Una roulotte in fiamme nel deserto, sotto il sole cocente del New Mexico. Comincia così "The burning plain" (ovvero, la pianura che brucia), esordio dietro la macchina da presa di Guillermo Arriaga, sceneggiatore di fiducia di Iñárritu (suoi "
Amores Perros", "
21 Grammi" e "
Babel", per cui ha anche ricevuto una candidatura agli Oscar).
Dopo "Babel", pare essersi momentaneamente interrotta la fin qui proficua collaborazione tra lo sceneggiatore ed il regista, oramai divisi (professionalmente parlando, s'intende) su quale fosse il vero motore di un film. La penna oppure la macchina da presa? Lo scrittore oppure colui che dirige? Risultato: Iñárritu si scriverà da solo il suo prossimo lavoro. Arriaga, così come è già capitato per Paul Haggis, non solo si è scritto, ma si è pure diretto il suo.
Fedele al suo classico impianto narrativo, Arriaga anche questa volta frammenta il racconto e partendo da un evento tragico (la morte di due amanti, proprio in quella roulotte che brucia nella pianura), intreccia quattro diverse storie, solo in apparenza slegate l'una dall'altra. Come in un gioco ad incastro, il regista messicano si muove con il montaggio su continui salti di spazio (dal torrido New Mexico alla piovosa Portland) e, questa volta, anche di tempo, per parlare del destino e della colpa, concentrando il proprio sguardo sull'universo femminile. Protagoniste assolute sono infatti quattro donne/ragazze/bambine, madri e figlie. La giovane ed irrequieta Mariana, che vive in una cittadina al confine con il Messico e si innamora, contro il volere di tutta la famiglia, del figlio di Nick (l'amante di sua madre); Sylvia, direttrice di un ristorante a Portland che conduce una vita tormentata, incapace di costruire un rapporto solido (si concede sempre ad amanti occasionali); Gina, madre di Mariana, operata di tumore e che ha una relazione clandestina con Nick. Ed infine la piccola Maria, che vive anch'essa nel New Mexico e vede suo padre precipitare con l'aereo in un campo di sorgo.
Raccontare la trama ed i suoi sviluppi non sarebbe corretto, soprattutto considerando quanto siano importanti per Arriaga la storia ed i suoi intrecci. Perché è sulla scrittura che il (neo)regista messicano si concentra veramente. Certo, non è corretto dire che la regia sia del tutto assente. La fotografia, buon lavoro di Robert Elswit e John Toll, è intensa e sa virare con decisione dai toni caldi del deserto del Chihuahua, a quelli cupi e umidi dell'Oregon. Ma Arriaga pare meno interessato alla macchina da presa ed alle sue potenzialità. Essa è piuttosto uno strumento per mostrare, un occhio semplice ed indiscreto (quanto sembra lontano "
Babel", che pure molto condivide con questa pellicola). Anche se, in chiusura di film, Arriaga si "intromette" maggiormente, nella bella scena che con un efficace montaggio alternato fa confluire tutte le storie e dona loro la giusta realizzazione, riunendo visivamente tutte le protagoniste.
Nota di merito va infine al cast, in particolare alle interpretazioni delle attrici del film. Charlize Theron (qui anche nel ruolo di produttrice esecutiva), che interpreta Sylvia, Kim Basinger nel ruolo di Gina e, soprattutto, la giovane Jennifer Lawrence (Mariana), premiata con il Premio Marcello Mastroianni alla 65ma edizione del Festival di Venezia, dove la pellicola era in concorso.
Un esordio convincente, che necessita sicuramente di essere confermato. Nella parte centrale il film si concede qualche lungaggine di troppo e ad un certo punto sembra non andare da nessuna parte. Ma, quando alla fine ogni tassello della storia trova il suo posto, anche il senso di ogni personaggio diventa chiaro. Una riflessione, non sempre lucida ma sincera, sulla colpa e sulle seconde opportunità della vita (una redenzione è possibile?), attraverso lo sguardo, lungo tre generazioni, di madri e figlie. Il dolore, il senso di colpa per gli errori del passato possono trovare un (possibile) riscatto solo nell'amore: solo nell'amore di chi ci permette di riparare a quanto di sbagliato possiamo aver commesso nella nostra vita.