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Il Natale nero di Clark: l'opera scabrosa e dissacrante che gettò le basi del filone nordamericano del sottogenere horror a cui faranno capo i vari "Halloween", "Venerdì 13", "Nightmare" e "Scream"

Il primo film slasher? Il primo anglosassone sicuramente, canadese per la precisione. "Black Christmas (Natale rosso sangue)", diretto da Bob Clark (lo stesso regista dei primi due capitoli della saga "Porky’s"), è il capostipite del filone nordamericano del sottogenere dell’horror a cui faranno capo i vari "Halloween", "Venerdì 13", "Nightmare" e "Scream". Un’opera scabrosa, orripilante e perdipiù dissacrante verso la festività cristiana per eccellenza quando lo sfregio antireligioso faceva ancora un minimo di effetto. Sono tantissimi gli elementi che lo classificano come slasher e saranno tutti ripresi dai vari registi che si cimenteranno col genere, a partire da John Carpenter e Wes Craven, alcuni in modo manifesto, altri accennato. Nondimeno, lo stesso Clark guardò ai padri putativi della categoria. Uno su tutti: il nostro Mario Bava.

Ispirato a una leggenda popolare nata negli anni 60 riguardante una baby-sitter che riceveva strane telefonate in cui qualcuno dall’altro capo del filo le consigliava di stare attenta ai bambini, ma anche a una precedente serie di omicidi avvenuta nel pieno delle festività natalizie in un quartiere periferico di Montreal, il film narra le gesta di un maniaco che una sera durante le Feste si introduce in un convitto per ragazze mentre queste stanno celebrando il Natale, si stabilisce nell’attico e in seguito inizia a fare mattanza delle giovani ospiti, prima minacciandole al telefono (chiamando ovviamente da un’altra linea) e poi passando ai fatti. Uccisioni in serie, ora a mezzo soffocamento, ora a mezzo infilzamento con oggetti contundenti scagliati alla cieca contro la povera vittima di turno. Dice: sai che novità. Ma nel 1974 non era mica all’ordine del giorno una roba del genere.


Il film uscì a ottobre e il cast comprendeva, tra gli altri, Olivia Hussey, la Giulietta di "Romeo e Giuletta" di Franco Zeffirelli (1968), Margot Kidder, colei che darà il volto cinematografico all’avvenente giornalista Lois Lane della saga "Superman" con Christopher Reeve, e il grande John Saxon, uno il cui nome e l’inconfondibile profilo si ritrovano spesso in varie produzioni gialle/thriller/horror anche italiane, nei panni del tenente Ken Fuller.
Il successo al botteghino fu notevole in patria, un po’ meno in America e nel resto del mondo, anche se comunque l’incasso complessivo della pellicola ripagò ampiamente la produzione dei soldi spesi per realizzarla. Girata a Toronto durante l’inverno 1973/74, costò 620mila dollari e diventò il terzo più grande incasso in Canada con 2 milioni di dollari guadagnati. Negli Stati Uniti invece, dove uscì a ridosso del Natale, non ebbe la stessa fortuna. Lì inizialmente gli cambiarono anche il titolo in "Silent Night, Evil Night" per non turbare il clima gioioso della settimana natalizia, e forse per questa ragione, della sua uscita si accorsero in pochi.
La Warner Bros., titolare della distribuzione per gli States, ci riprovò allora in concomitanza con la festa di Halloween del 1975, stavolta restituendo al film la denominazione originale e approntandogli una presenza più capillare nelle sale di New York, Chicago e Los Angeles. Tale secondo tentativo fu più incoraggiante tanto da indurre la stessa Warner ad allargare il numero delle proiezioni fino a 70 cinema in tutto il paese. Ma con una media giornaliera di 700 dollari per sala d’incasso non ci si fa molto, per cui il film venne tolto dalla circolazione nel giro di un mese e stavolta non arrivò neppure a Natale. In ogni caso, come detto, a livello mondiale le cose non andarono malissimo e i 4 milioni di dollari incassati equivalsero grosso modo a sei, sette volte il budget messo a disposizione per la lavorazione. Dopodiché iniziò la trafila dei passaggi televisivi, il primo dei quali – sotto il titolo "Stranger In The House" – nel 1978.
Per una macabra coincidenza, due settimane prima della messa in onda del film, la casa della sorellanza Chi Omega nel campus dell’Università della Florida a Tallahassee fu teatro di un duplice omicidio con vittime due ragazze appartenenti all’organizzazione, uccise nel sonno (e altre due furono ferite). L’assassino, successivamente identificato come Ted Bundy, venne giustiziato nel 1989 anche per altri omicidi. Ragioni di opportunità suggerirono al governatore della Florida di allora di telefonare al presidente della Nbc, emittente titolare dei diritti tv, per chiedere che il film non fosse trasmesso, come effettivamente avvenne.

In ogni caso la pellicola fu riproposta in seguito e per i successivi inserimenti nei palinsesti televisivi non ci furono problemi di censura. Tuttavia, "Black Christmas" riscosse favori più che altro tra gli appassionati del genere e solo nel corso degli anni fu rivalutato dalla critica. Alcune tra le principali testate specializzate inizialmente l’avevano bollato come un inutile sfoggio di violenza gratuita, ma poi diversi recensori ne riconobbero l’importanza storica, corroborata, oltre che dalla novellizzazione (processo letterario per cui da una sceneggiatura si trae un romanzo) del 1976 a opera di Lee Hays (simile al film ma con alcune differenze, a partire dall’inserimento di alcuni dialoghi esclusi dalla screenplay originale), da due remake usciti rispettivamente nel 2006 e nel 2019. Non solo. Dieci anni dopo la sua uscita arriverà nelle sale "Silent Night, Deadly Night", film statunitense diretto da Charles Edward Sellier jr., che oltre a riprendere il tema del Natale di sangue avrà come protagonista un assassino vestito da Santa Claus.

L’opera finale fu il risultato di una serie di rimaneggiamenti da parte dello sceneggiatore, A. Roy Moore, il quale inizialmente aveva pensato di ambientare la storia in un’università, ma anche da parte dello stesso Clark, che inserì parecchi elementi umoristici nello script. Ironia da una parte e angoscia dall’altra: quella suscitata anche dalla disturbatissima colonna sonora composta da Carl Zittrer, il quale pensò bene di applicare alle corde del pianoforte, legandoveli, oggetti come forchette, pettini e coltelli al fine di ottenere il suono più straniate e distorto possibile, in perfetta sintonia con la brutalità delle scene.

Dopo "Black Christmas", Clark proseguirà a cimentarsi con l’horror ma con scarsi risultati e allora si dedicherà alla commedia ("Tribute – Serata d’onore" con Jack Lemmon e Kim Cattrall, "Nico lo scatenato" con Sylvester Stallone, "Turk 182" e "Colpo di scena"), sublimata con "Porky’s – Questi pazzi pazzi porcelloni". L’esilarante pellicola ambientata in un college americano degli anni Cinquanta si innesterà sul filone di "Animal House", ma – velatamente - con il piglio nostalgico di un "American Graffiti", e da essa nascerà una trilogia di cui Clark dirigerà anche il primo seguito ("Porky’s II – Il giorno dopo") e scriverà il soggetto per il secondo ("Porky’s III – La rivincita!").


Ma i meriti per aver partorito una delle opere cult degli anni 80 non oscurano quelli per aver portato lo slasher in Nord America e poi da lì in tutto il mondo. Portato, cioè preso da una parte e messo in un’altra. Quindi lo slasher già esisteva. L’abbiamo detto: Clark non ha inventato nulla e a prendere spunto è venuto in Italia, da Bava. Il filone infatti l’abbiamo inventato noi e, come spesso accaduto in fatto di cinema, gli americani ce l’hanno “scippato” facendolo passare per una loro scoperta. Il colpo di genio venne al maestro del gotico nostrano che ispirò non solo cineasti ma perfino musicisti, se si pensa che i Black Sabbath mutuarono il nome dal titolo (americano) di un suo film a episodi ("I tre volti della paura", 1963). Lo spirito di Bava aleggia su tutta la pellicola di Clark, innanzitutto perché fu lui a introdurre la figura dell'uccisore seriale in un film thriller: "La ragazza che sapeva troppo" (1963) diede i natali al giallo all'italiana che avrebbe poi fatto la fortuna dei Dario Argento e Lucio Fulci, raccontando proprio di un assassino che sceglieva le proprie vittime in base all’iniziale del nome seguendo l'alfabeto. Tra l’altro, c’è un filo che lega il film del 1963 ambientato a Roma a "Black Christmas": la presenza del succitato Saxon, che nel film di Bava era uno dei due protagonisti insieme a Letícia Román (e lo ritroveremo pure in "Tenebre" di Argento e in un paio di "Nightmare").


Ma fu soprattutto "Sei donne per l'assassino" (1964) a stabilire il canone del pluriomicida compulsivo. Il protagonista (al netto del finale a sorpresa) era colui che col senno di poi potremmo definire l'antesignano dei vari Michael Myers, Jason Voorhees e Freddy Krueger; ma non era un essere soprannaturale bensì un uomo in carne e ossa. All'inizio degli anni 60, infatti, il cinema “di paura” iniziò a staccarsi dallo schema classico secondo cui bastava sfruttare le gesta dei “mostri” fantasy mutuati dalla letteratura ottocentesca per avere successo al botteghino: Dracula, Frankenstein e l'Uomo Lupo ormai avevano fatto il loro tempo. Protagonisti prima di romanzi, o comunque di antichi racconti popolari tramandati per via scritta o orale, e solo in un secondo momento divenuti eroi della celluloide, furono una miniera d’oro per la Universal prima e la Hammer poi, ma dopo essere stati rielaborati in tutte le salse (perfino con adattamenti alla luce dell'incombente minaccia atomica, così sentita sul finire degli anni Cinquanta) avevano concluso il loro ciclo.
Così i mostri divennero reali, quelli del quotidiano, magari insospettabili. Mai l'horror aveva osato tanto prima. Il killer poteva essere l'uomo incontrato per caso in ascensore così come il vicino di casa, l'amico di famiglia o il direttore di un atelier di moda. Ma se vogliamo, Bava fu citato da Clark pure negli effetti sonori, visto che il continuo e sinistro soffio di vento che risuona per buona parte del film (spesso anche nelle scene girate in interno) ricorda quello di diversi film del regista ligure.

Ad ogni modo, nei Sessanta lo slasher vero e proprio era ancora di là venire e inventarlo, all’inizio del decennio successivo, sarebbe stato il solito Bava. "Reazione a catena", arrivato al cinema nel 1971, fu in pratica una specie di "Venerdì 13" italiano (o per meglio dire, sarà il film di Sean S. Cunningham a configurarsi come il "Reazione a catena" statunitense): innanzitutto per la location teatro delle riprese (una baia lacustre) e poi per la sequenza di un ammazzamento (la coppietta sorpresa mentre fa l’amore e infilzata “in tandem” con una lancia) che verrà ripresa nel capostipite della saga ambientata nell’immaginario camping di Crystal Lake, diventando una delle più iconiche dello slasher tutto.
Ora, sul fatto che Black Christmas è uno slasher, pochi dubbi, gli ingredienti ci sono tutti: il serial-killer, le armi affilate usate in gran parte degli omicidi, il sangue in quantità, le vittime perlopiù adolescenti; ma anche il rapporto conflittuale tra giovani e adulti, la sfiducia verso istituzioni e garanti dell'ordine costituito (polizia e affini), l'ipocrita e desolata realtà di provincia e, last but not least, una certa sessuofobia tipica del filone. Non di rado, infatti, a morire sono giovani coppiette sorprese nell'atto di copulare o mentre si apprestano a farlo. E non servirebbe nemmeno scomodare Bava per notare l’affinità, perché basterebbe guardarsi "I corpi presentano tracce di violenza carnale", arrivato nelle sale cinematografiche nel gennaio 1973, per non avere più dubbi circa la sconvenienza dell’appropriazione a stelle e strisce. Nel film di Sergio Martino, un misterioso assassino seriale prendeva di mira alcuni studenti dell’Università per stranieri di Perugia uccidendoli in vari modi, ma prediligendo quasi sempre armi affilate.


E nel cinema americano cosa stava succedendo all’inizio dei Settanta? Se da un lato il male concreto e quotidiano prendeva la strada della denuncia sociopolitica come nel caso dell'horror “selvaggio” dei Tobe Hooper, David Cronenberg e gli stessi Craven e Carpenter - tutti epigoni del grande George A. Romero e del suo "La notte dei morti viventi" (1968) - dall'altro l’horror virava appunto verso lo slasher, cioè la violenza cinica e spietata che prendeva di mira i giovani, il futuro, in una visione estremamente pessimista dei tempi a venire.
"Black Christmas" ispirerà pesantemente il primo "Halloween", uscito a ottobre 1978, nel quale ricorrono molti suoi elementi, a partire dalla soggettiva di Michael Myers che si appresta a uccidere la sua sorellina chiaramente ispirata a certe sequenze del precursore (anche se la soggettiva del killer non se l'era inventata Clark ma figurava per la prima volta nel seminale "L'occhio che uccide", film di Michael Powell uscito nel 1960).
Non solo. In Carpenter torneranno la provincia americana (ripetiamo: canadese nel caso del film oggetto di queste righe ma la sostanza cambia poco), la disinibizione sessuale delle ragazze come presunto movente dei delitti, il finale aperto, la constatazione che i crimini più efferati si svolgono spesso all'interno delle mura domestiche, l'inettitudine delle forze dell'ordine di fronte al male, il desolante quadro offerto del mondo degli adulti, incapaci di comprendere i problemi dei figli e spesso falliti e/o alcolizzati.
Carpenter fisserà il genere nell'immaginario collettivo ma in verità già in "Lo squalo 2" (uscito quattro mesi prima di "Halloween") troviamo parecchie assonanze con lo slasher: l'assassino seriale (lo squalo, ovviamente), l'arma da taglio (i denti), le vittime giovani (il gruppo di ragazzi protagonisti che si avventurano in barca a vela), l'immancabile verve moralistico/bacchettona (ragazzo e ragazza sorpresi a morte mentre si apprestano a fare sesso sul pagliolato del loro natante) e ovviamente il sangue a ettolitri.

L’unica pecca di "Black Christmas", peraltro inevitabile e condivisa con molti altri titoli di quell’epoca e delle precedenti, è che mentre lo si guarda bisogna fare mente locale e immedesimarsi nella realtà tecnologica del tempo, con riferimento in particolare alle telecomunicazioni, dato che centrali nello svolgimento della storia sono le telefonate minatorie del maniaco fatte alle ragazze del convitto (uno spunto, la chiamata sul telefono fisso che anticipa il delitto, che Craven farà suo in "Scream" nonostante nel 1996 i cellulari saranno già ampiamente diffusi). E le sequenze in cui la polizia che ha messo gli apparecchi sotto controllo cerca di risalire al punto esatto da cui proviene la telefonata, pur ricche di suspence, con l’inquadratura “industrial” dei terminali che stabiliscono il fatidico contatto, risultano chiaramente datate. Insomma, nemmeno a un regista, per bravo che sia, si può chiedere di prevedere il futuro, a meno che non si tratti di Stanley Kubrick.





Black Christmas e le radici dello slasher americano