È arrivato, dopo l'annuncio del rinnovo, il momento di discutere della serie Netflix del momento, l'ambizioso e discontinuo caravanserraglio che cerca di adattare la prima parte del più grande (almeno nei numeri) manga battle shōnen di sempre, la fluviale ed eccentrica avventura piratesca "One Piece" di Oda Eiichirō
[Prevedibilmente seguono SPOILER, moderati della prima stagione di "One Piece" e sparsi e di scarsa rilevanza dell’interezza del manga]
Capitolo I: il tesoro del re dei manga
"[A] essere consumato non è la specifica vicenda narrata
o uno specifico prodotto derivato, ma il sistema
che si presume vi sia celato dietro"[1]
Ōtsuka Eiji
Annunciato nel lontano 2017 in occasione del ventesimo anniversario del manga, l’adattamento live action di "One Piece" di Oda Eiichirō è finalmente arrivato sui lidi di Netflix, dopo circa due anni di lavoro rallentati dalla pandemia e da numerosi altri fattori, come la necessità di attendere i costanti feedback del mangaka e del suo team riguardo alla direzione del progetto. Nonostante le aspettative piuttosto basse di buona parte del fandom, e la precedente discutibile gestione di Netflix e Tomorrow Studios di un’altra iconica opera nipponica come "Cowboy Bebop", alla fine alla serie ha arriso un successo che ha pochi eguali anche nella storia della più celebre e discussa piattaforma OTT. Un successo che però è indiscutibile che abbia radici lontane e profonde, tali da permettere alla sgraziata prima stagione di "One Piece" di divenire la serie più vista al lancio nel maggior numero di nazioni (ben 84), superando i record di "Mercoledì" e "Stranger Things"[2] (pur non superandole per quanto riguarda le visualizzazioni effettive). Non si può difatti attribuire solo alla martellante promozione del colosso dello streaming, che difatti da mesi riempie ogni piattaforma social di decine di contenuti a tema "One Piece", spesso con i cinque carismatici interpreti dei protagonisti al centro, la solidità e l’entità del successo della serie, a distanza di due settimane ancora il prodotto più visto su Netflix[3].
"One Piece" ha cominciato difatti a costruire un franchise, e una fanbase, con davvero pochi eguali nel contesto dell’affollatissima industria mediale nipponica già 26 anni fa, quando il primo iconico capitolo "Romance Dawn"[4] (qui ovviamente titolo del primo episodio) uscì il 22 luglio 1997 sul magazine di manga per ragazzi "Weekly Shōnen Jump" a firma dell’allora ventiduenne Oda Eiichirō. Dopo quasi 1100 capitoli del manga, quasi altrettanti episodi dell’anime, 105 volumi in formato tankōbon (che tra l’altro sono valsi alla serie il record di fumetto di un singolo autore più venduto con oltre 516 milioni di copie), 15 film che espandono la storia del fumetto (fra cui uno diretto dal buon Hosoda Mamoru) e decine di videogiochi, light novel e altre forme di adattamento crossmediale, evidentemente una grande produzione live action era l’unica assenza di rilievo (fig. 1). Un tipo di adattamento che però si è rivelato fin da subito complesso, come chi ben conosce l’universo di "One Piece" ha temuto fin dall’annuncio. In primo luogo per ragioni di scala: adattare 26 anni di serializzazione quasi settimanale in qualche stagione di massimo una decina di episodi ciascuna è parsa fin da subito una missione quasi impossibile, aggravata dalla proporzioni stesse del mondo creato da Oda Eiichirō, composto da decine di isole, spesso l’una diversa dall’altra, e con al suo interno centinaia di personaggi dotati di proprie ambizioni e caratteristiche. Se a questo si aggiunge la natura sopra le righe del mondo di "One Piece", caratterizzato da uno stile grafico che tende al super deformed e da una cornucopia di colori e forme, nonché dalle personalità larger than life di quasi tutti i suoi personaggi, l’impresa in cui si sono gettati gli showrunner Matt Owens e Steven Maeda pare davvero degna del titanismo della quête di Luffy e sodali.
Fig. 1: il mediamix[5] di "One Piece"
È difficile d’altronde spiegare il successo di "One Piece" a coloro che sono digiuni del manga e della selva di estensioni mediali senza accennare alla complessità del mondo sviluppato nel corso degli anni da Oda Eiichirō (decisamente un narratore "giardiniere" per utilizzare le categorie di George R. R. Martin) e dei temi che ne sono al centro fin dalle semplici scorribande piratesche nell’East Blue, d’altronde alla base di ciò che si vede nella serie. Se al suo cuore "One Piece" può essere considerato un battle shōnen piuttosto classico, con i tradizionali temi dell’affermazione individuale, del valore dell’amicizia e dell’importanza della perseveranza, questi si intrecciano, invero soprattutto dopo l’ingresso nella Grand Line, con tematiche più complesse e non così frequentate dalla produzione del filone, soprattutto nel corso degli anni 90, come il razzismo, la corruzione sistemica delle istituzioni, l’autoritarismo, gli effetti dell’influenza umana sull’ambiente. Il tutto inserito in un mondo vibrante e in continuo cambiamento, attraversato perciò da numerose linee narrative che corrono in parallelo (fenomeno culminato interessantemente nei capitoli del manga degli ultimi mesi), contribuendo a un mix di molte cose poco originali che però non è simile a nient’altro. "One Piece" perciò è un’opera che da una parte si presta agevolmente alla narrazione multistrand della serialità contemporanea ma dall’altra propone un mondo così altro e variegato da rischiare di alienare i nuovi spettatori, o deludere quelli vecchi in caso di eccessive modifiche, oltre ovviamente a spaventare gli executive di Netflix con costi potenzialmente superiori a qualsiasi altra cosa l’azienda statunitense abbia mai finanziato.
Capitolo II: il calice amaro dei live action di Netflix
"[Q]uesto duplice aspetto di ‘One Piece’, questo suo essere al tempo stesso
innovativo nella singola trovata ma ortodosso nel suo insieme,
è il suo vero punto di forza"[6]
Gabriele Bertoloni e Angelo Cavallaro
In effetti la serie live action di "One Piece" si è distinta per il secondo budget più alto di sempre per una serie Netflix, ovvero 138 milioni di dollari complessivi, marcando così la prima differenza rispetto ai precedenti tentativi della piattaforma OTT di adattare celebri franchise nipponici, ovvero "Death Note" e "Cowboy Bebop", caratterizzati inoltre da un indiscutibile insuccesso critico e dalla risposta ostile dei fan, oltraggiati dai molti cambiamenti rispetto all’opera fonte. L’investimento sull’adattamento dell’opera di Oda Eiichirō pare avere d’altro canto incontrato un favore, sia critico sia del pubblico, molto più grande, forse frutto di aver appreso la lezione degli errori dei precedenti adattamenti, più interessati a inserire opere di una diversa matrice culturale e industriale all’interno del labirintico e all’epoca ancora più culturalmente omogeneo catalogo Netflix che a omaggiare opere di grande rilevanza all’interno della cultura pop giapponese. Non vi è dubbio pertanto che il live action di "One Piece" più che a "spezzare la maledizione" dei brutti adattamenti occidentali di opere cult nipponiche (una tradizione che ha le sue origini forse già con lo stracult "Super Mario Bros." del 1993 e sicuramente col trashissimo "Dragonball Evolution" del 2009) sia servito semmai a portare avanti la sempre più ambiziosa politica di internazionalizzazione delle produzioni Netflix, arrivando ora a investimenti di notevoli proporzioni e ambizioni.
Una co-produzione nippo-americana, basata su un fumetto giapponese, girata in Sudafrica (la più grande produzione Netflix di sempre sul suolo africano[7]) e con contributi tecnici e artistici provenienti da ogni parte del globo è d’altronde un prodotto che incarna (o meglio, vuole incarnare) l’attuale produzione glocal di Netflix molto più di quanto faccia lo stereotipicamente americano "Stranger Things", serie di punta della piattaforma che però si avvicina non a caso all’ultima stagione. In questa misura la serie si distanzia molto anche dagli altri adattamenti live action di celebri anime e manga presenti su Netflix, i quali non sono produzioni native ma totalmente giapponesi e che la piattaforma OTT si limita a distribuire internazionalmente, potendo così anche sfruttare la grande quantità di nippofili che ha da sempre attirato col suo vasto catalogo di anime e dorama. Prodotti come "Rarouni Kenshin" e la trilogia di "Fullmetal Alchemist" (che tra l’altro condivide uno degli interpreti principali con "One Piece", ovvero l’attore e artista marziale Mackenyu) sono d’altronde frequentissimi nella produzione audiovisiva del paese asiatico, in cui ogni franchise che abbia un minimo successo viene adattato in quante più forme e media possibili, spesso perseguendo una grande aderenza all’opera fonte che parte dalla caratterizzazione estetica del mondo e dei personaggi, con risultati di frequente cattivo gusto e che producono il tanto vituperato "effetto cosplay" (fig. 2).
Fig. 2: fra Stati uniti e Giappone, due tipi di adattamento live action
Tali opere hanno d’altro canto la loro origine nel cinema tokusatsu, il cinema a effetti speciali giapponese che da soprattutto dal "Godzilla" di Honda Ishirō in poi (che, va ricordato, si ispirava a sua volta al "King Kong" del 1933[8]) è diventato parte integrante dell’industria cinematografica, e poi anche televisiva, nipponica, proponendo una sfilza di mostri, supereroi e robot di discutibile realismo ma di grande influenza culturale. Prendendo quindi ispirazione da una produzione culturale che ha sempre puntato sull’aspetto più strettamente spettacolare, quasi mélièsiano, dell’effetto speciale e rivolgendosi al contempo a un pubblico di devoti fan, gli adattamenti live action provenienti dal Giappone non hanno mai ambito a quella verosimiglianza e universalità tematica e rappresentativa che si attende invece da una grande produzione occidentale, anche quando di genere fantastico. Il corrispettivo hollywoodiano più prossimo al cinema tokusatsu sono d’altronde i cinecomic che hanno imperato negli ultimi quindici anni, i quali, al netto dei budget molto più grandi, si caratterizzano per altro per un approccio alle opere fonte solitamente molto più rielaborativo, possibile modello di quello che ha reso gli adattamenti Netflix di "Death Note" e "Cowboy Bebop" così vituperati (fig. 2). La serie live action di "One Piece" si pone, se mi è concessa questa semplificazione, in una posizione mediana, dovendo adattare un’estetica che fa sfregio di ogni presunzione di verosimiglianza e condensare le vicende dei primi 95 capitoli del manga in otto episodi senza tradire i temi e, come si vedrà, gli stilemi che hanno contribuito a rendere "One Piece" un’opera così amata. Anche da questo punto di vista è difficile negare che, con tutti i caveat dell’operazione, sia stata un notevole successo.
Capitolo III: "One Piece" Netflix, ovvero del filmare il fumetto
"Supposto che i romanzi moderni descrivano vividamente la realtà,
i romanzi otaku rappresentano vividamente la fantasia"[9]
Azuma Hiroki
Messo in prospettiva l’aspetto produttivo e contestuale dell’ultimo grande successo di Netflix è giunto il momento di analizzare più nel dettaglio questo curioso esperimento ad alto budget, un’opera carica di spunti di riflessione proprio per la sua natura ibrida e intermedia, fra Giappone e Stati uniti, fra pedissequa citazione e libera interpretazione, fra fumetto e televisione. Un elemento che la serie rimarca fin dai primi secondi, facendo emergere le barche ormeggiate al largo del porto di Loguetown da una vecchia mappa da fumetto (come quelle che accompagnano i titoli di coda di ogni episodio) che diventa il profilo digitale della città in live action, per poi sovrapporre, introducendo uno stilema che verrà adoperato in tutta la serie, al volto del condannato ex-Re dei pirati Gol D. (ops, Gold) Roger la sua taglia da ricercato, omaggiando così uno degli elementi più riconoscibili del franchise di "One Piece". Questa intromissione metalinguistica (i pirati presentati così spesso interagiscono con la taglia extradiegetica, spostandola, tagliandola, accartocciandola, etc.) detta fin da subito il tono autoreferenziale e divertito dell’intera operazione, la quale è difatti uno spassionato tour fra le citazioni al manga e all’anime, smaliziato e sopra le righe come ci si aspetta dalla sua eccentrica fonte ma ciononostante ugualmente capace di inserire parentesi più serie e drammatiche, cercando di replicare la giostra di saliscendi emotivi che è "One Piece".
Se questa paradossalmente costante incostanza di tono poteva essere prevedibile, considerando quanto i produttori si sia prodigati fin dagli inizi del progetto per sottolineare la loro fedeltà al materiale originale e alla sua ricchezza di toni, paiono molto più interessanti le scelte che intendono omaggiare da un punto di vista stilistico l’opera originale. Sono numerosi difatti i tratti stilistici del live action di "One Piece" che paiono tentare di rendere all’interno del medium audiovisivo (e della spesso ancora più limitata grammatica televisiva, che questa serie adotta con una certa pigrizia) aspetti tipici del medium del fumetto, e ancora più nello specifico del manga di Oda Eiichirō. Il découpage stesso sembra voler rendere la varietà di inquadrature e prospettive tipica del fumetto, le cui vignette non sono formalmente vincolate come l’inquadratura cinematografica, ancor più in un fumetto eccentrico e ricco di dettagli ed elementi da enfatizzare come "One Piece". Insieme ai più tradizionali split screen, i primissimi piani con ottiche grandangolari, in effetti piuttosto urtanti a primo acchito, cercano di trasporre sul piccolo schermo di casa (o quello piccolissimo dei device mobili) i primissimi piani dei volti dei protagonisti del fumetto mostrati in isolamento, non essendo difatti solo un omaggio all’estetica stralunata dell’opera fonte ma soprattutto la testa di ponte per cercare di normalizzare un’estetica così particolare all’interno di un medium completamente diverso.
Fig. 3: il fumetto nella serie tv, lo stile di "One Piece" Netflix
Il grandangolo viene d’altronde usato anche in campi medi, e in un paio di occasioni pure in campi lunghi, per cercare di rendere realisticamente le prospettive sghembe delle vignette spread, dilatanti sull’intera doppia pagina del fumetto la scena ma concentrando spesso gli elementi più essenziali al suo centro. La regia piuttosto televisiva che caratterizza il live action di "One Piece" finisce per sposarsi da questo punto di vista furbescamente bene con la grammatica fumettistica di Eiichirō Oda, la cui alternanza di primissimi piani deformanti, campi medi e campi lunghi che fungono da enstablishing shot o da accentratori di, grande, attenzione su un punto singolo non risulta così distante da quella per cui i registi della serie Netflix hanno optato, pur mancando spesso dell’inventiva con cui il mangaka combina i suddetti semplici elementi (fig. 3). La staticità della regia nella maggior parte delle sequenze è forse il principale ostacolo al ritmo comunque serrato del live action, la cui cavalcata attraverso i primi 95 capitoli del manga ha l’indubbio pregio di non annoiare quasi mai chi guarda, al costo di glissare su dialoghi importanti ai fini della trama o di condensare varie sequenze. Anche da questo punto di vista il tentativo di replicare in forma audiovisiva lo stile di Oda può dirsi tutto sommato riuscito, in quanto la ricchezza di avvenimenti per singolo capitolo e di dettagli per ogni vignetta è sempre stata tipica dell’opera dell’autore giapponese, per quanto sia diventata particolarmente evidente, nel bene e nel male, soprattutto a partire dalla seconda metà del manga. Il live action di "One Piece", così come anticipa vari elementi narrativi della long run del fumetto, pare anche riprendere l’horror vacui stilistico che lo caratterizza, per quanto l’operazione riesca decisamente meglio nelle sequenze in interni rispetto a quelle in esterni.
Non è un caso che la maggior parte delle sequenze più importanti della serie, soprattutto quelle d’azione, avvenga all’interno di edifici, in opposizione alla preferenza per gli ambienti aperti del manga, potendo così sia limitare i costi economici della costruzione di set vasti sia quelli dovuti alla CGI, per cui le ombre degli interni sono una manna per evitare di evidenziare la pochezza tecnica della maggior parte degli effetti visivi del live action. Ovviamente ci sono eccezioni, le quali spesso hanno luogo in strutture per quanto ampie comunque conchiuse, come lo scontro del primo episodio nel cortile della base dei Marine oppure la battaglia ad Arlong Park nell’ultimo episodio. In queste sequenze è un’altra scelta stilistica a distinguersi, pur essendo presente anche in altri momenti (e invero soprattutto nei primi due episodi, diretti da Marc Jobst), ovvero il long take, il quale accompagna le notevoli coreografie dei duelli corpo a corpo curate da Franz Spilhaus, in cui sono soprattutto le performance di Mackenyu/Zoro e Taz Skylar/Sanji (e dei rispettivi stunt, ovviamente) a distinguersi come una delle componenti più riuscite della serie. Il long take, prevedibilmente sovrautilizzato all’interno del più limitato set della nave dei Marine, pare una scelta in controtendenza rispetto al mimetismo stilistico per cui hanno optato i registi di "One Piece", non avendo controparti esplicite nella grammatica del fumetto, ma risulta in realtà un interessante escamotage per dare tridimensionalità al mondo della serie e quindi a segnalare comunque la sua differenza rispetto all’opera fonte, oltre a produrre una potenziale, produttiva, contraddizione che ci si augura sarà meglio esplorata nelle prossime stagioni.
Fig. 4: più realisti del re, il rebuilding del mondo di "One Piece"
Parlando di differenze rispetto al fumetto, e prima di dedicare spazio alla componente in cui ci sono stati i cambiamenti più consistenti, ovvero quella narrativa, è opportuno parlare delle già accennate scenografie, le quali in un’opera dal worldbuilding così caratteristico divengono necessariamente, insieme ai costumi curati da Diana Cilliers, qualcosa che contribuisce a definirne lo stile. La ripresa minuziosa, ma forse fin troppo pedissequa, dei costumi presentati nel manga, e soprattutto nelle copertine e nelle splash page e nelle color spread[10] che solitamente aprono i volumi del fumetto, si contrappone da questo punto di vista all’innovazione del reparto scenografico guidato da Richard Bridgland. Molte delle location più iconiche del manga sono state difatti notevolmente modificate nell’adattamento live action, in alcuni casi per far fronte a questioni economiche e di sceneggiatura (come nel terzo e quarto episodio), in altre per rendere più riconoscibili ambientazioni che invero nella saga dell’East Blue spesso non sono molto ispirate, rendendo ad esempio Shells Town un rip off di Positano. Per quanto possa sembrare un’affermazione ardita, le scenografie viste nella prima stagione di "One Piece" rendono, insieme alla fotografia satura che enfatizza i molti colori delle ambientazioni, le location della serie ancora più "One Piece" di quanto lo siano effettivamente quelle della prima parte del manga (fig. 4), quasi rispecchiando l’indirizzo delle varie innovazioni fatte dagli showrunner e dagli sceneggiatori in sede di scrittura.
Capitolo IV: Weaving a Story, ovvero le gioie dell’adattamento
"I don’t think that was the point of the story"
"Stories can have different points"
Dalla serie, episodio 6
Fin dall'inizio uno dei propositi dichiarati di Matt Owens e Steven Maeda è stato quello di far comprendere da subito agli spettatori digiuni dell’opera originale la vastità e ricchezza del mondo di "One Piece"[11], potendo così inserire nel corso degli otto episodi non solo svariate citazioni a tutta la produzione di Oda Eiichirō ma anche elementi che permettano di anticipare gli sviluppi successivi della storia, laddove la saga dell’East Blue è quasi conchiusa in sé stessa (come quel mare lo è al resto del mondo, verrebbe da dire). Il citazionismo, che pur è una componente fondamentale di questo live action, non si limita difatti al solo fan service ma svolge un ruolo significativo nel dare consistenza al mondo (fig. 5): ad esempio il racconto che Nami fa a Zoro ferito delle vicende dell’esploratore Mont Blanc Noland non è solo un accenno a uno dei personaggi secondari, e a una delle saghe, più amati dell’intera opera ma permette anche di mostrare un frammento della cultura popolare del mondo di "One Piece", oltre a introdurre i temi centrali del sesto episodio di responsabilità individuale, mistificazione e multiprospettivismo del reale. Si potrebbero fare altri esempi ma questi cambiamenti contribuiscono a rendere il mondo più vivido e al contempo possono permettere di introdurre elementi e temi che diverrebbero più rilevanti in seguito, come ad esempio la questione del razzismo ai danni degli uomini-pesce, destinata nel fumetto a diventare importante solo a partire dall’arco narrativo dell'arcipelago Sabaody ma che qui viene introdotta con efficacia dal personaggio di Arlong, rendendo più chiare le motivazioni di uno dei villain più iconici della serie, qua reso il principale antagonista dell’intera stagione.
O forse non è propriamente lui ad esserlo, considerando che il più grande cambiamento rispetto all’opera fonte dal punto di vista narrativo è il discusso inserimento della sotto-trama che racconta l’inseguimento del vice-ammiraglio della Marina Garp ai danni del protagonista Monkey D. Luffy, che si sviluppa in parallelo al percorso di maturazione e comprensione del proprio posto nel mondo (e nell’istituzione di cui fanno parte) delle reclute della Marina Koby ed Helmeppo. Per quanto criticata, e alla volte in effetti eccessivamente statica come il colore freddo della fotografia di quelle sequenze pare sottolineare, la trama parallela dei Marine all’inseguimento della ciurma di Cappello di paglia è una parte fondamentale sia del live action di "One Piece" come progetto sia dello sviluppo di questa stagione e dei suoi temi. Infatti adatta il manga di Oda Eiichirō, piuttosto lineare durante le sue prime centinaia di capitoli, al contesto della narrativa multistrand che fin dai tempi della "quality television" di HBO spadroneggia nella produzione seriale statunitense[12], dividendo il racconto in più linee narrative in anticipo rispetto al fumetto, la cui struttura si complica solo col dipanarsi del mondo in cui i protagonisti vivono le loro avventure. Questo accorgimento narrativo permette inoltre di dare più continuità alla presentazione di personaggi che diverranno più importanti in seguito, in primis Koby, fornendo anche da questo punto di vista al pubblico la possibilità di apprezzare la ricchezza dell’universo di "One Piece", facendo ampio uso del foreshadowing[13], come la narrativa pop contemporanea prevede.
Fig. 5: citazione e innovazione nell’impianto discorsivo di "One Piece" Netflix
Proprio partendo da Koby, la cui interpretazione fatta da Morgan Davies è probabilmente tra le migliori di una serie che non brilla per le performance attoriali, e dall’uso di certe modifiche alla trama per anticipare importanti sviluppi narrativi successivi si deve partire per ribadire l’importanza tematica dell’aggiunta della sotto-trama dei Marine (che in realtà è una reinterpretazione piuttosto libera della serie di "mini-avventure"[14] raccontata nei capitoli 83-119 del manga). Koby, infatti, giovane timido finito prigioniero della ciurma guidata dalla feroce piratessa Alvida, dopo essere stato salvato da Luffy decide di unirsi alla Marina per poter difendere i deboli e impedire che alcuno soffra i suoi stessi traumi, iniziando un percorso di maturazione e assunzione di responsabilità culminato solo nei recenti capitoli del manga e di cui, sempre nell’opera originale di Oda, non vediamo i progressi fino al capitolo 432. Il viaggio dell’eroe di Koby è un chiaro rispecchiamento di quello del protagonista del manga interessato a diventare Re dei pirati (d'altronde "la persona più libera di tutti i mari"[15]) e riflette allo stesso modo sul peso della responsabilità che deriva dalla libertà individuale e sull’importanza dell’azione individuale per imporre un cambiamento collettivo a sistemi disfunzionali (come sia la corrotta e classista Marina sia lo spietato mondo dei pirati sono), temi che il live action intende porre al centro della trama, sottraedoli alla marginalità in cui erano spesso relegati nella prima parte del manga.
Allo stesso modo, e anche da questo punto di vista la sotto-trama dei Marine si rivela rilevante, il tema della libertà, e della liberazione, è centrale fin dal primo episodio del live action, spesso presente nei dialoghi del protagonista interpretato in maniera altalenante da Iñaki Godoy, in modo da sostanziare l’altro grande tema, quello prettamente shōnen, di "One Piece", ovvero la perseveranza nel perseguire le proprie ambizioni. Libero e pertanto liberatore, e d’altronde colui che sconfigge Arlong (il primo di tanti tiranni abbattuti) distruggendo letteralmente il simbolo del suo potere, Luffy spinge tutti i suoi sodali (lo stoico spadaccino Zoro, la misteriosa ladra e cartografa Nami, il grande imbonitore Usopp e il cuoco dai talenti marziali Sanji) a liberarsi dai limiti loro precedentemente (auto)imposti, cosa che l’adattamento live action trasmette con relativa efficacia (nonostante i non pochi tagli), proprio in virtù della rigida strutturazione in quattro archi narrativi, andando a costruire la crescita individuale con una studiata composizione di dialoghi, flashback e sequenze d’azione (fig. 6). Nonostante la sceneggiatura del live action abbia notevoli limiti di ridondanza e di letteralità (determinati in primo luogo dallo scarso tempo a disposizione e quindi dalla necessità di comprimere eventi e informazioni importanti), è difficile negare che riesca a trasporre i temi portanti dell’opera (e soprattutto quelli che lo diverranno, portanti) all’interno delle sue circa sette ore di avventura cappa e spada fantasy fieramente camp, andando a conseguire anche da questo punto di vista un precario equilibrio che rende l’opera apprezzabile per i fan e accessibile per i curiosi, oltre che funzionale nonostante le sue asperità.
Fig. 6: il coming of age in "One Piece" fra interazione, riflessione e azione
Non va infatti sottovalutata la varietà forse eccessiva di ambientazioni e registri, che se da un lato rende "One Piece" quello che è, dall’altro rischia a più riprese di minare il grande impegno della crew e del cast nel confezionare una prodotto la cui discontinua storia si sviluppi fluidamente e il cui mondo sopra le righe non finisca mai nel trash più sfacciato. Non appare casuale neanche il fatto che molte delle sequenze più riuscite (il primo confronto fra Buggy e Luffy, i momenti slasher nella villa di Kaya, il dialogo fra Nami e Zoro al Baratie, l’incontro fra Koby e Luffy alla fine dell’ottavo episodio) siano proprio quelle che si allontanano maggiormente dalla fonte e ne rielaborano i temi e i toni in modalità originali, lasciando l’eccentricità di "One Piece" parzialmente da parte. Come detto in precedenza, d’altronde lo "One Piece" di Netflix è un prodotto bloccato in una posizione intermedia e palesemente indeciso su quale direzione prendere: l’efficacia di molti dei cambiamenti apportati dai due showrunner e dall’intero team di sceneggiatori testimonia a favore della via della rielaborazione, laddove è stata però soprattutto l’aderenza pedissequa alla fonte a garantire l’apprezzamento della maggior parte dei fan e, quel che è ancora più importante, l’immediata riconoscibilità del prodotto, fondamentale per essere notato all’interno del mare magnum del catalogo Netflix. Probabilmente nella prossima stagione, forte di un budget maggiore (necessario per rappresentare degnamente le isole della Grand Line e i loro personaggi larger than life) e magari di una maggiore durata, i creatori di "One Piece" decideranno di stare ancora una volta nel mezzo, sperando che questo fragile (dis)equilibrio non si spezzi mai. Parlando di una storia di resilienza e perseveranza potrebbe essere la scelta giusta.
[1] E. Ōtsuka, Monogatari shōhiron, Tōkyō, Shin’yoshā, pp. 17-8, citato in Hiroki Azuma, Generazione otaku. Uno studio della postmodernità, Milano, Jaca Book, 2010 (2001), p. 83
[2] Louis Chilton, "One Piece breaks Netflix record set by Wednesday and Stranger Things", Indipendent, 07/09/2023, https://shorturl.at/hjyZ7
[3] Katie Campione, "‘One Piece’ Solidifies Its Dominance With Another Week Atop Netflix TV Charts — Here’s How The Streamer Made It Happen", Deadline, 12/09/2023, https://shorturl.at/ctFU7
[4] Merita menzione il fatto che avessero il medesimo titolo i due one-shot, ovvero capitoli autoconclusivi, pubblicati nel 1996 sempre sulle pagine di "Weekly Shōnen Jump", i quali introducono una versione embrionale di Luffy e Nami, oltre a vari personaggi secondari e temi del manga
[5] Si intende col termine mediamix la sinergia di diversi prodotti mediali che vanno a espandere un singolo universo narrativo all’interno del maggior numero di media possibile, tipico dell’industria culturale giapponese. Cfr. H. Azuma, op. cit., pp. 97-8
[6] G. Bertoloni, A. Cavallaro, Romance Dawn. L’alba di una grande avventura, autopubblicato, 2019, p. 61
[7] The Presidency of South Africa, 17/03/2023, https://shorturl.at/gKXY2
[8] D’altronde, per citare nuovamente Azuma, "l’immaginario sottinteso nel Giappone fittizio degli otaku è di sicuro made in USA, ma si è così ben sviluppato che ha finito con l’essere sostituito da una cultura autonoma che non ha più bisogno di riferirsi alla fonte da cui è stata influenzata", p. 70
[9] H. Azuma, op. cit., p. 114
[10] Coi termini splash page e color spread si definiscono rispettivamente le pagine, solitamente introduttive del capitolo o del volume o poste comunque in posizioni rilevanti all'interno del fumetto, che sono interamente coperte da una singola immagine o vignetta e le pagine multiple (solitamente due) dedicate a una specifica vignetta o immagine singola colorata
[11] Grant Hermanns, "Live-Action One Piece Creator Details Big Changes From Manga (& How They Convinced Eiichiro Oda To Allow Them)", ScreenRant, 05/09/2023, https://shorturl.at/jvxGW
[12] Veronica Innocenti, Guglielmo Pescatore, Le nuove forme della serialità televisiva: storia, linguaggio e temi, Bologna, Archetipo Libri, 2008, pp. 33-4
[13] Si intende col termine foreshadowing l’adombramento, quindi l’anticipazione, di un elemento successivo della storia nella forma di un dettaglio più o meno criptico, come avviene in "One Piece" con l’incontro fra Zoro e Mr. 7
[14] Si definiscono "mini-avventure" le brevi storie parallele, di una vignetta per volta, che sono spesso al centro delle splash page che aprono i capitoli del fumetto di "One Piece", permettendo così a Oda Eiichirō di raccontare più vicende contemporaneamente senza interrompere il flusso della narrazione principale
[15] E. Oda, One Piece, Bosco (PG), Star Comics, 2009 (2008), vol. 52, cap. 507, p. 97
titolo:
One Piece
titolo originale:
One Piece
canale originale:
Netflix
canale italiano:
Netflix
creatore:
Matt Owens, Steven Maeda
produttori esecutivi:
Eiichirō Oda, Marty Adelstein, Becky Clements, Matt Owens, Steven Maeda, Chris Symes, Marc Jobst, Tim Southam, Tetsu Fujimura
cast:
Iñaki Godoy, Emily Rudd, Mackenyu, Jacob Romero Gibson, Taz Skylar, Morgan Davies, Vincent Regan, Jeff Ward, Aidan Scott, Peter Gadiot, Langley Kirkwood, McKinley Belcher III, Craig Fairbrass, Steven Ward, Armand Aucamp, Ilia Isorelýs Paulino, Kathleen Stephens, Celeste Loots, Alexander Maniatis, Chioma Umeala, Grant Ross, Milton Schorr, Stevel Marc, Laudo Liebenberg, Jandre le Roux, Len-Barry Simons, Brett Williams, Ntlanhla Morgan Kutu, Bianca Oosthuizen, Albert Pretorius, Michael Dorman, Ian McShane
anni:
2023 - in corso