letterari e facendosi aiutare da sceneggiatori di fiducia, le sceneggiature di tutti i suoi film. Si tratta di un lavoro a stretto contatto, in cui lo sceneggiatore viene spesso invitato a passare lunghi periodi nella residenza dei Kubrick per essere tenuto meglio sotto controllo con il regista che si cala nel ruolo di story-editor con l'unica differenza che Stanley Kubick lascia degli spazi bianchi per le sue mosse segrete - Diane Johnson, sceneggiatrice di The Shining [1980, ndr.], rimase a bocca aperta quando vide l'enigmatico finale del film, che non appariva in nessuna delle stesure della sceneggiatura. In questi spazi lasciati bianchi Kubrick diventa co-sceneggiatore e mette le mani anche sulla prima fase del fare un film, la pre-produzione, dopo essersi assicurato il dominio assoluto su regia [produzione] e montaggio [post-produzione]. Quindi, pur rimanendo un artista fortemente visivo - ricordando che nasce come fotografo - Kubrick ama avere il controllo più totale della pagina scritta oltre che di qualsiasi altro aspetto della produzione dei suoi lungometraggi.
Un po' quello che avviene con altri sceneggiatori-registi contemporanei come Sofia Coppola, M. Night Shyamalan e Quentin Tarantino, tutti autori fortemente legati a un certo tipo di estetica, ma altrettanto attenti alla narrazione e alle storie che vogliono raccontare. La Coppola parlando della scrittura del suo film più famoso ed apprezzato "Lost in Translation" (id., 2003) afferma che ama «scrivere una sceneggiatura perché non si deve fare tanta attenzione alle parole, dato che non è pensata per essere letta ma è solo un appunto per fare un film». In effetti Lost in Translation è un film che gioca molto sui vuoti e sui malinconici silenzi che stridono con la caotica realtà di Tokyo, ma è evidente che anche per scrivere il vuoto è necessario un certo grado di talento. Esempio ne è la scena finale il cui punto culminante è appunto un silenzio, o meglio un dialogo pronunciato all'orecchio, inascoltabile per lo spettatore. Ciascuno può decidere: è questo che ne fa una delle più personali e toccanti dichiarazioni del cinema.
M. Night Shyamalan, invece, è colui il quale ha re-inventato il thriller a Hollywood con film come Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999) e "Unbreakable" (id., 2000) mescolando tensione emotiva e ritmi lenti (quasi neo-realistici), insaporendo il tutto con uno spruzzo di buona atmosfera fantascientifica; ma lo ha fatto spesso e volentieri rinunciando alla pomposità visiva degli effetti speciali (cosa che con i mezzi economici a disposizione avrebbe potuto fare), concentrando tutti gli sforzi su sceneggiature forti e dalla struttura narrativa complessa. Del resto, l'autore di origini indiane quando andava ancora al college aveva già scritto sette sceneggiature per lungometraggi. Per ricordare sempre la fatica dello scrittore, Shyamalan conserva le copie di ogni versione scritta per ogni lavoro per tenere sempre a mente che il duro lavoro - facendo brutte copie su brutte copie - è parte essenziale dello scrivere. Non è da meno Quentin Tarantino, il quale, certamente è amato per i suoi incredibili patchwork di b-movies, spaghetti western, noir e dei film di Hong Kong (solo per citarne alcuni) ma anche e soprattutto per i dialoghi brillanti e barocchi, le storie avvincenti ed il suo continuo giocare con la temporalità dell'intreccio come avviene in Le iene (Reservoir Dogs, 1992) e "Pulp Fiction" (id., 1994). Parlando di se stesso e del rapporto che intercorre tra il suo lavoro di sceneggiatore e quello di regista, Tarantino ha affermato che quando scrive se ne infischia delle conseguenze affrontando la sceneggiatura come fosse un romanzo, senza pensare alla fattibilità di questa o quella scena.
La contro-storia della Schreiber Theory
Pauline Kael nel 1971, a pochi anni di distanza dall'americanizzazione a opera di Sarris, è la prima a controbattere la politique des auteurs con un saggio nel quale argomenta il fatto che Orson Welles deve gran parte della gloria ottenuta con "Quarto potere" al lavoro del suo vero autore: lo sceneggiatore Herman Makiewicz. Quattro anni dopo tocca a Richard Corliss attaccare la più famosa teoria cinematografica di sempre, facendo notare che film come Le notti di Chicago (Underworld, 1927), Scarface (id., 1932) e Partita a quattro (Design for Living, 1933) siano stati scritti tutti e tre da Ben Hect e che invece, nell'immaginario collettivo, sono state le opere che hanno fortemente contribuito a costruire le carriere e i nomi di registi come Josef Von Sternberg, Howard Hawks e Ernst Lubitsch. Dopo questi timidi tentativi si è dovuto attendere il 2006 prima di veder formulata una più articolata, forte e programmatica forma di protesta contro l'auterism al quale, per decenni, si sono uniformati acriticamente studiosi, giornalisti e appassionati. Questa contro-storia del cinema risponde al nome di Schreiber Theory e il suo autore è il critico cinematografico americano David Kipen. L'obiettivo di Kipen, stando alle sue stesse parole, non è «quello di sostituire lo sconsiderato e dogmatico auterism con una teoria del film altrettanto sconsiderata incentrata sullo scrittore», bensì agendo su un piano di ridimensionamento della politica di Truffaut e soci, arrivando talvolta e con vari gradi di intenzionalità a ridicolizzarne gli eccessi. Kipen inizia il suo saggio proprio così, attaccando uno dei cardini della politica dei Cahiers: la personalità dei grandi registi e le loro ossessioni. All'Hitchcock che propone in tutti i suoi film temi come la colpa, la paranoia, lo scambio di persona e la figura della bionda, Kipen risponde con John Huston un grande regista che non ha mai fatto due film uguali e che però - probabilmente proprio per questo motivo - non è stato mai citato dai ''giovani turchi''.
Leggendo i crediti, anche solo, dei film che cita Corliss nel 1975 si nota facilmente che la scrittura non è farina del sacco del solo Ben Echt e che tra soggettisti, adattatori e dialoghisti spesso e volentieri si arriva a sfiorare la doppia cifra di personalità coinvolte in fase di sceneggiatura. Questo è uno dei grossi problemi che ogni teoria del cinema deve affrontare ed è, secondo Kipen, anche uno dei motivi per il quale la politique des auteurs ha avuto così forte presa; perché, del resto, su cosa preferireste scrivere un articolo convincente e un minimo leggibile? Sul Tootsie (id., 1982) di Sidney Pollack o sul Tootsie di Larry Gelbart, Barry Levinson, Elaine May, Don McGuire e Murray Schisgal? Diventa palese, insomma, come i critici cinematografici tendano, nelle loro analisi, a scegliere la via più semplice e che l'attribuzione del titolo di autore deve far seguito ad un lavoro molto più attento. Anche a discapito della velocità e della comodità del poter associare il film ad un unico nome. Per Kipen, insomma, ogni critico degno di questo nome dovrebbe essere in grado di esaminare una sceneggiatura scritta a più mani e individuarvi i temi comuni a ciascuno scrittore - proprio come qualunque rispettabile studente di commedia sa distinguere uno sketch di Eric Idle da uno di Graham Chapman, anche se nei crediti ci si riferisce solo ai ''Monthy Python'', o come un critico musicale che abbia un po' d'amor proprio riesce a capire se una canzone di Lennon-McCartney appartenga più all'uno o all'altro. La collaborazione non impedisce l'analisi: piuttosto la richiede.
Kipen, poi, fa notare come le dottrine francesi abbiano sempre avuto un ruolo predominante a discapito, per esempio, della creazione di una poetica che sapesse adattarsi meglio alla concezione cinematografica americana, i cui film, del resto, sono pur sempre i più diffusi al mondo. Insomma, questa unilateralità tende praticamente a ignorare la possibilità che l'auterism, storicamente, funzioni molto meglio per analizzare un certo cinema francese (in particolare quello prodotto da Godard e Truffaut stessi) piuttosto che la maggior parte di quello americano anche e soprattutto perché la riconoscibilità di quest'ultimo risiede non tanto nell'aspetto estetico quanto nei dialoghi. Gli sceneggiatori, provenienti quasi tutti dal mondo del giornalismo e del teatro, danno al film sonoro uno stile che valorizza l'esuberanza verbale anziché l'immagine pittorica.
Il problema della paternità del film a fini puramente commerciali è un'altra delle questioni affrontate da Kipen. In particolare in America, è sufficiente che il sindacato dei registi indìca uno sciopero perché questi ottengano una sempre più vasta fetta di guadagni sui diritti d'autore. Spesso, inoltre, pur limitandosi ad un lavoro di messa in scena piuttosto basilare, i registi acquistano anche un ulteriore titolo (il famoso ''Un film di'') che raddoppia la paternità oltre che i guadagni e che finisce con l'ignorare il lavoro di sceneggiatori, montatori e quanti altri contribuiscono in prima linea alla riuscita del film. Assodata questa situazione e nel tentativo di ri-bilanciare l'asticella del potere di Hollywood a favore degli scrittori e a scapito dei registi, Kipen propone cinque argomenti che hanno quasi il profumo dell'appello a far si che le cose cambino.
In primo luogo, Kipen suggerisce che sia direttamente la Writers Guild of America (Associazione degli scrittori americani) a modificare le proprie procedure d'assegnazione dei crediti, in modo da riflettere con maggiore precisione l'entità dei vari contributi. Questo perché in base al regolamento attuale, lo scrittore originario può mantenere il credito in condivisione, persino dopo che qualcun altro abbia eliminato ogni singola scena di quanto lui ha scritto e abbia poi ricominciato da zero. Per contro, gli sceneggiatori-infermieri possono salvare un film da morte sicura e non ottenere nessun riconoscimento a parte un assegno e un ''Ringraziamento speciale'' nei titoli di coda.
La seconda proposta, indirizzata sempre alla Wga, è quella di assegnare un incaricato per ogni nuovo film che inizi le riprese, allo scopo di documentare le evoluzioni del copione e monitorare la sua realizzazione. E' una soluzione forse dispendiosa (comunque già adottata dall'Associazione dei registi) ma in cambio ci sarebbero finalmente crediti rilasciati con maggiore precisione, e così facendo i critici e gli studiosi avrebbero tutti i dettagli a disposizione da consultare (e senza più alcuna scusante).
Ovviamente questo lavoro andrebbe fatto anche per tutti i vecchi film che necessitano di tali correzioni. Per rispondere a tale esigenza, Kipen propone di incaricare una commissione di ripristino crediti, che abbia il compito di fare ricerche e ridistribuire i crediti dei decenni passati. Un lavoro certamente lungo, ma necessario visto il caos regnante soprattutto nel periodo dell'Età dell'oro di Hollywood.
Una rassegna su Hitchcock, una su Allen, una serie di proiezioni su Kubrick. Basta frequentare gli ambienti universitari e i cinema d'essai (e magari qualche canale televisivo satellitare) per capitare davanti a progetti di questo tipo. La quarta proposta di Kipen alla Wga è proprio di questa tipologia: promuovere, e magari ospitare, retrospettive dedicate ai lavori di singoli sceneggiatori.
In ultima battuta, per Kipen sarebbe di fondamentale importanza iniziare a pubblicare i memoir di illustri sceneggiatori, anche perché l'attrattiva dell'ultima parola - la risposta dello scrittore al montaggio definitivo - non va mai sottovalutata.
Questi cinque ammonimenti potrebbero essere molto d'aiuto per ripristinare una situazione quantomeno egualitaria ma, allo stesso tempo, dovrebbero essere gli sceneggiatori stessi ad evitare di sgomitare per diventare registi. Infatti come si può pretendere che sia considerata con rispetto una professione da cui si cerca a tutti i costi di fuggire o che si vuole sfruttare trasformandola in una carriera doppia? Anche se in genere ci si decide a fare questo passo per proteggere il proprio lavoro - ''Dirigo solo per autodifesa'', disse una volta Mel Brooks.
In conclusione del suo saggio e guardando alla storia del cinema - caratterizzata nei primi cinquant'anni dall'egemonia dei produttori e nei successivi cinquanta da quella dei registi - assodandone il decadimento nonostante (o forse a causa di) la presenza dell'auterism, Kipen auspica che i prossimi cinquant'anni siano ereditati dagli sceneggiatori. Così ciò che Kipen intende dimostrare è che lo schreiberism non è soltanto una teoria feconda e competitiva, ma un preludio pratico e necessario alla produzione di nuovi e migliori film. Del resto questa convinzione è suffragata anche da alcuni interessanti elementi che emergono analizzando le carriere di alcuni dei più importanti sceneggiatori della storia del cinema, le cui brevi biografie sono raccolte dallo stesso Kipen in appendice al suo volume. Ad esempio, analizzando, anche solo superficialmente, quasi tutti i film scritti da William Broyles Jr. - in ordine di uscita Apollo 13 (id., 1995; diretto da Ron Howard), Cast Away (id., 2000; diretto da Robert Zemeckis), Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes, 2001; diretto da Tim Burton) e Polar Express (id., 2004; diretto da Robert Zemeckis) - persino il più accanito auterist sarebbe costretto a riconoscere la coerenza di assunto di questi film, tutte variazioni sul tema dell'esilio e del ritorno. In Apollo 13 abbiamo un gruppo di astronauti in rotta verso la luna, e quindi lontanissimi da casa, alle prese con un guasto che li costringerà a varie peripezie per poter ritornare a terra. Più o meno lo stesso schema ravvisabile in Cast Away dove il protagonista è costretto a sopravvivere su un'isola deserta in seguito ad un incidente fino a quando non riuscirà a trovare il modo di tornare a casa. Idem ne Il pianeta delle scimmie e Polar Express, nei quali i protagonisti - anche se in modo e per motivi molto diversi - si ritrovano in versioni parecchio strane del mondo e dovranno lottare per tornare a casa.
Questo discorso può essere allargato ad altri sceneggiatori come Sidney Howard la cui filmografia dimostra una coerenza tematica interna che nessuno dei registi ingaggiati per girare le sue sceneggiature può vantare: ad esempio il triangolo amoroso, tema che si presenta non solo in Non desiderare la donna d'altri (They Knew What They Wanted, 1940; diretto da Garson Kanin) e Infedeltà (Dodsworth, 1936; diretto da William Wyler) ma anche in L'isola del diavolo (Condemned, 1929; diretto da Wesley Ruggles). Poi, ancora, i finali aperti che lasciano presagire più di quanto non concludano tra cui quello più famoso di tutti: l'affermazione di Rossella O'Hara: «Domani è un altro giorno» in Via col vento (Gone with the Wind, 1939; diretto da Victor Fleming). Infine, l'amore di Howard per la natura e il pastorale rintracciabile di nuovo, tra gli altri, in Non desiderare la donna d'altri e Via col vento, dove le vicende ruotano intorno all'opposizione tra il cosmopolita e il bucolico. Curiosamente, questo amore per la natura finì per costargli la vita: abbandonata la nativa Oakland si trasferisce in una fattoria nel Berkshires e lì, a pochi mesi dalla vittoria dell'Oscar per la sceneggiatura di Via col vento, un trattore si ribaltò sopra di lui.
Sono tanti altri gli sceneggiatori di un certo ''peso'' che caratterizzano la loro carriera con una forte centralità tematica: pensiamo a Charlie Kaufman, autore di film come Essere John Malkovich (Being John Malkovich, 1999; diretto da Spike Jonze), "Confessioni di una mente pericolosa" (Confessions of a Dangerous Mind, 2002; diretto da George Clooney) e "Se mi lasci ti cancello" (Eternal Sunshine of the Spotless Mind, 2004) caratterizzati dal racconto del desiderio di un burattinaio di poter tirare da sé i propri fili. Per non parlare poi dell'ossessione dello scrittore Richard Matheson per il diabolico, l'insolito, l'irreale e la fantascienza, che si palesa in tutti i suoi straordinariamente numerosi lavori, dagli episodi scritti per la serie tv Ai confini della realtà (The Twilight Zone, 1959-1964 e 1985-1989; creata da Rod Serling), passando per Duel (id., 1971) tratto da un suo racconto breve, che segna l'esordio alla regia di Steven Spielberg, e vede messa in scena l'incredibile e assurda lotta per la vita e la morte tra un commesso viaggiatore e una terrificante autocisterna. Argomento rivisitato da Matheson nel terzo, e sfortunato, episodio di una saga inaugurata proprio da Spielberg, Lo squalo III (Jaws 3-D, 1983; diretto da Joe Alves), con il diabolico e mostruoso squalo bianco che semina terrore e distruzione senza motivo. E non si possono non citare, poi, Ovunque nel tempo (Somewhere in Time, 1980; diretto da Jeannot Szwarc) con i suoi viaggi nello spazio tempo e le poetiche atmosfere di Al di là dei sogni (What Dreams Maycome, 1998; diretto da Vincent Ward), tratto dall'omonimo romanzo di Matheson ma adattato per lo schermo da Ronald Bass, dove il protagonista è impegnato nelle ricerca dei propri familiari nell'oltretomba. Non è un caso, insomma, che, con l'eccezione di Spielberg, dei tantissimi lavori sceneggiati da Matheson ci si ricordi più della sua impronta autoriale che del tocco dei vari registi. Si potrebbe obiettare che questo avviene per lo scarso valore dei registi impegnati a mettere in scena i film scritti da Matheson, ma anche dando un'occhiata alla filmografia di uno sceneggiatore come David Webb Peoples (al lavoro quasi sempre con grandi personalità) si notano elementi comuni, come una forte predisposizione per la fantascienza raffinata: Blade Runner (id., 1982; diretto da Ridley Scott) e L'esercito delle dodici scimmie (Twelve Monkeys, 1995; diretto da Terry Gilliam), entrambi caratterizzati da futuri cupi per l'umanità e dagli inquietanti sogni ricorrenti dei protagonisti; i due film, però, hanno anche qualcosa in comune con un altro film - di un genere apparentemente molto distante come il western - molto famoso e celebrato di Peoples: "Gli spietati" (Unforgiven, 1992; diretto da Clint Eastwood). Tutti e tre i film raccontano di uomini laconici, violenti, disillusi, che accettano di fare lavori sporchi, si imbattono in figure innocenti e superano terribili prove per conquistarsi la loro parte di redenzione.
Non possiamo che concludere questa carrellata citando Guillermo Arriaga, il cui nome è legato a doppia mandata con quello del regista Alejandro González Iñárritu e non senza conseguenze anche spiacevoli. I due, infatti, dopo "Amores perros" (id., 2000), 21 grammi (21 grams, 2003) e "Babel" (id., 2006) realizzati insieme, interrompono improvvisamente la loro proficua collaborazione perché Arriaga è stufo di apparire sempre in secondo piano: «quando la gente dice che un film è d'autore, io rispondo che è un film d'autori. Sono sempre stato contrario alla dicitura ''un film di'' nei crediti delle pellicole. E' un processo collaborativo che necessita il contributo di più autori». In prima linea per salvaguardare l'importanza degli sceneggiatori, Arriaga afferma che «la gente va a vedere i film per le storie e sono queste a rimanere nella loro memoria»; ciò non significa, però, che Arriaga dimentichi l'importanza del regista nella riuscita dei film, e parlando di 21 grammi più di una volta ha riservato parole al miele per il collega. Fatto sta che dopo l'uscita di Babel, durante le cui riprese i due arrivano ai ferri corti, Arriaga e Iñárritu decidono di separare le proprie strade: il primo firma il suo esordio alla regia con "The Burning Plain" (id., 2008), il secondo invece si fa aiutare da Armando Bo e Nicolás Giaconone per scrivere "Biutiful" (id., 2010). Al di là della riuscita o meno delle rispettive pellicole, si nota che entrambi mantengono fede ad atmosfere e tematiche dei precedenti lavori comuni, anche se Iñárritu inserisce anche un'inedita sfumatura sovrannaturale e religiosa nel suo lavoro, non possibile in precedenza per il noto ateismo di Arriaga, il quale dava molto poco spazio alla speranza in 21 grammi; la differenza maggiore si nota, però, nella struttura narrativa: The Burning Plain si modella sulla solita struttura temporale non lineare, mentre Biutiful da questo punto di vista è molto più canonico. Il film che sembra far capire quanto sia fondamentale l'apporto delle sceneggiature di Arriaga (che ricordiamo è anche romanziere) è Le tre sepolture (The Three Burials of Melquiades Estrada, 2005), dove è Tommy Lee Jones a mettere in scena le parole dello scrittore messicano e dove si ritrovano i tratti distintivi della poetica di Arriaga, dalla scomposizione temporale della narrazione agli aspetti tematici: la morte, il caso, la colpa e la redenzione.
Con questo non si vuole insinuare che i film precedentemente associati (la maggior parte delle volte) al solo Iñárritu siano, ora, da assegnare esclusivamente ad Arriaga. Sarebbe un errore, perché gli sceneggiatori non fanno tutto da soli, non meno che i registi e se anche può capitare che questi facciano qualcosa in più dei registi, almeno nei film migliori lo schreiberism proposto da Kipen deve essere soprattutto un tentativo di salvare la critica e la ricerca da coloro che vorrebbero farci dimenticare quanto fare un film sia un processo basato sulla collaborazione.
Il ruolo dei critici diventa dunque fondamentale e, del resto, François Truffaut, Jean-Luc Godard ed Eric Romher erano dei critici cinematografici quando idearono la politique des auteurs.
Una terra promessa
Non siamo ancora in grado di affermare se le cose siano davvero destinate a cambiare ma già oggi, dopo decenni di soprusi e di svalutazione del mestiere, esiste una terra promessa per gli sceneggiatori. Un luogo dove poter dar sfogo a tutta la propria fantasia continuando a mantenerne il controllo prima, durante e dopo la messa in scena. Questa utopia trova realizzazione all'interno della grande serialità televisiva, i cui sviluppi qualitativi degli ultimi vent'anni sono stati incredibili e probabilmente anche imprevedibili.
Ma questa è un'altra storia.