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"L'ombra della luce" è il nome di un'iniziativa senza precedenti in corso a Sassari, dove nel corso di tre anni verranno proiettati 99 film fondamentali della storia del Cinema mondiale. A margine del progetto abbiamo sentito il direttore artistico, il regista Antonello Grimaldi

Il sassarese Antonello Grimaldi, regista, sceneggiatore, attore e docente, è il direttore artistico di un’iniziativa senza precedenti in programmazione presso il cinema Cityplex Moderno di Sassari, denominata "L’ombra della luce", che prevede la proiezione di ben 99 film che hanno fatto la storia del cinema, partendo dal muto e approdando ai nostri giorni. La programmazione, iniziata lo scorso gennaio, e che avrà la durata di ben tre anni, consta anche di una breve contestualizzazione introduttiva a precedere ciascun film e di un dibattito al termine dello stesso. Tra le pellicole previste nel primo anno spiccano "Intolerance" (1916), di David W. Griffith, e di cui è visibile un fotogramma sul titolo della nostra intervista, "Cabiria" (1914), di Giovanni Pastrone, "Greed" (1924), di Eric von Stroheim, "La madre" (1926), di Vsevolod Pudovkin, e "Un chien Andalou" (1930), di Luis Buñuel. Prima di farci spiegare più nel dettaglio i motivi ispiratori, gli scopi dell’iniziativa e i criteri di selezione dei film prescelti, abbiamo chiacchierato col regista a proposito di Martin Scorsese, di streaming, del cinema italiano, di Nanni Moretti, da lui diretto in "Caos calmo" (2008), oltre che di serialità, visto che è ormai da diversi anni che Grimaldi se ne occupa in modo continuativo. Tra serie e miniserie TV, il regista ha infatti al suo attivo ben 8 realizzazioni, da "Distretto di polizia" (2000-2007) fino a "La dottoressa Giò" (2019).

OC: Com'è cambiata la serialità prodotta in Italia negli ultimi vent'anni? 

AG: Sì, è cambiata molto, perché prima c'erano gli sceneggiati. C'erano quelle produzioni che erano quasi teatro filmato. Non solo teatro filmato, però. Negli ultimi anni, invece, ma forse anche meno di 20, si è cominciato a capire che in fondo il linguaggio è lo stesso del cinema, per cui si è messa molta più cura. Poi molti registi che facevano solo cinema sono passati a fare anche televisione e di conseguenza il livello di qualità è immediatamente salito. Naturalmente, tutto questo è successo prima in America e poi pian piano è arrivato anche in Italia, tanto che adesso in Italia, e pure di più in America, le cose più interessanti sono le serie televisive; ancora più dei film, perché alla fine tra i film che escono al cinema, ad avere più successo sono quelli pieni di effetti speciali che è giusto vedere su grandi schermi, mentre se vuoi raccontare una storia anche minima, se vuoi scavare più a fondo nei personaggi è sicuramente meglio una serie TV: c’è più tempo per raccontare le cose. L'unica differenza vera nel realizzarle, invece, è che hai meno tempo. Diciamo che adesso sta cambiando anche quello, però fino a 3, 4 anni fa, mentre in Italia per fare un film giravi 3 minuti di montato al giorno, per una serie televisiva ne dovevi girare 8, 9, a volte anche 10, e quindi dovevi capire da prima le scene più importanti a cui dedicare più tempo. 

OC: Per la produzione seriale si sente più debitore della letteratura gialla Europea, quella franco-belga, come ad esempio Maigret, o Poirot, oppure della serialità d’oltreoceano? 

AG: Ma guarda alla fine in realtà di tutte e due perché c'è un po' di ciascuna; probabilmente è un po' il solito discorso anche per il film. La struttura è sicuramente quella americana. Anche perché quella più semplice è anche quella che arriva meglio al pubblico, però poi i temi probabilmente nella maggior parte dei casi sono più europei, perché poi gli Stati Uniti hanno tutto un altro immaginario; per cui se tu fai una cosa in Italia, anche una serie televisiva, ti devi per forza rifare all'Europa, o all'Italia stessa, anche a quegli sceneggiati di cui parlavamo prima, perché comunque il pubblico è abituato a quel linguaggio lì. 

OC: Quali sono i classici del cinema italiano che preferisce, che ritiene più rappresentativi e perchè?

AG: Guarda, di italiano non so, non è che ho dei riferimenti particolari. Ti posso dire che in assoluto i miei tre registi preferiti sono Francois Truffaut, Wim Wenders e Dario Argento. E uno potrebbe giudicarla una strana terna, tuttavia a pensarci non lo è nemmeno tanto: Wenders è quello che preferisco per la scelta e la composizione delle inquadrature, Truffaut per il modo di raccontare le storie e il lavoro sugli attori e Argento per la magia del cinema, i trucchi, gli effetti speciali e così via. Poi i classici sono sempre quelli… Insomma posso dire che preferisco Dino Risi a Mario Monicelli, che all'inizio detestavo abbastanza Michelangelo Antonioni, invece poi col tempo l'ho rivalutato, sempre per il gusto delle inquadrature. Mi piace molto anche Marco Bellocchio. Al di là di questi nomi, comunque, l'Italia è dentro di me, di noi, quindi non c'è un riferimento particolare ed esclusivo.

OC: Nel cinema italiano chi la colpisce di più? Cosa pensa ad esempio di Gabriele Mainetti con l'ultimo "Freaks out"? E poi Sorrentino. Pro o contro? 

AG: Assolutamente pro Paolo Sorrentino. Secondo me è il più bravo di tutti in questo momento, intanto perché è bravo come sceneggiatore, ma questo mi interessa meno. Interessa a me personalmente, lo dico senza presunzione, perchè secondo me è il più bravo. Perché a delle storie belle corpose unisce una scelta di inquadrature fantastica, per cui sono assolutamente un suo estimatore. A me poi piacciono le inquadrature, il linguaggio, quindi per esempio, secondo me è bravissimo uno che molti detestano, e cioè Gabriele Muccino. Lo conosco perchè sono stato sul set dei suoi primi due film, quindi so come lavora. Però secondo me è bravissimo, perchè quel ritmo, quel modo di far recitare gli attori... Voglio dire, se lo fa uno negli Stati Uniti gridano tutti al genio, mentre se accade in Italia tutti lo criticano. Ecco, Gabriele Muccino secondo me è bravissimo, lo è assolutamente molto più, per dire, di Gabriele Mainetti, che mi ha deluso parecchio. Dico così perché nelle inquadrature mi è sembrato lungo. Non mi riferisco alla durata complessiva del film, ma perché Manetti mi sembra ricercare un mezzo per l’autocompiacimento. Insomma mi è sembrato che tutte le inquadrature durassero troppo, come se una bella inquadratura possa essere tirata per le lunghe. Se si fa così, alla fine viene meno il ritmo. Il film presenta anche dei buchi di sceneggiatura, che però adesso non stiamo qua a sottolineare; però, insomma, quello mi ha deluso tanto. Sorrentino mi piace molto più di Garrone. Poi allargando il discorso c’è Nanni Moretti. E Moretti è Moretti. Cosa si può dire? É veramente una storia a parte, perché fa il suo cinema senza copiare e lo fa in quella maniera che nessuno possa copiare da lui, per cui è veramente un autore completamente a parte, nel panorama italiano ma non solo, secondo me. 

OC: Con Nanni Moretti lei ha lavorato, per "Caos calmo", ovviamente. Qual è la miglior dote del regista Trentino quando veste i panni dell’attore.

AG: Sull'attore, di una cosa sono certo: che lui è un attore da primi ciak, e gliel'ho anche ribadito mentre giravamo; gli ripetevo cioè che avremmo fatto 4 o 5 ciak al massimo, non 90 come fa lui. Secondo me, quando gira le scene da attore, per le prime volte è più spontaneo, dopo diventa manieristico anche lui. Tant’è vero che poi in sede di montaggio scelsi quasi sempre i primi ciak. Come regista ha uno stile assolutamente personale, che all'inizio era fatto quasi a sketch, cioè lui concepiva la scena senza molti tagli e che tendeva a svilupparsi pian piano. Si tratta di uno stile che si sta evolvendo, però la struttura rimane quella: la necessità di raccontare qualcosa facendo distrarre il pubblico il meno possibile. 

OC: Cosa pensa della polemica di Martin Scorsese sui film che hanno per protagonisti i supereroi dei fumetti?

AG: Che Scorsese sbaglia. Lo fa raramente, ma questa volta si sbaglia, innanzitutto perché secondo me anche lui da giovane, come me e credo tutti, leggeva i fumetti. Perché non dare la possibilità di vederli sul grande schermo? Si tratta comunque di una cosa che fa bene anche al cinema, per cui secondo me è uno dei pochi sbagli che ha fatto. È stato infatti capofila della campagna per il restauro dei film, come per tante altre cose giustissime, ma questa volta penso si sbagli.

OC: E lo streaming? É stato più un'opportunità durante la pandemia o è un male necessario una volta che la situazione sembra tornata alla normalità?

AG: Sicuramente è stata una fortuna. E per fortuna che c'era, perché la gente comunque non ha smesso di vedere film e serie tv. È altrettanto vero che è un male necessario, anche perchè ormai ognuno di noi a casa ha uno schermo che è grande quanto quelli dei cineclub di una volta, per cui non c'è più così tanta differenza nella visione di un film a casa. Consideriamo anche che poi c'è l'impianto stereo per l’alta definizione. Come dicevo prima, infatti, al cinema si vanno a vedere i film che necessitano di un grande schermo perché ci sono tanti particolari, dopodiché andare al cinema è un'altra cosa ancora. Ed è quello che stiamo cercando di fare con la nostra rassegna: abituare nuovamente la gente ad andare al cinema. In questa rassegna a me sembra fondamentale quello spazio di pochi minuti che dedichiamo al pubblico prima e dopo il film. Si tratta di introduzioni che inquadrano il film nell’epoca che lo ha prodotto: immagina se non facessimo queste prolusioni e le brevi discussioni finali sul linguaggio. Il pubblico verrebbe a vedere solo quel film: non avrebbe senso, perchè alla fine la gente andrebbe via, dimenticando quel che ha visto non appena all’esterno della sala. Così invece si aiuta il pubblico a riflettere, a collocare quel film nella storia del cinema, oltreché a capire che anche quelli di oggi sono inseriti in un flusso ininterrotto iniziato agli albori della settima arte. 

OC: Ce ne puoi parlare più dettagliatamente? Come è nata l’idea della rassegna "L’ombra della luce"? Che criterio è stato seguito nella scelta delle pellicole?

AG: É nata con la constatazione che ci sono scuole che formano attori, registi, direttori di fotografia e così via, mentre il pubblico è un po’ abbandonato a se stesso, e che dunque per far tornare il pubblico al cinema bisogna fargli capire appunto che ciò che vediamo oggi è la propaggine di un meccanismo che funziona ininterrottamente da 125 anni. I criteri di scelta, che costano tanta fatica e tanti sacrifici, sono da un lato un occhio di riguardo per il linguaggio, ragion per cui non si sono scelti tanto i film tra "i più intelligenti o quelli più belli”, ma tra quelli che secondo me hanno contato di più per l'evoluzione del linguaggio; dall'altro è stato selezionato non più di un film a regista, perché a quel punto sarebbero troppi, e quindi se cominci a mettere, che so, Stanley Kubrick, dovresti includerne 4 o 5, per cui ci è voluto il coraggio e il sacrificio di sceglierne uno e di invogliare il pubblico a vedersi gli altri per conto proprio.

 





Antonello Grimaldi direttore artistico di