"It’s a classic case of art imitating life imitating art…"
(Mickey Altieri, Scream 2)
Si consiglia di procedere nella lettura solo dopo la visione del film.
Squilli e grida
Prima ancora di veder comparire sullo schermo una qualche immagine, è un brevissimo montaggio sonoro a introdurre la visione di "Scream": un grido di terrore si sovrappone allo squillo di un telefono, finché sullo schermo compare il titolo: un attacco brevissimo, ma incisivo, che condensa già in sé tutto il significato della pellicola.
Il grido di terrore ci catapulta nell’universo dell’horror, ma già qui sorge una prima domanda, soltanto apparentemente banale: possiamo parlare di "Scream" come di un horror?
Se vogliamo essere rigorosi, no. Al di là di un po’ di splatter, infatti, si è in assenza di quegli elementi che tipicamente caratterizzano il genere: nessuna entità sovrumana o mostruosa; nessuna atmosfera fantastica o irrazionale. Qui ogni elemento della trama trova il suo posto in una cornice da thriller senza sbavature.
Eppure, pressoché chiunque, al termine della visione, potrà pensare di aver appena visto un horror, prova ne sia il fatto che "Scream" è un titolo onnipresente nelle guide al genere, avendone segnato il percorso anche più di tanti altri titoli per così dire "puri".
Come abbiamo detto, è l’urlo iniziale a darci l’indizio sul genere di riferimento, ma tale urlo non si presenta da solo. È anticipato da un telefono che squilla: suono che, non a caso, ricorrerà con martellante insistenza nel corso dell’intera pellicola, a preannunciare, di volta in volta, la comparsa del killer. La ripetizione assillante di tale suono, che diventa caratterizzante dell’intera saga, esclude una sua possibile neutralità. Siamo nel 1996 e il telefono è il mezzo di comunicazione per eccellenza, subito seguito dal televisore, che non a caso è un’altra presenza costante all’interno del film.
Comunicazione, ovvero: condivisione di un linguaggio, ed è sul piano linguistico che si gioca l’intera partita del capolavoro di Wes Craven. Il dubbio sul genere di appartenenza di "Scream" è risolto dalla constatazione che esso, pur non essendo propriamente un horror, parla senza dubbio il linguaggio dell’horror. "Scream" è un film che ha per corpo il cinema horror stesso, che si nutre di riferimenti, di situazioni, di cliché, di citazioni tratte da film dell’orrore e, più in particolare, dagli slasher-movie. Le allusioni, gli ammiccamenti, i rimandi ad altri film, registi e attori si sprecano; i protagonisti delle vicende: Randy, Billy, Stu, Tatum, Casey (con la sola, importante, eccezione di Sydney) sono cinefili con una maniacale ossessione per questo tipo di cinema.
Gli horror/slasher costituiscono la grammatica grazie alla quale essi possono interpretare e dare un senso alle loro giornate. Così, quando Billy dovrà comunicare a Sydney che il loro amore gli pare spento, dirà che sembra un film in edizione televisiva, con le parti migliori tagliate; Loomis paragonerà la vita sentimentale della madre di Sydney (sospettata di avere avuto delle relazioni extraconiugali) con quella dell’attore sex symbol Richard Gere; il dolore della protagonista per la perdita della figura genitoriale farà scattare il collegamento con la Jodie Foster de "Il silenzio degli innocenti"... gli esempi da citare sarebbero moltissimi.
È come se il cinema fosse l’unica lente attraverso cui i personaggi sono in grado di rapportarsi al mondo che li circonda. Le regole di quel linguaggio, diventano per essi le regole della realtà stessa, si confondono con essa, e chi non le condivide, sembra impossibilitato a comprenderla, come nel caso dei poliziotti, il cui brancolare nel buio viene ricondotto da Randy alla loro scarsa cinefilia. E non solo. L’ignoranza in tal senso è persino meritevole di punizione, ed è ciò che spinge il killer ad agire: è pur sempre una lacuna cinematografica a determinare la morte di Casey Becker, incapace di rispondere alla domanda su chi sia il vero assassino di "Venerdì 13".
I protagonisti vivono la loro vita come se fosse realmente un film dell’orrore, come se tutto funzionasse secondo precise regole strutturali, ed è proprio questa convinzione, in fondo, a trasformare la loro esistenza in tragedia.
"Scream" però non si limita a omaggiare e a citare la tradizione cinematografica precedente, ma la sovverte, la rovescia, ne causa l’implosione, e in ciò sta la sua genialità. Craven non celebra soltanto un certo linguaggio, ma ci gioca, in un continuo processo di connotazione metalinguistica: è cinema che rimanda ad altro cinema, linguaggio che rimanda ad altro linguaggio.
Craven e lo Slasher – Costruire per decostruire
Il dibattito su quale sia il punto d’origine dello slasher-movie è ancora aperto: se alcuni titoli come "Black Christmas", "Reazione a catena", "The Town that Dreaded Sundown" e soprattutto "The Texas Chainsaw Massacre" (per altro tutti citati all’interno della saga di Scream) sembrano i migliori candidati per rappresentare la nascita di questo sottogenere cinematografico, c’è chi ne ritrova le origini in titoli ancora precedenti, come "Psycho", "Sei donne per l’assassino" o "Peeping Tom".
Se non possiamo identificare una data di nascita precisa, è però indubbio che sono tre i titoli che all’improvviso rendono iconico tale genere: "Halloween" di John Carpenter, "Venerdì 13" di Sean Cunningham e "A Nightmare on Elm Street", firmato, per l’appunto, da Wes Craven: Michael Myers, Jason Voorhees e Freddy Krueger diventano in fretta delle star dell’incubo e le pellicole finiscono per rendere archetipica una certa grammatica horror che, di lì in poi, diventerà lo standard a cui uniformarsi per aver successo.
Tale grammatica si identifica per alcuni segni caratteristici, un significante filmico a cui corrisponde un significato ben preciso; e per le relazioni standardizzate che intercorrono tra tali segni. Guardiamo anzitutto agli elementi fondamentali, confrontando tra loro i tre titoli cult citati.
In genere un film slasher si costruisce su una struttura molto semplice: un gruppo di adolescenti bloccati in un luogo circoscritto si ritrova ad affrontare un serial killer mascherato dalla forza sovrumana, che li massacra uno alla volta a eccezione di una final-girl, la quale si salva ma viene segnata per sempre dall'esperienza vissuta. All’interno di questa struttura elementare si trovano alcune funzioni ricorrenti, che collegano gli elementi tra loro: il legame tra eros e thanatos, che condanna a morte violenta chiunque abbia una certa passione per l’erotismo o per le trasgressioni in generale; l’autorità (o, per estensione, la famiglia) come elemento sostanzialmente negativo e incapace di affrontare la situazione; chiavi di lettura psicoanalitiche; il contrasto antitetico tra final-girl e boogieman; la mancanza di moventi razionali, sostituiti da pulsioni libidiche e/o repressive; l’abbondante presenza di sangue e violenza.
Tale struttura, in pochi anni, va a definire un linguaggio condiviso, che viene esplorato in lungo e in largo fino a giungere presto alla ripetitività e alla noia.
Nel 1996 Wes Craven è ancora uno degli autori slasher più amati di sempre, dato il suo ruolo di primo piano nella definizione del genere (già a partire da uno dei più celebri proto-slasher qual è "Le colline hanno gli occhi"). Ma a differenza di altri autori, come lo stesso Cunningham, ormai vittime e schiavi del franchise, egli si rende conto dell’impossibilità di continuare a percorrere un sentiero ormai divenuto scontato e banale.
Ma, deciso a non fermarsi anche quando la strada appare bloccata, intravede un’ultima possibilità; se il linguaggio è esaurito rimane infatti ancora un’opzione: giocare con il linguaggio.
E tale strada viene percorsa già a partire da "Nightmare – Nuovo incubo", che anticipa alcune intuizioni di quello che poi sarà "Scream": dall’utilizzo del telefono come elemento essenziale della narrazione (la telefonata di Freddy a Heather ricorda molto quelle di Ghostface), al gioco metalinguistico in cui ogni attore interpreta se stesso alle prese con la realizzazione di un ultimo capitolo della saga.
Sarà però due anni dopo che tale sovvertimento linguistico raggiungerà il suo apice, con una pellicola che da subito si rivelerà un punto di svolta irreversibile nella storia del suo genere.
What’s your favourite scary movie?
Sin dalla sua prima indimenticabile sequenza, "Scream" esplicita la sua natura metacinematografica: uno sconosciuto telefona alla giovane Casey Becker e l’argomento verte subito sulla settima arte. Casey sta mettendo i pop-corn sul fuoco e si sta preparando a vedere un bell’horror; giocherellando con un coltello da cucina rivela allo sconosciuto che il suo preferito è "Halloween". Ma presto il flirt telefonico si trasforma in un gioco terrificante in cui in palio c’è la vita della stessa Casey e del suo ragazzo.
Craven agisce da subito su due fronti: contenutisticamente, spalleggiato dalla brillante sceneggiatura di Kevin Williamson, costruisce un film che parla di film, in cui il cinema ricopre un ruolo di primo piano nelle vicende; dall’altro lato, stilisticamente, decostruisce al tempo stesso la grammatica di quelle pellicole che sta omaggiando, in un processo ironico-parodistico che farà scuola (si pensi alla saga di "Scary Movie" che vedrà la luce solo qualche anno più tardi).
Se da un lato Craven mantiene gli elementi caratteristici degli slasher-movie, dall’altro li ridicolizza fino a farli implodere in sé stessi. La figura di Ghostface è massimamente indicativa di ciò. Da un lato si configura come un perfetto boogieman, con tanto di maschera in volto e coltello alla mano; dall’altro lato esso ha ben poco a che fare col principio malvagio di cui sono incarnazioni Michael Myers o Freddy Krueger: anzitutto la sua loquacità instancabile si contrappone alla muta violenza del killer di "Halloween"; in secondo luogo egli sembra essere tutt’altro che invincibile, anzi: le prende di santa ragione, unendo alla componente horror un lato da commedia slapstick che rende il tutto più caricaturale. E la caricatura è completata dal costume cartoonesco, "venduto in tutti gli empori dello Stato", che da maschera della morte si trasforma in gadget e oggetto di consumo (ancora di più nel sequel del 1997). Finanche sul piano sonoro agisce un intento decostruttivo: se in originale Ghostface è infatti doppiato da Roger Jackson, celebre voce di tanti cattivi dei cartoon, anche in italiano il doppiaggio aggiunge una verve comica, grazie al timbro di Carlo Valli, che tutti ricordiamo come il doppiatore di Robin Williams (non esattamente un cattivone).
Lo stesso processo si ripete per altri elementi: si pensi ai due personaggi rappresentanti l’autorità (civile e mediatica): il vicesceriffo Linus è un ragazzotto impacciato che fatica a farsi rispettare; Gale Weathers è una giornalista scandalistica sempre alla ricerca dello scoop. I due saranno i protagonisti di un siparietto amoroso che li porterà a commettere le stesse imprudenze degli adolescenti che dovrebbero vigilare.
Allo stesso modo il regista di Cleveland sovverte tutti i cliché del genere, a mano a mano che li cita. Nel corso della pellicola i protagonisti elencano un vero e proprio decalogo di regole d’oro necessarie per sopravvivere all’interno di un horror:
1. Chi chiede "Chi è?" sta firmando la sua condanna a morte.
2. Se si deve scappare, meglio usare la porta: non salire le scale.
3. Il principale sospettato comparirà come cadavere nell’ultima scena.
4. Il movente del killer è incidentale.
5. Chi fa sesso muore: solo le vergini fregano il killer.
6. Per estensione al n. 5, mai ubriacarsi né drogarsi.
7. Mai dire "torno subito", o non si torna più.
8. L’assassino, creduto morto, tornerà in vita per lo spavento finale.
9. [tacita] L’assassino è uno soltanto
10. Se la storia è troppo complicata, perdi il pubblico.
Tali regole risultano in effetti valide per la maggior parte degli horror antecedenti, ma "Scream" finisce per violare ognuna di queste indicazioni, spesso appena dopo averle pronunciate.
Così pochi minuti dopo l’enunciazione della prima massima, Sydney chiederà "chi è?" rispondendo alla telefonata di Ghostface, e una volta aggredita, correrà su per le scale anziché uscire dalla porta. Più tardi, proprio mentre Randy, al piano di sotto, sta istruendo tutti sulla fondamentale importanza di rimanere vergini, Sydney sta avendo il suo primo rapporto al piano di sopra e lo stesso Randy, di lì a poco, si ubriacherà. Nonostante ciò entrambi sopravvivranno alla carneficina; Quando Gale prometterà di "tornare subito" al cameraman rimasto nel furgone, non soltanto non morirà, ma si salverà dall’attacco di Ghostface, che invece taglierà la gola allo sfortunato socio.
La medesima violazione vale per le restanti regole, compresa l’ultima, visto che di sequel, nel tempo, ce ne son stati ben tre, ognuno dei quali complicava un po’ di più le vicende.
Con "Scream" dunque Craven mette a nudo l’architettura dello slasher, ma proprio nel metterla a nudo la porta al parossismo e innesca un cortocircuito che finisce per farne esplodere le dinamiche interne. Egli confeziona un perfetto thriller facendo tutto il contrario di ciò che il pubblico si aspetta. Parla il linguaggio dell’horror, ma al contempo lo traduce, lo riscrive, lo reinventa.
Linguaggio e realtà
L’opera di Craven può dunque venir intesa come una riflessione sul linguaggio cinematografico, volta a mostrare come tale linguaggio non possa essere pensato come dato una volta per tutte: non esiste un decalogo di regole che è necessario rispettare per rendere funzionante un horror. Per dirla con Saussure: l’istituzione sociale, il sistema di valori della langue, è concepibile solo a partire dall’atto individuale della parole. Se è pur vero che non esiste discorso al di fuori del linguaggio, è al contempo certo che il discorso precede il linguaggio. Per rendersi identificabile come boogieman Ghostface dovrà dunque seguire alcune regole (la follia omicida, la maschera, etc.) ma all’interno di queste regole rimarrà lo spazio per una parole che porti verso un’evoluzione, verso la definizione di una langue nuova (e pochi film hanno contribuito alla ridefinizione del linguaggio horror tanto quanto "Scream").
Ma passando dal punto di vista dello spettatore a quello dei personaggi, a questa considerazione è possibile affiancare un’altra chiave di lettura.
Com’è già stato detto, per i protagonisti della pellicola, il linguaggio slasher diventa una lente tramite cui dare un senso alla realtà, ma essi diventano in tal modo vittime di un errato presupposto, a causa del quale finiscono per far violenza alla realtà stessa (come nel caso di Stu e Billy) o per smarrirsi in essa scambiandola per una finzione (come nel caso di Randy). Tale presupposto è che ogni oggetto reale sia necessariamente l’esecuzione di un modello, la parole di una lingua, la sostanza di una forma significante; ovvero, per dirla in maniera più chiara: che non c’è nulla di reale che non sia intelligibile, riconducibile a una langue.
L’errore è quello di ritenere che il linguaggio in qualche modo preesista rispetto alla realtà, che esso possa avere un impatto tale da rendere possibile a chi lo controlli di controllare la realtà stessa. Ma la verità, che Craven fa emergere tra le righe del discorso, è che la realtà è un fenomeno sovrabbondante, capace di scardinare le regole e di ottenere la propria rivincita. È per questo che il piano folle di Stu e Billy non funziona, perché, "Scream" non soggiace a quelle regole che lo slasher aveva dato sempre per scontate. È per questo che Randy non può prevedere l’andamento degli eventi: perché non contempla che anche una vergine, per giunta ubriaca, possa sopravvivere al killer. E, fidandosi di Billy, rischia di rimanere ucciso perché non contempla la possibilità che i killer siano due; perché è convinto che saranno delle regole linguistiche a determinare l’andamento delle vicende. Suona allora come una pena del contrappasso la morte di Stu, travolto dal televisore su cui sta andando "Halloween": ucciso da quello stesso mezzo mediatico che egli stesso aveva utilizzato per uccidere. Sarà invece Sydney, l’unica a cui il fascino dell’horror sembra non fare effetto (in tal senso, in effetti, essa rimane vergine e pura, esprimendo l’innocenza di una final-girl modello), a vincere e a sopravvivere.
È alla luce di questa riflessione che possiamo cercare di dare una risposta alla domanda che, più o meno esplicitamente, accompagna tutta l’opera (o meglio, tutta la saga): il cinema è responsabile nei confronti degli episodi di violenza che si verificano nella realtà? È una domanda molto concreta, che ritorna periodicamente ad animare i dibattiti pubblici americani e non solo. La volontà di emulazione che spinge alla violenza è colpa dei film? La risposta che ci da Craven è negativa: potrà essere talvolta la realtà violenta ad appropriarsi indebitamente di un certo linguaggio, ma mai il linguaggio, aprioristicamente, a creare violenza. Il male e la ferocia saranno piuttosto da ricercare in quegli aspetti concreti (già precedentemente affrontati dalla filmografia craveniana) quali il fanatismo religioso ("Benedizione mortale"); le disuguaglianze sociali ("La casa nera"); gli abusi sessuali ("A Nightmare on Elm Street"); le sopraffazioni politiche ("Il serpente e l’arcobaleno").
Un conto è dunque dire che il linguaggio riflette la realtà, un altro conto è dire che il linguaggio esaurisce la realtà, che la incasella in schemi definiti e che la controlla. Il cinema riflette il mondo, o, al più, crea mondi immaginari, capaci semmai di farci riflettere con maggior criticismo sulle nostre vite.
cast:
Neve Campbell, David Arquette, Courteney Cox, Rose McGowan, Skeet Ulrich, Matthew Lillard, Jamie Kennedy, W. Earl Brown, Liev Schreiber, Drew Barrymore, Lawrence Hecht
regia:
Wes Craven
distribuzione:
Cecchi Gori Group
durata:
111'
produzione:
Dimension Films, Woods Entertainment
sceneggiatura:
Kevin Williamson
fotografia:
Mark Irwin
scenografie:
Bruce Alan Miller, David Lubin, Michele Poulik
montaggio:
Patrick Lussier
costumi:
Cynthia Bergstrom
musiche:
Marco Beltrami