La redazione di OndaCinema presenta una lista dei più significativi e celebri film "d'amore", in una rassegna che comprende una miscellanea di generi, dal dramma alla commedia, dal grottesco al thriller/noir. Più di trenta dichiarazioni di un Amore passionale, sognante, travolgente, come solo il Cinema (quello con la C maiuscola, si intende) è capace di regalare
... Dopotutto, domani è un altro giorno...
Con Scarlett (Rossella) O'Hara che poneva la parola fine a una delle pellicole più celebrate e osannate dal grande pubblico, il fenomeno cinematografico nella sua accezione totale, subiva una radicale presa di posizione. Se Rhett Butler francamente se ne infischiava, il successo scaturito da "Via col vento" mirava deciso a concentrare il genere sentimentale e romantico come il culmine dell'intero intrattenimento filmico. Sebbene in quel lontano 1939, l'Amore, quello con l'A maiuscola, era già divenuto un consolidato punto di forza della neonata sfera del cinema, l'esplosione che scatenò l'epico e voluminoso "romanzo filmato" diretto da Victor Fleming condusse la pellicola a essere nomenclata come il film romantico per antonomasia, attributo che probabilmente gli spetta ancora oggi, dopo decine e decine di anni. Non è certo una novità che l'accezione sentimentale la faccia da padrone all'interno di un romanzo, così come tra i fotogrammi di un film: dall'espressionismo del cinema muto di "Aurora" (il più bel film della storia del cinema secondo François Truffaut) ai primi kolossal figli di "Via col vento", dalle commedie romantiche di Billy Wilder sino al dramma lirico e sofferto del nuovo millennio di Wong Kar-wai, la settima arte ha potuto fare leva su un sentimento che costituisce di fatto le fondamenta dell'intera creazione estetica dell'Arte e che modella e acuisce l'importanza del concetto di fruizione cinematografica. La redazione di Ondacinema presenta una lista dei più significativi e celebri film "d'amore", in una rassegna che comprende una miscellanea di generi, dal dramma alla commedia, dal grottesco al thriller/noir. Più di trenta dichiarazioni di un Amore passionale, sognante, travolgente, come solo il Cinema (quello con la C maiuscola, si intende) è capace di regalare.
Sangue e arena (Fred Niblo, 1922)
Alimentato dalla verve passionale del romanzo di Blasco Ibáñez, il melodramma del regista statunitense Fred Niblo si rivelò un successo planetario del cinema muto. Merito del neonato "star system", fenomeno del divismo che trasformò la sfera pubblica industriale e commerciale, realizzando un cinema delle attrazioni che richiamò su di sé per la prima volta la popolarità e il desiderio della donna. L'improvvisa e incallita fruizione femminile di cui stiamo parlando non potrebbe identificarsi che con il culto di Rodolfo Valentino. All'apice della sua osannazione l'attore nato a Castellaneta interpreta il novello torero Juan Gallardo, che innamoratisi della vamp Doña Sol (Nita Naldi) incontra prima il successo e poi la strada verso la perdizione che lo porterà a un tragico epilogo. La vita privata dell'attore, insieme alla sua presunta ambiguità sessuale e alla sua "femminilizzazione della persona dell'attore" (Miriam Hansen) saranno il trampolino di lancio verso un universo costituito dalle prime fantasie (conscie e inconscie) del maschio come oggetto erotico, processo che destinerà l'attore alla sua leggendaria vita post-mortem. L'eros/thanatos di "Sangue e arena" sgorga dallo sguardo ammaliatore, narcisista ed esibizionista di un latin lover senza tempo. (M.D.S.)
Aurora (Friedrich Wilhelm Murnau, 1927)
"Aurora" è la storia di tutte le storie d'amore, un sogno vissuto ad occhi aperti e in bianco e nero, un'esperienza sensoriale a trecentosessanta gradi. Un cane che smaniosamente riesce a slegarsi dalle catene e raggiungere i due sposi su una barca. Una scena apparentemente superflua ma che racchiude invece tutta la prima parte del film giocata sul dramma di un amore svanito, di un'attrazione fatale ma a cui il destino è deciso a riproporre una seconda possibilità. Murnau si serve semplicemente di sequenze come questa per mettere in cornice il senso di solitudine e di tragicità che pervade il primo atto della vicenda. Nella seconda parte la città lascia spazio alla fattoria e comincia un percorso iniziatico sull'amore da antologia: la commovente sequenza del matrimonio ma soprattutto la magnifica scena del bacio in strada tra i clacson delle auto nel traffico [continua a leggere...]
Luci della città (Charlie Chaplin, 1931)
Se il discorso sull'evoluzione del linguaggio cinematografico è la novità di questo film, "Luci della città" non fa dimenticare che Charlie Chaplin è anche e soprattutto un critico del sistema economico vigente, in cui il suo spirito anarchico si sente fuori luogo. Esattamente come il suo personaggio, che da un lato ama farsi passare per ricco e ambisce a diventarlo, specie per amore della fioraia cieca di cui si è invaghito (è questa la linea narrativa trainante), ma che dall'altro è profondamente a disagio quando è costretto a lavorare, come dimostra la breve sequenza in cui spala il manto stradale circondato da un autentico bestiario: una mandria di cavalli, che si interpone tra il nostro eroe e il monumento dell'inizio della pellicola, e persino un elefante. Dalla radiografia chapliniana emerge un mondo alla rovescia, in cui le persone riescono a provare sentimenti autentici solo se colpite da qualche forma di handicap (la cecità, metafora lampante, o l'ubriachezza), mentre appaiono insensibili o prevaricatrici se normodotate. E' vano l'arrabattarsi per vivere del proprio lavoro, in questa società rigidamente polarizzata, dominata dalla natura corruttrice del denaro [continua a leggere...]
L'atalante (Jean Vigo, 1934)
Essendo la tematica dell'amore forse la più esplorata, masticata, rivoltata, modellata dal cinema, ma dall'arte in generale, Vigo riesce a foggiare un corpo unico non solo tra i due sposi protagonisti, ma con lo spettatore. Se qualcuno ha detto che l'intimità che scaturisce dall'atto della visione cinematografica è paragonabile a quella sessuale, allora "L'Atalante" è forse il film più erotico mai realizzato, quello che erige la passionalità di Jean e Juliette tramite la combustione di elementi cinematografici basilari (la fotografia, il montaggio, la ricerca dell'inquadratura comunque mai artificiale). Il bello è che questa complicità tra film e pubblico non si ferma alle ardenti pulsazioni. "L'Atalante" è un film sull'amore a tutto tondo. Dell'amore che può essere - o meglio: è - la cosa più semplice e complicata dell'universo. Per questo il film trova il Tutto dal Nulla. La sorpresa del reale di fronte al reale. L'amore nell'amore. L'amore [continua a leggere...]
Susanna! (Howard Hawks, 1938)
Cary Grant, serioso e impacciato paleontologo con gli occhiali di Harry Potter, ha solo due cose da fare: completare il suo brontosauro e sposarsi alle tre del pomeriggio. Finirà per ritrovarsi con un leopardo (vivo, stavolta) in salotto e, al seguito, l'ancor più selvaggia e svampita Hepburn. Travolgente prototipo femminista della new woman, la Susan di Hawks inscena una nuova battaglia dei sessi, facendosi energico motore di una regressione infantile che finirà per assorbire lo sventurato Grant, conquistato dal fascino impetuoso di questa regina del caos. Due idee sovrastano il film: l'amore come gioco ingenuo e sfacciato al contempo, in cui si fa strada l'esperienza istintiva di una seduzione goffa e farsesca, e la coppia, resa esplicita nella costante presenza dei due protagonisti sullo schermo (ironicamente raddoppiata, nel finale, dai due leopardi). E dopo camion tamponati, galline divorate, abiti strappati, c'è ancora tempo per una irresistibile dichiarazione d'amore, sopra i resti del brontosauro sbriciolato dall'affettuosa furia distruttiva di lei, stretti in un abbraccio risanatore, sospesi su impalcature traballanti, che sembrano preludere a nuove, fantasiose catastrofi. (M.P.)
Vertigine (Otto Preminger, 1944)
Esemplare classico premingeriano che ha completamente rivoluzionato il cinema noir introducendovi in forma prodromica il legame tra ossessione erotica e incognite identitarie, "Vertigine" ha sugellato un dittico mortale che verrà sviscerato, poco meno di un quindicennio dopo, nel cinema di Hitchcock, restando per sempre avviluppato nelle spirali della turbinosa morbosità di "Vertigo". L'elegantissimo bianco e nero di Joseph LaShelle riecheggia affascinanti atmosfere espressioniste, mentre i movimenti di macchina articolati, precisi e rapidissimi rivelano dettagli nascosti e segreti ingannatori. "Laura" è il folgorante resoconto dell'ossessione amorosa per una donna in quanto immagine, idea, fantasma archetipico, ma soprattutto in quanto assenza. Infatti l'entità che scatena l'attrazione inconsapevole del ruvido tenente McPherson è puramente spirituale. Ed è frutto di una rielaborazione pittorica che ci riconduce alla pericolosa "Donna del ritratto" di cui, sempre nel 1944, il mansueto borghese Edward J. Robinson si era invaghito. Almeno due dati sonori non danno tregua allo spettatore: l'appassionato tema di David Raskin, epifania musicale della protagonista, e la voce melliflua di Clifton Webb che conferma: "Quand'eri irraggiungibile, quando ti credeva morta, ti ha desiderato di più". (V.L.)
Breve incontro (David Lean, 1945)
"Il destino è stato crudele con noi fino all'ultimo istante". È il 1945 e tutto inizia in una stazione ferroviaria nella periferia londinese. Fumosi i treni sfrecciano, il bar si anima di avventori frettolosi. Tra tante persone intente a raggiungere una meta, qui, nasce e muore la relazione clandestina tra Laura (Celia Johnson) ed Alec (Trevor Howard), un amore triste e sospeso quasi fosse stato semplicemente sognato ad occhi aperti con lo sguardo perso oltre il finestrino di un treno in corsa. È un breve incontro il loro, che dura una manciata di pomeriggi ma che penetra lacerante nel animo. D'altro canto non si può mai giudicare la profondità d'una ferita dall'ampiezza del taglio. Il bianco e nero di Lean è una tavolozza di colori emotivi dipinti con una sceneggiatura sottile e una recitazione affilata fatta di sguardi e sottintesi. Tessuta nella sospensione e nell'attesa la pellicola è una continua esplosione di emozioni. Palma d'Oro a Cannes nel 1946, secondo miglior film britannico del XX secolo secondo il British Film Institute, un'esperienza intima e indimenticabile per gli spettatori da oltre mezzo secolo. (S.P.)
Notorious, l'amante perduta (Alfred Hitchcock, 1946)
Mentre l'Europa era impegnata a far cumulo dei propri resti e lo spettro di un nuovo conflitto raggelava le due estremità dell'Atlantico, Hitchcock, in trasferta americana, si preparava a raccontare la storia di una "ragazza costretta ad andare a letto con una spia per ottenere informazioni". Il Mac Guffin è atipico: un campione di uranio nascosto in una bottiglia di vino; talmente anomalo che il sospettoso ufficio dell'FBI farà pedinare il regista per mesi. Ma lo spionaggio è solo uno degli ingredienti di questo capolavoro, melodramma intimamente percorso da una tensione sensuale, che l'impudica fotografia di Ted Tetzlaff svela negli angoli di ogni fotogramma, nelle atmosfere contrastate di nettissimi primi piani, in cui l'ambiguità morale e il desiderio sopito si vivificano nella luminosità satinata di un'immagine capace di aderire al volto della Bergman sino a farsi pura materia. Nell'essenzialità di un soggetto archetipo (due uomini innamorati della stessa donna), la maestria di Hitchcock modula un crescendo emotivo pronto a deflagrare nel bacio con Grant ("il più lungo della storia del cinema"), in quell'abbraccio che sembra infinito e in cui si risolve il trauma della mancanza, del desiderio frustrato che aleggia sul film. E il finale, asciutto ed emozionante come pochi, giunge improvviso a marchiare indelebile la storia del cinema. (M.P.)
Scala al paradiso (Michael Powell e Emeric Pressburger, 1946)
Patrocinato dal Ministero Britannico dell'Istituzione, "Scala al Paradiso" nasce come film su commissione per migliorare i rapporti tra Inghilterra e Stati Uniti. Dopo l' "oltraggio" di "Duello a Berlino" (un'amicizia anglo-tedesca in tempo di guerra!), l'altro vertice del duo, Powell e Pressburger danno libero sfogo alla loro immaginifica fantasia: dichiaratamente romantica, sarcastica, di una matrice fantastica prettamente british. Nell'architettare una visione d'insieme senza limiti (tra terra e cielo, tra il colore e il b/n), la Scala verso il Paradiso (e l'amore) è l'emblema del cinema dei due inimitabili cineasti, che adottano una fantasia tanto sbalorditiva quanto adagiata su una verosomiglianza inedita per un film fantastico. E', dunque, una love story irrazionale che trova la sua poetica nello sfrontato desiderio di utilizzare elementi basilari del cinema per dare forma all'invisibile palcoscenico della nostra vita. Arredandolo con un sentimento amoroso che trascende l'illusione, puntando dritto al cuore, dei due innamorati come dello spettatore. (D.C.)
Lettera da una sconosciuta (Max Ophüls, 1948)
Disperata, tragica passione alimentata con ostinata costanza, quella di Lisa per Stefan nel capolavoro di Ophüls. La storia di Zweig ha i contorni della favola amara, come dei Grimm malati di melodramma che condannano lei ad amare senza essere ricambiata, riconosciuta, a osservare senza essere vista in un incantesimo che non si spezza. E condannano lui a non saper ricordare, proprio come un eroe delle loro favole, ma senza che la maledizione si interrompa. E l'osservare, quello che pulsa sotto le pagine di Zweig, lo spioncino di casa di Lisa che era "il suo occhio verso il mondo", puntato verso la porta di Stefan, ce lo mette il cinema di Ophüls: obiettivo che guarda lo sguardo non corrisposto in quel continuo, unilaterale, spiare di Lisa. Dramma tragico e fatale nella sua semplicità: la passione ricambiata con l'indifferenza, con la dimenticanza [continua a leggere...]
Quando la moglie è in vacanza (Billy Wilder, 1955)
Quando la moglie è in vacanza all'improvviso Marilyn, come un uragano nella torrida afa della New York estiva. E nulla è più come prima. Il marito fedele Richard (Tom Ewell) si trova a fantasticare sulla ragazza appena trasferitasi al piano di sopra, la bionda irresistibile (Marilyn Monroe) esplode sulla scena con la sua presenza dirompente. Tutto inizia a ruotare attorno a lei e quel prurito del settimo anno (che dà il titolo al film nella sua lingua originale) chiede fortemente d'esser grattato. Un suo alluce può diventare fonte d'ispirazione per interi trattati, figuriamoci se da una grata lo spostamento d'aria dovuto al passaggio della metropolitana le alzasse la gonna lungo le strade del centro newyorkese. Così l'immagine si fa icona. Con questa satira travolgente del puritanesimo sessuale degli anni '50 il genio cristallino di Billy Wilder ci racconta d'un amore fantasticato più che vissuto, temuto più che raggiunto ma non meno intenso, non meno travolgente. Straordinario esempio di efficacia e semplicità narrativa, nonché di ironia metacinematografica: "forse è Marilyn Monroe!" Sì, è Marilyn. (S.P.)
Arianna (Billy Wilder, 1957)
Comincia qui uno dei sodalizi più fortunati, quello tra Wilder e lo sceneggiatore I.A.L. Diamond. Tre anni dopo "Sabrina", il regista ritrova gli occhioni e la dolcissima grazia di Audrey Hepburn, affiancandole un Gary Cooper ormai attempato che si spreme tutto il fascino residuo del seduttore impunito. Parigi, o cara, dove chiunque fa l'amore a qualunque ora (memorabile la sequenza iniziale nella sua romantica ironia), è palcoscenico di questo segreto "amore nel pomeriggio". Il tema wilderiano del travestimento si ritrova nella finzione che Arianna inscena per ingelosire Mr. Flannagan spacciandosi per una avventuriera dell'amore e riuscire a farlo capitolare: da ingenua a spregiudicata lei, da indifferente a tormentato lui. Atmosfere à la Lubitsch che per un attimo, in quella scena a teatro in cui lui non riconosce lei, sconfinano nel terreno di "Lettera di una sconosciuta", ma l'amore sincero, smascherati i trucchi, rende tutti felici. Le musiche sono fondamentali: Arianna suona il contrabbasso (come Jerry/Daphne in "A qualcuno piace caldo") e attorno ai protagonisti trotta l'orchestrina di gitani con "Fascination". (D.D.L.)
L'appartamento (Billy Wilder, 1960)
"Film su un tizio che si infila nel letto ancora caldo lasciato dai due amanti". Questa frase giaceva su un vecchio taccuino e fu scritta da Billy Wilder dopo aver visto il britannico "Breve incontro" di David Lean (1945), classico del cinema sentimentale. La maggior parte dei film, dietro al filo conduttore principale sul quale agiscono i protagonisti, hanno nel loro bagaglio personaggi secondari che si muovono dietro le quinte. Talvolta sono figure potenzialmente interessanti, che avrebbero qualcosa da offrire in una immaginaria visione alternativa o supplementare. Personaggi che entrano ed escono, proprio come accade in "Breve incontro", che racconta la storia di un uomo che vive una relazione con una donna sposata e va, di tanto in tanto, a trovarla a Londra. Gli incontri tra i due avvengono nell'appartamento di un amico di lui di cui poco si viene a sapere [continua a leggere...]
L'avventura (Michelangelo Antonioni, 1960)
Nessuna coppia sembra salvarsi, uomo e donna vivono insanabili e infelici inferni relazionali. Si sopportano, si odiano, si tradiscono, fino a sfaldarsi e scomparire (come sarà poi l'estremizzazione del finale de "L'eclisse"). "L'avventura" si compone di contraddizioni: sull'amore tra persone che non si amano, sull'amicizia tra persone che non si capiscono e non si rispettano, su una sparizione senza esito e su domande senza risposta. La morale della società si è disfatta, rarefatta (di nuovo, come la sparizione di Anna), e la critica di Antonioni non riguarda tanto la necessità di un ritorno a valori antichi, quanto la nostra incapacità ad adeguarci a quelli attuali, al patetico tentativo di rimanere radicati a codici morali ormai obsoleti, che generano la frustrazione e lo stallo dei tempi moderni. A un livello macrocosmico [continua a leggere...]
A piedi nudi nel parco (Gene Saks, 1967)
Alla base del film la piece teatrale firmata da Neil Simon, e due attori pronti a spiccare il volo. Lui è Robert Redford, sguardo volitivo, zazzera bionda ed una manciata di interpretazioni apprezzabili, lei è Jane Fonda, fisico da maniquenne e una voglia d'indipendenza nata dal bisogno di emanciparsi da una figura paterna ingombrante. Sono loro, Paul e Corie, sposi novelli chiamati a superare le rispettive diversità caratteriali, messe a dura prova dalle possibilità di un appartamento poco pratico e dalla simpatica invadenza di una madre petulante. Filmato come il palcoscenico di un teatro, e costruito su tempi di precisione cronometrica, "A piedi nudi del parco" si diverte a giocare con il lato più romantico della vita, quello che del senso pratico non sa che farsene. Simon, e con lui il film, si divertono a stuzzicarlo esasperando il mondo ideale immaginato dalla coppia. La cosa più divertente è vedere quei sogni espulsi a parole ritornare nella storia attraverso la freschezza di personaggi inseriti in un contesto dove bellezza ed intelligenza fanno a gara per aggiudicarsi la palma del migliore. Se gli esiti dell'intreccio sono scontati, non si può fare a meno di sintonizzarsi al suo diapason emotivo. E alla fine a innamorarsi siamo proprio noi, dei personaggi e dei loro volti in primo piano sullo schermo. (C.C.)
Due per la strada (Stanley Donen, 1967)
Audrey Hepburn e Albert Finney sono i protagonisti di questa opera di Stanley Donen, un vero culto per i pochi adepti che hanno imparato ad amarlo, a dispetto di decine e decine di titoli che invadono i palinsesti per ogni ricorrenza e che sono nazional-popolarmente intesi come le "grandi storie d'amore del cinema." "Due per la strada", in effetti, non è solo un film romantico, è anche una brillante commedia e la moderna analisi di una crisi di coppia. Gran parte del fascino della pellicola consta nella sceneggiatura di Frederic Raphael, un esempio sorprendente di quell'Hollywood in crisi che era costretta a guardare Oltreoceano, alla vecchia Europa. Nel film di Donen non si possono non riconoscere alcuni stilemi della Nouvelle Vague, senza dimenticarsi dell'autopsia fatta da Orson Welles ("Citizen Kane"): il film parla della crisi vissuta Joanna e Mark che sono in viaggio in Francia, sulle strade lungo le quali dieci anni prima avevano imparato a conoscersi e ad amarsi. In un intelligente via vai di flashback che mettono in evidenza la differenza tra la genuina forza dell'amore nascente e il logorio dell'abitudine della vita borghese (e l'ha ben capito Cianfrance per "Blue Valentine", quasi un remake indie-serioso), "Due per la strada" è una preziosa lezione di cinema, tanto glamour quanto sensibile. (G.G.)
La mia notte con Maud (Eric Rohmer, 1969)
Terzo dei "Racconti morali", "La mia notte con Maud" è la storia di un giovane uomo, l'ingegnere Jean-Louis (Jean-Louis Trintignant), diviso tra due donne: la divorziata Maud (Françoise Fabian) e la giovane Françoise (Françoise Fabian). Il cuore del film è rappresentato dalla lunga sequenza della serata passata dal protagonista, introdotto dall'amico Vidal, a casa della affascinante Maud, in occasione della vigilia di Natale. Durante la notte il cattolico Jean-Louis rifiuta le avances di Maud, deciso a corteggiare la bionda Françoise (che ha adocchiato in chiesa), cosa che farà il mattino seguente. Solo alla fine del film Jean-Louis scoprirà che Françoise, che ormai ha sposato lasciando allontanare Maud, è stata l'amante del marito di Maud e quindi la causa del suo divorzio [continua a leggere...]
Minnie & Moskowitz (John Cassavetes, 1971)
Tra i film diretti dal grande Cassavetes non è, probabilmente, il più importante o celebrato. Ma giudicarlo "minore" sarebbe un peccato madornale. "Minnie & Moskowitz" è la "commedia romantica" secondo i canoni dell'autore di "Una moglie" e "Ombre". Ovvero una love story sullo sfondo di una città nevrotica e caotica, in cui si agitano le passioni di una coppia di "miserabili" solitari, totalmente diversi, e per questo destinati ad innamorarsi perdutamente. Al limite del cliché, rinvigoriti dalla potenza delle interpretazioni dei due protagonisti (Gena Rowlands e Seymour Cassell), lei è impiegata in un museo, pragmatica e leggermente snob, lui è un truffaldino posteggiatore d'auto, focoso e baffuto. Il regista trattiene la melassa, tratteggia le psicologie dei protagonisti con ironia (ma senza cattiveria), ci culla placidamente sino ad un lieto fine che fa palpitare il cuore. Forse la cosa più mainstream sfornata da Cassavetes, che tuttavia, se paragonata alla media delle commedie romantiche che vengono prodotte oggigiorno, pare un capolavoro assoluto. Da riscoprire. (A.P.)
La prima notte di quiete (Valerio Zurlini, 1972)
Come un fantasma che aleggia in mezzo alla nebbia invernale avvolgendo una desolata Rimini, il professore e poeta maledetto Daniele Dominici (Alain Delon) si imbatte nell'animo infelice e tormentato dell'allieva diciannovenne Vanina Abati (Sonia Petrova). In una provincia fagocitata dall'amoralità, dal vizio e dalla perversione borghese, il sentimento profondo tra i due è ostacolato dal misterioso passato che regna nelle vite di entrambi, un passato che annichilisce le speranze del presente e di un futuro. Il capolavoro di Valerio Zurlini è la storia di un amore e al tempo stesso la ricostruzione di un passato che, seppur deformato, torna prepotentemente a galla. Un film decadente come la stirpe minuta che accompagna il professore al cospetto dei suoi trascorsi giovanili nobili e aristocratici, dove la sublimità di una passione ineluttabile e brutale, unita all'azione salvifica della cultura (l'accostamento tra Vanina e il dipinto di Piero della Francesca) dà vita a un melodramma ombroso, tumultuoso, visivamente ed emotivamente irripetibile. Indimenticabile il cappotto color cammello indossato dall'avvenente Alain Delon. (M.D.S.)
Scene da un matrimonio (Ingmar Bergman, 1973)
Nell'autunno del 1978 ci pensò Ingmar Bergman a conquistare milioni e milioni di italiani. Nato come sceneggiato televisivo poi ridotto a produzione cinematografica, "Scene da un matrimonio" suscitò all'epoca un successo di pubblico tale da portare alla ribalta ampi dibattiti sulla coppia. La storia, divisa in sei parti, è quella del matrimonio quasi ventennale tra Johan (Erland Josephson) e Marianne (Liv Ullmann, David di Donatello come migliore attrice straniera). Sei spaccati della vita coniugale in un tripudio di sentimenti che spaziano dalla felicità e dall'appagamento degli albori, sino all'egoismo, ai malumori e ai tanti piccoli problemi quotidiani generati dalla corrosione del tempo. Fino al tradimento che trasforma in rabbia la disperazione e al divorzio. L'emozione di un amore/odio che conferma lo sbalordimento di essersi ritrovati su un punto di non ritorno, dove il dolore è troppo profondo e la ferità rimarrà aperta per sempre. Mediante l'impronta teatrale (gli interni, la verbosità, i gesti, i piani molto ravvicinati), il regista svedese si diverte a scardinare l'istituzione del matrimonio (il trionfo dell'egoismo, l'angoscia della solitudine) ma al tempo stesso, nella confusione più totale, è consapevole che proprio l'Amore può davvero essere l'unica chiave in grado di liberare l'uomo dalle maledette angustie della vita. Gli incubi rimangono ma il giorno è dietro l'angolo. "Buona notte, amore". (M.D.S.)
Adele H. - Una storia d'amore (François Truffaut, 1975)
La storia di Adele H. è quella di un sentimento non corrisposto, dell'amore che non ha bisogno di guardarsi allo specchio per rifulgere negli occhi e nelle intenzioni dell'amante. E' il tentativo da parte di una donna di riprendersi una relazione finita, e che al rifiuto e alle umiliazioni dell'oggetto del desiderio offre inganno e prostrazione pur di potersi donare. La mise en scène del lato crepuscolare e terragno dell'amore che sa fin dall'inizio di essere destinato al fallimento; ma ostinato, ossessivo, implosivo mostra l'altra faccia della passione, quella disperata ed estrema, impenitente al rifiuto, che ha il volto di Isabelle Adjani a corroborare la parabola discendente della protagonista. Poco importa chi sia Albert Pinson perché si può amare qualcuno sapendo che tutto è spregevole in lui se a muovere è il bisogno di affermazione che si realizza nell'altro. L'amore incompiuto ottenebra la lucidità di Adele e la follia è il crinale di un epilogo che destina alla solitudine il troppo amore. (F.D.)
Io e Annie (Woody Allen, 1977)
"Io e Annie" non è solo l'archetipo (e la migliore) di tutte le commedie di Woody Allen. È l'essenza della sua arte del contrasto uomo/donna, dell'eterna incapacità di capirsi, dell'anedonia dei rapporti sentimentali. È l'incanto - rinnovato poi nella rapsodia di "Manhattan" - di una "New York dell'anima" opposta titanicamente al resto del mondo. La prospettiva è solo apparentemente individuale. Perché l'inadeguatezza di Alvy è anche il prezzo di un decennio che ha bruciato gli ideali romantici dei 60, inseguendo nuovi miti: il successo, la libertà sessuale, la vita da single, l'emancipazione femminile. La love-story sboccia in una scena da cineteca: i due balbettano una surreale conversazione sul senso dell'estetica, mentre i sottotitoli ne svelano i pensieri reali a sfondo sessuale [continua a leggere... ]
Il volo (Theo Angelopoulos, 1986)
Capolavoro dolente ed elegiaco, il viaggio di sola andata dell'anziano maestro elementare e apicultore Spyros, più che una storia d'amore, è un dramma sul bisogno d'amore, sul silenzio dell'amore. Gli evocativi piani sequenza di Angelopoulos sono popolati da figure fantasmatiche che si muovono nel silenzio cupo e metafisico di una decadente geografia di solitudini. Ogni inquadratura apre, lenta e inesorabile, ferite inguaribili, squarci profondi, rivangando un passato ormai lontano, immergendoci in un presente di desolata afflizione. Eppure l'amore è lì, davanti ai nostri occhi. È nell'ultimo saluto a un amico malato, sulla spiaggia. È nella fissità dello sguardo di Marcello Mastroianni quando, sottovoce, chiede dolcemente alla moglie di fermarsi solo per un istante per permettergli di osservare il suo volto alla luce, prima che lui parta per sempre. È nel lungo bacio rubato a una ragazzina in jeans, davanti a un cinema di periferia deserto e fatiscente, mentre un treno percorre rapido i binari. È nel funesto abbraccio di uno sciame d'api, ultimo e unico residuo affettivo di una esistenza ordinaria e, forse proprio per questo, dolorosa, atroce, inconsolabile. (V.L)
Harry ti presento Sally (Rob Reiner, 1989)
Possono un uomo e una donna essere soltanto amici? Oppure il sesso - l'amore - si mettono sempre di mezzo? Norah Ephron e Rob Reiner si pongono e ci pongono il quesito. Assimilati e digeriti Woody Allen e il cinema classico, si ispirano a loro stessi e a situazioni reali per quello che sarà uno degli spartiacque del genere, e un prototipo delle commedie sentimentali a venire. Consacrano Billy Crystal e incoronano (incastrano) Meg Ryan a reginetta del ruolo. Infilano una serie di situazioni da antologia e danno vita a una delle scene più celebri e divertenti della storia del cinema: il finto orgasmo al ristorante seguito dalla storica battuta "I'll have what she's having". Colonna sonora jazz, ironia ispirata e arguta che segnerà la rotta per l'umorismo degli anni novanta, due protagonisti veri e pulsanti, lo sfondo di New York, la grande corsa finale e la dichiarazione accorata di Harry in un capodanno irresistibilmente romantico. Commedia imprescindibile, dal ritmo perfetto e dai dialoghi brillanti. (D.D.L.)
Cuore selvaggio (David Lynch, 1990)
Sailor (Nicholas Cage) e Lula (Laura Dern) si amano contro ogni logica. Osteggiati da tutti, a cominciare dalla madre psicopatica di lei che li mette alle costole il perfidissimo Bobby (Willem Defoe), avranno una vittoria dolorosa e carica di cicatrici persistenti e profonde come un tatuaggio. L'amore secondo David Lynch, tra psicopatologie, fughe a rotta di collo che si trasformano in vagabondaggi nel midollo più torbido delle statali americane e episodi di inesorabile amor fou, pestaggi, balli tarantolati, nausee e vomiti, il tutto modellato come un docile fango con atmosfere unte e limacciose, commentate dalle note cariche d'angoscia del fido Angelo Badalamenti e che culminano con "Love me Tender" di Elvis Presley, cantata dal vivo da Sailor con la giacca di pelle di serpente, il simbolo della sua individualità, e gli occhi sugli occhi di Lula. Sono ancora lontani i tempi del "No hay banda!" (P.C.)
Benny & Joon (Jeremiah Chechik, 1993)
E' una commedia attenta alle piccole cose, che recupera l'importanza dei gesti più spontanei per esprimere la complessità dei sentimenti. Un'intensità che la accomuna (oltre alla presenza decisiva di Depp) a "Buon compleanno Mr Grape" (di L. Hallström, uscito lo stesso anno).Dopo la morte dei genitori, Benjamin (Aidan Quinn) tiene la sorella sotto chiave, ma l'ansia per la salute mentale di Joon (Mary Stuart Masterson) è anche il pretesto con cui Benny s'impedisce di cominciare una nuova vita con Ruthie (Julianne Moore). La libertà per Joon è dipingere. Per Benny il poker con gli amici. Una sera Joon gioca al suo posto, perde, e torna a casa con Sam (Johnny Depp), il cugino muto del vincitore. Sam non è muto, ma un mimo cultore di Buster Keaton. Usa il corpo per comunicare, il pensiero creativo per rivoluzionare la visione delle cose. Anche Benny ne sarà conquistato. L'amore di Sam per Joon è una piccola rivoluzione, dolce, che profuma di fiori e pane tostato col ferro da stiro. (L.T.)
M. Butterfly (David Cronenberg, 1993)
"M.Butterfly" è l'amore nella sua dimensione più tragica, lirica e proiettiva. Non è il lieto fine trasognato e trasognante, il suggello di un'unione inscalfibile al tempo, il bacio appassionato del per sempre. Ma nondimeno amore; quello sovraccarico di sentire dionisiaco e cieco al confronto con la realtà. Quello che sfugge al contatto con la testa in sudditanza alla deflagrazione emotiva; che spinge René Gallimard, un diplomatico francese, a subire la menzogna di un amore che vive e muore negli occhi di guarda. "La sua Butterfly" è la materializzazione illusoria e fallace di un desiderio più virile della verità in cui l'(auto) inganno onera il discernimento; il suo sentimento è l'espressione fattuale di quanto il desiderio, matrice sovente svilita dell'attrazione elettiva, sia abbandono lisergico tra le braccia di una Venere bifronte. "M.Butterfly" è il lato perturbante dell'amore: non rassicura e si delimita in coordinate; ma pulsa, vibra, geme fintanto che la verità scopre le carte truccate del gioco cui il protagonista contrappone l'ineffabilità di un gesto e di una brama romantica che induce un uomo ad amare una donna creata da un uomo. (F.D.)
Ricomincio da capo (Harold Ramis, 1993)
Non sarà la più romantica, ma certo è la commedia più sincera mai girata sull'amore. Qualunque cosa sia l'amore (perché duri) ha bisogno di attenzioni e fatica quotidiane. Anche Romeo e Giulietta, fossero sopravvissuti, avrebbero conosciuto tutta la "tragedia" della quotidianità, che regge in piedi anche le passioni più elevate. Intrappolato per contrappasso nella tanto odiata tana della marmotta, Phil (un Murray dal fascino insopportabile) si risveglia sempre lo stesso giorno, senza più un domani ("I got you babe" è un refrain che ci perseguiterà oltre il film). Ricorre ai trucchi più subdoli per sedurre Rita e finisce per innamorarsene. Dopo svariati fallimenti e colpi di scena e numerosi decessi, Phil conosce finalmente se stesso: è un altro uomo, prodigo verso gli altri, senza secondi fini. E quando un uomo cambia, la donna non chiede di meglio: può darsi davvero che Rita s'innamori di lui. (L.T.)
Hong Kong Express (Wong Kar-wai, 1994)
Per Wong ogni film è la riproposizione variata di una stessa lancinante storia d'amore. "Hong Kong Express" che, nell'anno dell'interminato "Ashes of Time", fu il film della consacrazione, offre nei suoi due episodi vagamente collegati la quintessenza del cinema wonghiano. In una Hong Kong caotica e frenetica, l'esistenza di due solitari e malinconici poliziotti (agente 223 e agente 663) è sconvolta dalla perdita dell'amore. Agente 223 non riesce a dimenticare la sua ragazza, finché non viene folgorato da una donna misteriosa (sempre con parrucca bionda e occhiali scuri) che si muove felina per le stradine della metropoli. Nella seconda parte l'agente 663 che va a mangiare nello stesso snack bar del collega, fa innamorare la commessa che lo serve ogni sera. Girato spezzando la continuity, con uno stile che flirta col videoclip ma che sfrutta sagacemente la tecnica dello step-framing per acuire il senso di smarrimento dei protagonisti, "Hong Kong Express" è la sintesi definitiva della New Wave hongkonghese, di cui Wong è stato l'ultimo geniale figlio. Indimenticabili i monologhi sul tempo e sul tempo dell'amore (un topos wonghiano) di Takeshi Kaneshiro e Tony Leung che coccola gli oggetti di casa, abbandonati dalla sua donna. Ma il vero colpo di fulmine è l'apparizione acqua e sapone di Faye Wong, vera musa del film, che entra di nascosto in casa dell'agente: un angelo del focolare silenzioso che canta e sogna insieme a noi al tempo dei The Mamas & the Papas, la cui "California Dreamin'" si ripete ossessiva in un loop senza fine. (G.G.)
Prima dell'alba (Richard Linklater, 1995)
Nel 1995, dagli scantinati del cinema indipendente della provincia americana, il genio di Richard Linklater si impose all'attenzione generale grazie alla storia d'amore, tutta in una notte, dei due scarmigliati giovani, Ethan Hawke e Julie Delpy, scesi da un treno per conoscersi meglio in una Vienna sognante. Il cinema "del momento" del cineasta statunitense toccò le corde più intime della sua filmografia andando a dimostrare come il sentimento più profondo possa emozionare anche senza i connotati del melodramma o dell'epica. Linklater mette in scena il suo personale teorema sull'amore applicato al cinema: nessun artificio, nessun colpo di teatro. Solo una virtuosa messa in scena realista, attraverso cui due giovani qualsiasi evidenziano le loro affinità e le loro divergenze culturali. E la carrellata finale dei luoghi vuoti al levarsi dell'alba, dove i due sono stati durante la notte precedente, ha il sapore di un suggello finale a un sogno impossibile eppure così perfetto per chiunque ci si voglia immedesimare. (G.U.)
In The Mood for Love (Wong Kar-wai, 2000)
Sembra quasi di viverlo in prima persona il ricordo "sfocato e indistinto" della bellissima Li-Zhen. "In The Mood For Love" (ovvero "nello stato d'animo per amare") è la semplice/complicata storia sentimentale tra Chow (Tony Leung, Coppa Volpi al Festival di Venezia nel 2000 e migliore interpretazione maschile a Cannes, sempre nel 2000) e Li-Zhen (la leggiadra Maggie Cheung) entrambi uniti dalla sofferenza dell'abbandono e dell'amore impossibile. Eleganza e stile sono le chiavi per accedere al mondo creato da Wong Kar-Wai, un capolavoro di emozioni implose negli animi dei due protagonisti. Eleganza negli oggetti, eleganza nei dettagli, eleganza come poetica. Ogni dettaglio tende ad uno sguardo molto più profondo di quello che all'apparenza racconta: gli specchi in cui spesso si riflettono gli attori, le scarpe, il fumo delle sigarette, gli abiti. Sono proprio i raffinati e colorati cheongsam indossati da Li-Zhen ad interrompere la grigia e monotona quotidianità vissuta tra stanze, corridoi e ambienti di lavoro [continua a leggere... ]
Il favoloso mondo di Amèlie (Jean-Pierre Jeunet, 2001)
Il mondo dei sogni di Amèlie (inizialmente il suo unico universo) è composto da una sterminata quantità di strumenti e rimandi. Impossendosi delle chiavi della sua eroina, Jeunet mette sul campo uno smisurato armamentario, un ininterrotto bric à brac che raccoglie un secolo di cinema (e dintorni), nonché una scatoletta che sintetizza le molte anime della Parigi di ieri e di oggi: cinefilia ma anche derive fotografiche, videoclip e animazione. Da Prèvert alle nuove tecnologie: adoperando tecniche innovative abbraccia un domani che non può fare a meno dei giorni passati, di una nostalgia che deve rimeditare sé per proseguire il proprio cammino. Un bozzetto dipinto da Renoir o una cartolina mandata da Tati per rivelare la pochezza dell'anima contemporanea. Un grigiore che Amèlie (checchè se ne dica Audrey Tautou resta insostituibile e memorabile) dipinge con irresistibili colori pastello. La sua realizzazione amorosa è l'adornazione del dono romantico che ci ha offerto e che almeno una parte di romantici cinefili continua gelosamente a custodire. (D.C.)
Ubriaco d'amore (Paul Thomas Anderson, 2002)
Barry (Adam Sandler) è un esperto di marketing che alterna momenti di genio (come guadagnare miglia aeree comprando delle confezioni di budino) a improvvisi e violentissimi scatti d'ira. Vive in completa solitudine e si attacca a una hot-line per avere un contatto "umano". Quando conosce Lena (Emily Watson) la sua vita può finalmente prendere un'altra piega ma prima deve fare i conti con il suo passato, la famiglia, e col suo presente, il trucidissimo Dean (P. Seymour Hofmann), un materassaio che prima lo taglieggia e poi lo ricatta. Il film vuole rispondere alla domanda: "Quanto può essere grande il cuore di un uomo?". Annichilito dalle sette sorelle che di fatto lo trattano come un vitello castrato, Barry è convinto che non c'è posto nella sua vita per un'ottava donna e quando sembra arrivato il momento saranno proprio le miserie accumulate in una vita intera, a cominciare dai budini, a indicargli la strada dell'amore (P.C.)
Before Sunset - Prima del tramonto (Richard Linklater, 2004)
Nove anni dopo, il trio Linklater-Hawke-Delpy si riunisce. E scrive insieme la sceneggiatura del secondo capitolo della loro irripetibile storia d'amore fatta di schegge estratte dall'album di una vita. Colti in un incontro casuale nella Parigi di lei, i due vivono insieme un lasso temporale lungo esattamente quanto il film: meno di un'ora e mezzo. Non c'è un prima e non c'è un dopo, il cinema del regista texano è ancora questo: la messa in scena della poetica dell'istante da cogliere, il cinema come strumento attraverso cui fotografare un evento significativo in sé. Non c'è contestualizzazione logica che tenga, ciò che conta è il tempo che lo schermo concede a protagonisti e spettatori, ancora una volta uniti nel seguire un incontro fatti di piani sequenza lungo la Senna e dialoghi sospesi fra l'onirico e il superfluo. Perché, ci ricorda Linklater una seconda volta, l'amore è emozione pura anche se viene spogliato degli accorgimenti drammatici ed enfatici cui Hollywood ci ha sempre abituati. La Hollywood dell'era pre-Linklater, ovviamente. (G.U.)
La sposa turca (Fatih Akin, 2004)
Sentimenti di rara intensità, sangue, un amore ostacolato da tradizioni collettive e drammi personali, le difficoltà dell'immigrazione islamica in Europa (e nello specifico dei turchi in Germania), le cose che cambiano con l'età e con il ritorno in patria: gli ingredienti ci sono tutti, e infatti parliamo di uno dei migliori melò dell'ultimo decennio. Indimenticabili i due protagonisti Birol Ünel e Sibel Kekilli (un passato da pornostar che le creò problemi con la famiglia anche nella vita reale), volti e corpi segnati al contempo da vitalità e sofferenza endemiche; l'infuocata, balzellante regia del giovane Fatih Akin, forse alla sua prova migliore dopo i balbettanti esordi e prima di opere successive non sempre all'altezza del potenziale talento. Memorabili anche i personaggi di contorno; brechtianamente stranianti gli stacchi musicali sulle suggestive rive del Bosforo. La Berlinale approvò: l'Orso d'oro 2004 non sfigura affatto tra i grandi film vincitori del prestigioso festival. (C.Z.)
Se mi lasci ti cancello (Michel Gondry, 2004)
L'incontro tra l'estetica di Gondry che ha sempre flirtato con non-luoghi mentali e mondi di cartapesta e la cervellotica sceneggiatura di Charlie Kaufman produce uno dei capisaldi del romanticismo del nuovo millennio. "Eternal Sunshine of the Spotless Mind" ci pone di fronte a un quesito esistenziale di notevole portata: è naturale rimuovere dalla memoria l'amore della nostra vita, se questo ci fa troppo male? È quello che fa il grigio Joel (un Jim Carrey da Oscar) dopo essersi lasciato con Clementine (una variopinta, capricciosa, meravigliosa Kate Winslet): durante il processo di cancellazione dei ricordi, però, una parte di Joel si ribella. Il ricordo va trasposto, nascosto, preservato dall'eliminazione: l'esperienza per quanto dolorosa deve vivere insieme a noi. In una messa in scena in cui Gondry gioca con semplici trucchi meliesiani, andando letteralmente a ritroso nella loro storia d'amore, ne scopriamo i dettagli e la conosciamo, la riviviamo cosicché non si possa dimenticare. Gondry lavora su più piani temporali, compiendo continui cambi di direzione, in avanti, indietro, penetrando la mente di Joel e mostrandoci cosa accade all'esterno. Infine, condanna i due fuggitivi all'ineluttabile circolarità, a ricominciare daccapo questo rimpiattino disperatamente nostalgico. (G.G.)
Sballati d'amore (Nigel Cole, 2005)
Incontrarsi e poi lasciarsi. Il film di Nigel Cole è tutto qui, costruito sull'eterno ritorno che porta due "amanti per caso" a rinnovare il loro amore attraverso rendez vous spalmati nel tempo. Un solo giorno, una sola notte nell'arco di sette anni. Ad aiutarli ogni volta è il caso, meraviglioso nel combinare le cose ma anche beffardo nel riportarle al punto di prima. Quando si conoscono, sull'aereo che li sta riportando a Los Angeles, Oliver (Ashton Kutcher) ed Emily (Amanda Peet) sono giovani ed idealisti. Ad aspettarli la speranza di una vita di sogni da realizzare, e l'attrazione di un istante che non li lascerà più. Diretto da un regista inglese, Nigel Cole (L'erba di Grace, 2000), alla sua prima esperienza americana, "Sballati d'amore" è un film che si apprezza con il passare dei minuti, e potendo fare a meno dei pregiudizi nei confronti di un contenitore che mischia senza sorprese giovanilismo e scorpacciate di buon senso. A renderlo credibile ed emotivamente coinvolgente la capacità degli attori di trasformare lo spettatore nell'arbitro di quell'amore. Ci si trova a soppesare i pro ed i contro per poi ritrovarsi a fare il tifo per l'agognato lieto fine. (C.C.)
Dieci inverni (Valerio Mieli, 2009)
L'amore NON è una cosa semplice. Alla determinata studentessa di letteratura russa Camilla e al coetaneo Silvestro ci vorranno ben dieci anni per accettare il sentimento che provano l'una per l'altro. Nel mentre, capitano tante cose, i due hanno altre relazioni, compiono diversi viaggi, si avvicinano, si allontano. A volte sfiorandosi appena. L'esordio di Valerio Mieli è uno dei più solidi del cinema italiano degli ultimi anni. Nonché il più incompreso. Per narrare la storia di questo amour fou che sembra non trovar mai la forza per sbocciare, Mieli si concentra solo sull'arco temporale del titolo, lasciando immaginare allo spettatore ciò che può essere accaduto nei mesi precedenti. Aiutato da due protagonisti superlativi (Isabella Ragonese e Michele Riondino) che sanno comunicare con un sguardo ciò che mille parole non possono fare, Mieli mette in scena un Amore fuori dal tempo e dallo spazio, in cui una Venezia avvolta nelle nebbie, come una Mosca asserragliata dal gelo, paiono metaforizzare la stasi in cui gravitano i rapporti personali contemporanei. Cinema appassionato e appassionante, a cui è difficile trovare dei nei. Forse solo la comparsata "alimentare" di Vinicio Caposella. (A.P.)