Dieci film italiani che hanno raccontato in modo diverso la violenza e la corruzione morale del ventennio, più un'appendice internazionale dedicata ad altre due dittature europee
Fascismo reale o immaginario?
Quanti fascismi esistono? Chiunque potrebbe dire che sia esistito un solo fascismo, quello italiano che ha governato il nostro paese dal 1922 al 1943, col colpo di coda della Repubblica di Salò. Ma a pensarci bene - nell'Italia del 2023 - è lecito ritenere che, morto il fascismo storico, dopo circa 80 anni ne sia nato almeno un altro.
Come sanno bene gli storici medievali, le epoche storiche dopo secoli vengono percepite in modo sempre diverso dai contemporanei, per cui ad esempio i mille anni del Medioevo vengono visti in un caso come un'epoca buia di regresso e inciviltà (nel Rinascimento), in un altro caso rivalutati come periodo cavalleresco e di autentico spirito cristiano (nell'Ottocento). Proprio per questo gli storici del medioevo parlano di "medioevo immaginario", concetto che si basa sulla visione fiabesca di un'epoca, smentita dalle fonti storiche, quasi sempre errata e basata su pregiudizi.
Un fenomeno non troppo diverso sembra sia accaduto con il ventennio fascista, dove le fonti storiche ci dicono chiaramente le caratteristiche di quel regime e - nonostante ciò - una fetta abbastanza larga della popolazione italiana ha in mente un fascismo immaginario fatto di ordine, onestà, patriottismo, difesa della patria, un regime portatore di valori complessivamente positivi, addirittura artefice di gran parte degli enti statali su cui si regge la nostra Repubblica (dall'Inps all'Inail, dai sindacati sino addirittura alla sanità pubblica). Ed è inutile dimostrare facilmente con date certe l'inconsistenza di tali tesi, perché siamo appunto di fronte a un'idea immaginaria, che non si sviluppa sulle fonti storiche, bensì sulla fantasia di una minoranza che parteggia per una parte politica come fosse una squadra di calcio.
Il cinema come arte e come testimonianza
In questo ginepraio di opinioni ci si può chiaramente districare con gli innumerevoli saggi disponibili in commercio (in primis gli studi di Renzo De Felice), ma rivolgendosi in particolare ai giovani, più inclini al formato audiovisivo che a quello letterario, anche il cinema ha contribuito a chiarire cosa sia stato davvero il ventennio fascista per la vita reale di milioni di italiani. Tantissimi film hanno descritto il periodo mussoliniano, spesso per mano di registi che hanno vissuto in prima persona questo periodo, potendo offrire così oltre a una visione artistica anche una testimonianza personale. Ogni regista ha contribuito in modo diverso alla costruzione di vari tasselli di verità, chi lo ha fatto con uno stile documentaristico (Florestano Vancini, Carlo Lizzani), chi analizzando aspetti minori della vita del duce (Marco Bellocchio), chi descrivendo nel modo più realistico possibile la vita degli italiani (Ettore Scola, Francesco Rosi), chi sfatando i miti fondativi del fascismo (Dino Risi), chi invece ha descritto la società fascista affabulando lo spettatore con gli occhi d'un bambino (Federico Fellini), chi infine si è dedicato alle tragiche conseguenze delle leggi razziali (Vittorio De Sica) o chi ha fatto dell'ironia trasognata la chiave di quel momento così tragico (Massimo Troisi).
L'elenco di dieci film consigliati non è diviso in base all'anno di pubblicazione (come si fa di solito in questi casi), segue invece la cronologia della storia fascista: dall'inizio, in cui troviamo uno squattrinato Mussolini giornalista, alla conquista del potere sino al tragico crollo, proprio per favorire una continuità storica. A fare da minimo comun denominatore ai dieci film sono la violenza del regime fascista, il livello di corruzione morale, l'egoismo, l'ambizione sfrenata e narcisistica di un uomo capace persino di far morire il proprio figlio oltre a migliaia e migliaia di italiani, senza provare alcun senso di colpa.
Alcune di queste pellicole soffermano il proprio punto di vista sugli accadimenti storici cruciali del ventennio, mentre altri utilizzano il periodo come sfondo di vicende di fantasia o autobiografiche, per le quali la dittatura funge da inevitabile agente corruttivo e nefasto. Il focus di questa breve rassegna è ovviamente la raffigurazione del fascismo da parte di alcuni maestri del cinema italiano, piuttosto che un'analisi tout court delle pellicole prese in esame.
Infine, una breve appendice per ricordare due film dedicati a dittature nate fuori dai confini italiani, ma chiaramente ispirate al fascismo. Tralasciando la Germania - che meriterebbe uno speciale a parte vista l'innumerevole filmografia sul decennio nazista – le due pellicole segnalate trattano la dittatura di Franco in Spagna e quella dei colonnelli in Grecia.
L'inizio: Mussolini giornalista
La lista dei film sul fascismo inizia col più recente, "Vincere" di Marco Bellocchio che - a differenza dei grandi classici che esaminano la storia con S maiuscola - si concentra su un aspetto secondario, familiare di Mussolini, che comunque spiega più di tanti altri eventi la natura crudele e spietata del duce. Si tratta di una storia dai connotati nebbiosi, censurata in ogni modo dal regime fascista, che nell'arco degli anni è emersa prepotentemente. Si tratta della triste vita di Benito Albino Dalser, figlio di Benito Mussolini e di Ida Irene Dalser (egregiamente interpretati da Filippo Timi e Giovanna Mezzogiorno), amante o forse addirittura moglie di un Benito ancora semplice giornalista, che molto presto vedrà nel figlio e nella ex-compagna solo un problema di cui sbarazzarsi. Bellocchio riesce a farci entrare appieno nei pensieri ossessivi e psicotici di Ida Dalser, che nei momenti più bui sogna il matrimonio, forse mai realizzato ma solo immaginato, con Benito Mussolini. Questa sensazione di una via di mezzo tra sogno e realtà, tra delirio psicotico e percezione autentica dell'esistente è resa in ogni singola scena e culmina nel dialogo in cui si sottolinea il ruolo dell'attore, cioè del tipico italiano che recita il ruolo di simpatizzante del regime pur non essendolo, per sopravvivere in attesa dell'inevitabile fine del fascismo. Inevitabilmente, tra i problemi psichiatrici della madre e l'abbandono del padre, a rimetterci sarà il povero Benito Albino, oggi considerato una delle tante vittime del regime fascista.
Altri film consigliati
Il giovane Mussolini (miniserie Tv del 1994 con Antonio Banderas)
La conquista del potere
Dino Risi è il regista che, più di altri, ha analizzato e denunciato gli aspetti più grotteschi della società italiana, mettendo una lente d'ingrandimento sul carattere egoistico che si nasconde dietro falsi ideali, riuscendo a far emergere sia l'aspetto ridicolo sia quello tragico del tipico italiano trasformista e arrivista. "La marcia su Roma" (1962) ha il merito di smitizzare una delle date più celebrate dal fascismo, spacciata come rivoluzione dei patrioti, in realtà mero colpo di stato realizzato tramite l'appoggio di industriali, proprietari terrieri e monarchia. La coppia Gassman-Tognazzi è perfetta nel ruolo di due ex-combattenti senza arte né parte che si iscrivono al partito nazionale fascista senza alcun motivo ideologico, trovando nel fascismo l'unica via d'uscita da quell'esistenza anonima tipica di tanti italiani tornati dalle trincee della Grande guerra. Numerose le scene in cui si sottolinea la violenza fascista, la cruenta guerra civile tra socialisti e fascisti con la vittoria di questi ultimi a forza di omicidi, manganellate e olio di ricino, che si conclude tristemente il 22 ottobre 1922. Risi sottolinea chiaramente come la storia avrebbe avuto tutt'altro esito se il Re avesse difeso la democrazia parlamentare e avesse dato ordine all'esercito di fermare il colpo di stato, cosa che sarebbe accaduta senza alcuna difficoltà. Interessante il ruolo di Tognazzi, che ha il compito di smontare, punto dopo punto, il primo programma fascista, quello socialisteggiante dei sansepolcristi della prima ora, che andava dal suffragio universale alla nascita della repubblica, dalle espropriazioni dei grandi proprietari terrieri sino addirittura alla libertà di stampa, programma tradito in toto ben prima della conquista del potere.
Il delitto Matteotti, uno dei crimini più odiosi del regime fascista, è stato il culmine di anni di violenze, un finale inevitabile di una politica ancora al confine tra le vestigia della morente democrazia parlamentare e l'inizio palese di una dittatura. Il regista Florestano Vancini ha avuto il merito storico di rappresentare al meglio alcune delle pagine buie della storia d'Italia con film come "La lunga notte del '43" e soprattutto aprendo uno squarcio su uno degli episodi meno noti della storia del Risorgimento italiano con "Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato". "Il delitto Matteotti" ha il merito di ricostruire con precisione i fatti e le premesse che portarono all'omicidio del 10 giugno 1924, partendo dallo storico discorso di Matteotti alla Camera del 30 Maggio e raccontando quindi le reazioni dei deputati fascisti e della banda di criminali capeggiati da Amerigo Dumini, la scomparsa del deputato socialista e le successive indagini sino alla scoperta del cadavere e all'inevitabile fine, ovvero il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 che rimuoverà ogni ambiguità, rendendo esplicite la fine della democrazia italiana e la nascita ufficiale della dittatura. Tipico film degli anni 70 dal piglio documentaristico, "Il delitto Matteotti" rappresenta uno dei vertici di questo tipo di cinema, pieno di riferimenti storiografici descritti dettagliatamente, dai discorsi parlamentari integrali alle indagini ricostruite in modo accuratissimo, sino alla radiografia spietata di una classe politica incapace di reagire alla violenza fascista, malgrado si trattasse di una generazione di grandi politici, da Gramsci a Turati, da Gobetti a De Gasperi. Superbe le recitazioni di Franco Nero nel ruolo di Giaconi Matteotti, Vittorio De Sica nel ruolo del pubblico ministero e di Mario Adorf, trasformatosi in un Mussolini estremamente credibile.
Altri film consigliati
Novecento di Bernardo Bertolucci (1976)
La vita durante il fascismo
"L'uomo deve essere marito, padre e soldato", è scritto sull'album fotografico dedicato al duce che Antonietta (Sophia Loren), protagonista della pellicola di Ettore Scola del 1977, custodisce gelosamente in casa. Non è nessuno dei tre Gabriele (Marcello Mastroianni), licenziato dalla radio di stato e condannato all'esilio in Sardegna a causa della sua omosessualità. Pur vivendo entrambi negli enormi spazi di Palazzo Federici a Roma, i due si conoscono per l'appunto in "Una giornata particolare", quella della storica seconda visita a Roma da parte di Adolf Hitler (6 maggio 1938), nonché quella che Gabriele aveva scelto per il suo suicidio. L'incontro tra i due, che avviene in seguito alla richiesta di aiuto di Antonietta per catturare il passero domestico in fuga, distoglierà Gabriele dai suoi intenti e darà vita a un confronto drammatico e passionale tra due visioni contrastanti. La vita di entrambi - consapevolmente nel caso di Gabriele e inconsapevolmente in quello di Antonietta, condannata dal marito fascista a sfornare figli per ricevere il premio per le famiglie numerose - è segnata e castrata dal regime. La brutale condanna della dittatura da parte di Scola si manifesta con poesia e realismo, attraverso la messa in scena di una giornata di libertà, possibile soltanto lontano dall'euforia mortifera della parata nazi-fascista che svuota temporaneamente il complesso residenziale di Gabriele e Antonietta. In questo spazio di libertà creato dal regista appare chiaro come tutti siano vittime dell'ideologia fascista. Le donne, trattate come semplici involucri per partorire nuovi figli, sono le vittime principali, così come gli omosessuali e le minoranze in genere, perseguitate in ogni modo con la violenza fisica e il confino. Ma in fin dei conti anche gli uomini apparentemente integrati sono vittime inconsapevoli, in quanto manipolati da una propaganda che li condanna a una vita gretta, priva di qualsiasi momento di autentica felicità, utilizzati come piccoli tasselli di masse anonime pronte ad applaudire il tiranno di turno e, in ultima analisi, prossima carne da cannone per deliranti sogni di volontà di potenza.
Se non il capolavoro di Federico Fellini, perché al cospetto di uno dei registi più importanti della storia del cinema giudizi del genere lasciano il tempo che trovano, è certamente tra i film più importanti del genio riminese, nonché quello più legato al tanto plagiato "onirismo felliniano".
Co-sceneggiato dallo stesso regista e dal poeta Tonino Guerra, "Amarcord" è un film basato sui ricordi di un'infanzia e un'adolescenza (in parte dello stesso Fellini) trascorse nella Rimini degli anni 30, inevitabilmente segnata dal fascismo. Sebbene non sia un film politico e/o militante, "Amarcord" è senza ombra di dubbio però la pellicola di Fellini con la più forte presenza politica. Il ventennio fa da inevitabile e ingombrante sfondo alle vicende della stralunata comunità riminese raffigurata in sequenze rimaste memorabili. Come in un sogno, Fellini sospende però ogni sorta di giudizio diretto sul ventennio e, più efficacemente di numerose opere più esplicite, riesce a immortalare la maniera in cui questo aveva pervaso la società. Insieme al popolo colpito e stupefatto dalla grandeur della propaganda fascista, assistiamo dunque a una parata in cui troneggia un'imperiosa scultura floreale del duce e poi al passaggio dello sfavillante Transatlantico Rex, gigantesca nave nuova di zecca e tempestata di lucine, erta a simbolo di una nazione invincibile. In "Amarcord" il fascismo è però protagonista anche di quella che è probabilmente la scena più violenta del cinema felliniano: l'interrogatorio di Armando Brancia. Insieme al paternalismo fascista e all'oppressione dei dissidenti, nella drammatica e angosciante scena fa capolino quell'olio di ricino tristemente caro al regime.
Nonostante la conquista di un "Nastro d'argento" per la sceneggiatura, "Le vie del signore sono finite" non è proprio uno dei primi film di Massimo Troisi, al solito sia regista che attore principale, a venire in mente. Eppure la pellicola del 1987 è certamente una delle più belle e riuscite del cineasta e attore di San Giorgio a Cremano, che con la sua consueta ironia e con un pizzico di malinconia riesce a far sorridere di un contesto drammatico come l'Italia della dittatura fascista. "Per fare arrivare i treni in orario però, se vogliamo, mica c'era bisogno di farlo capo del governo, bastava farlo capostazione". A un certo punto del film, il malato immaginario Camillo (Troisi) rivolge questa battuta a una ragazza infatuata del duce e intenta a decantare la precisione e la disciplina raggiunte dall'Italia sotto l'influenza fascista, a partire ovviamente dai proverbiali orari dei treni. La formidabile battuta costa al povero Camillo ben 2 anni di prigione e, allo stesso tempo, pungola proprio i moderni propugnatori del succitato fascismo immaginario, fatto di grandi opere e infrastrutture impeccabili. "Le vie del signore sono finite" non si limita però a ritrarre soltanto l'Italia del fascismo, tira invece in ballo tante altre tematiche dell'epoca, come ad esempio la psicanalisi, anch'essa al centro di gustose gag senza tempo.
È opinione diffusa che sia proprio con questo suo film tratto dal libro di Alberto Moravia che il controverso Bernardo Bertolucci abbia raggiunto la sua maturità artistica. Soltanto due anni dopo sarebbe infatti arrivato il capolavoro "Ultimo tango a Parigi", mentre nel 1976 sarebbe stata la volta del titanico "Novecento", anch'esso legato a doppio filo con la tematica fascista. Così come il libro da cui è tratto, "Il conformista" ci porta nel cuore delle dinamiche repressive del fascismo, facendoci seguire Marcello Clerici (Jean-Louis Trintignant), insegnante di filosofia e agente dell'OVRA (la polizia politica del fascismo attiva dal 1927 al 1943), nelle sue cospirazioni e missioni in compagnia dell'agente speciale Manganiello (Gastone Moschin). L'uomo al quale l'interpretazione di Trintignant dona straordinario spessore è però una figura estremamente tormentata, a causa di una fanciullezza vissuta tra stenti e violenze familiari, oltre che degli abusi sessuali subiti da ragazzino. Sono proprio questi fantasmi a generare le ossessioni di Marcello e la conseguente necessità di conformarsi al regime. Il film si chiude proprio al momento della caduta del fascismo con un tragico finale in cui le ragioni del comportamento del Clerici vengono sconfessate e condannate insieme alle brutalità del fascismo. Straordinario anche il personaggio di Giulia (Stefania Sandrelli), la ragazza promessa in sposa a Marcello, che però con la sua positività fa da costante contraltare al grigiore del conformismo del protagonista.
Altri film consigliati
Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi (1976)
Il prefetto di ferro di Pasquale Squitieri (1977)
Il leone del deserto di Mustafa Akkad (1980)
Fontamara di Carlo Lizzani (1980)
Le leggi razziali
Inizialmente coinvolto da Vittorio De Sica in questo sontuoso adattamento del suo omonimo capolavoro letterario come co-sceneggiatore, Giorgio Bassani abbandonò presto la barca a causa di forti divergenze e liti con il regista, intenzionato a prendersi diverse licenze rispetto al testo originale dello scrittore. Bassani non figura dunque nei titoli di coda della pellicola vincitrice dell'Oscar al miglior film in lingua straniera del 1970. Pur differendo dal romanzo in alcune sfaccettature relative alle relazioni amorose tra i protagonisti, "Il giardino dei Finzi Contini" di De Sica riesce a catturare sia la delicatezza dell'aspetto di formazione del romanzo - anche grazie alla spontaneità degli attori protagonisti - sia l'incredulità dell'alta borghesia ebrea italiana di fronte alle leggi razziali promulgate dal governo di Mussolini. I giardini della ricca famiglia ferrarese ricreati a Villa Ada (Roma) dal regista laziale sono una fragile bolla destinata a scoppiare sotto i colpi delle terrificanti leggi razziali del regime fascista, un limbo dove si gioca a tennis e ci si innamora isolandosi temporaneamente dalla tragedia che incombe. Il risultato è certamente da annoverarsi tra le migliori pellicole del tardo De Sica, probabilmente non all'altezza dei capolavori realizzati dal regista tra gli anni 50 e 60, ma di sicuro un gran colpo di coda.
Altri film consigliati
L'oro di Roma di Carlo Lizzani (1961)
L'occupazione nazista e la fine del regime
Primo film della trilogia di Rossellini sulla guerra insieme a "Paisà" e "Germania anno zero", "Roma città aperta" fu girato a Roma nel 1945, praticamente in concomitanza con gli eventi storici raccontati. Manifesto del cinema neorealista, il capolavoro di Rossellini ne incarna appieno tutte le caratteristiche principali, in particolare quella del realismo assoluto delle immagini tale da ridurre al minimo il ruolo del regista, che diventa mero osservatore della realtà, riprodotta per quello che è, senza interventi esterni, quasi sul modello della letteratura naturalista francese. Rossellini compie quindi una rivoluzione copernicana rispetto al cinema fascista di pochi mesi prima, che faceva esattamente l'opposto: manipolare la realtà ai propri fini per motivi propagandistici. Con le interpretazioni memorabili di Anna Magnani e Aldo Fabrizi e una delle scene più indimenticabili del cinema italiano, Rossellini coglie in pieno la realtà profonda della violenza nazifascista descrivendo con assoluta coerenza la vita degli italiani in quegli anni bui.
Ex-partigiano, Carlo Lizzani ha raccontato in più di un'occasione la storia degli ultimi anni del fascismo con grande precisione storica e passione politica. Formatosi nel cinema neorealista, Lizzani fa suo uno stile crudo e conciso, tipico della cronaca o del documentario, che seguirà con passione, raccontando episodi della resistenza, l'agonia del fascismo e le nefandezze dei tedeschi negli anni dell'occupazione ("Achtung! Banditi!", "L'oro di Roma", "Cronache di poveri amanti") per rinnovarsi negli anni e realizzare quello che viene riconosciuto come il capostipite del cinema poliziottesco italiano che impazzerà negli anni 70 ("Banditi a Milano"). "Mussolini ultimo atto" è il secondo film di Lizzani sulla fine del regime mussoliniano dopo "Il processo di Verona" (1963) dedicato ai tragici ultimi giorni di vita di Galeazzo Ciano. Con uno stile simile ai film di Florestano Vancini e un cast internazionale di prima grandezza (Rod Steiger, Franco Nero e persino Henry Fonda), Lizzani racconta ora per ora gli ultimi giorni di vita del duce, utilizzando la tecnica del flashback che sottolinea la differenza tra la tragica realtà e i sogni di potenza ormai miseramente svaniti. Si evidenzia quindi il lato più meschino del duce, in cerca di attenuanti e di capri espiatori e incapace di riconoscere le proprie responsabilità. Lizzani realizza un grande affresco della resistenza, del Comitato di liberazione nazionale e, con un senso di umanità, risparmia le immagini di ciò che avvenne in Piazza Loreto.
Altri film consigliati
La ciociara di Vittorio De Sica (1960)
La lunga notte del '43 di Florestano Vancini (1960)
Il processo di Verona di Carlo Lizzani (1963)
Appendice. Il fascismo fuori dall'Italia
Tra i principali registi politici degli ultimi decenni, Ken Loach ha utilizzato la settima arte come strumento di lotta per la difesa della classe operaia, fondamentalmente scomparsa dalle tv e dai cinema degli ultimi decenni. Dopo una lunga serie di film incentrati sulla lotta di classe, sulle conseguenze e le disuguaglianze causate del thatcherismo in Inghilterra, Loach inizia a occuparsi di temi storici, dapprima con "Terra e libertà", dedicato alla guerra civile spagnola, e successivamente con "La canzone di Carla", sul conflitto imperialista in Nicaragua finanziato dagli Stati Uniti per contrastare il legittimo governo sandinista. Seppur altamente ideologico, "Terra e libertà" rende partecipe lo spettatore del desiderio profondo di libertà della sfortunata generazione che ha vissuto nei decenni dei grandi sistemi totalitari. I protagonisti principali sono i partecipanti alla resistenza antifranchista, fatta in gran parte da volontari provenienti da ogni parte del mondo, uomini coraggiosi, capaci di perdere tutto per un sogno infranto di libertà e uguaglianza, autentici eroi sconfitti dalla storia ma allo stesso tempo vincitori in quanto schierati dalla parte della libertà. Film crudo e realistico, "Terra e libertà" è probabilmente uno dei principali strumenti per comprendere le ragioni della guerra civile spagnola e capire come le due idee in conflitto, libertà e oppressione, superassero di gran lunga i confini nazionali di un singolo paese.
Uno dei massimi capolavori del cinema greco, vincitore del premio Oscar come miglior film straniero nel 1970 e del Festival di Cannes nel 1969, "Z, l'orgia del potere" di Costa-Gavras racconta dell'omicidio di Grigoris Lambrakis, politico all'opposizione della dittatura fascista dei colonnelli greci. Con un ritmo rapido e compulsivo, quasi da thriller, e la colonna sonora magnifica di Mikīs Theodōrakīs, "Z" si presenta come un classico film che spiega passo dopo passo le indagini che portano alla scoperta di un omicidio politico, in modo parzialmente simile a come fece Vancini con l'omicidio Matteotti. Il legame con la realtà è il pilastro assoluto del film e Costa-Gavras lo sottolinea nei titoli di testa: "Ogni somiglianza con avvenimenti reali, persone morte o vive non è casuale. È volontaria". A metà tra film d'autore e film d'azione, "Z" rappresenta un caso unico - forse irripetibile - di film di denuncia girato in modo innovativo, dove la differenza tra il bene e il male è netta e l'attenzione al dettaglio della ricostruzione storica è massima. Da sottolineare inoltre l'interpretazione straordinaria di Irene Papas, venuta a mancare pochi mesi fa.