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recensione di Pietro S. Calò
È considerato il primo film di fantascienza ma ebbe almeno due precedenti: "La Lune à un metre"(Méliès, 1898), e uno spettacolo già pronto per il cinematografo che Méliès metteva in scena regolarmente presso il teatro Roubert-Houdini, "Le misaventures de Nostradamus" (1891) e che infatti fece da ispirazione e volano al nostro film. 
Il soggetto nasce invece dall’opera di Jules Verne, "Dalla Terra alla Luna", solo più tardi integrato dai "Primi uomini sulla Luna" di H. G. Wells di cui però il regista mai aveva parlato. 
Utilizzando la medesima tecnica di Verne, un cannone che spara un razzo per vincere la forza di gravità, la missione, a differenza di quanto succede nel romanzo, va in porto e così, come lui stesso annunciò: "Potremo vedere immagini fantastiche, originali e divertenti della Luna e dei suoi abitanti, i Seleniti." 

Il film
Nel corso di un concitato convegno di astronomi, irrompe il professor Barbenfouillis (Georges Méliès) che illustra il suo progetto di allunaggio. Gli scienziati, più simili a un incrocio di Mago Merlino e Nostradamus, si dividono, litigano, lottano, si spintonano ma alla fine sei di loro smettono la divisa da fattucchieri e in abiti borghesi si decidono a essere sparati da un cannone di 300 metri per raggiungere la Luna. 
Questo primo, concitato, quadro, ricorda Sadoul nella sua monumentale storia del cinema, marca già il passaggio dal cinema delle prise de vues dei fratelli Lumiere ai tableaux, quadri, assimilabili ai capitoli di un fogliettone o alla condensazione di decine, e impossibili, atti teatrali. 
A questa bisogna, Méliès aveva fatto costruire a Montreuil un teatro di posa con soffitti a vetro, per poter sfruttare più a lungo e più intensamente la luce naturale. 
Il passaggio di quadro, senza punteggiatura e ancora senza didascalia, avviene con uno stacco che rompe l’unità di luogo e di tempo, oppure quella d’azione, focalizzando quello che nel campo lungo era solo un dettaglio. In questo caso, il gruppo, prima della partenza, è portato a visitare il cantiere in procinto di perfezionare la costruzione del cannone e del razzo. Martelli e operai battono il ferro sull’incudine, quasi stessero affinando una spada, o direttamente sui telai di quelli che sembrano più dei manufatti che gioielli a propulsione. 
Preceduti dal saluto di politici, militari e majorettes, il lancio e l’allunaggio si concludono con l’iconica scena della Luna (che dovrebbe avere il volto del Nostro, mai accreditato) colpita dal razzo-proiettale, e leggermente infastidita. Attraverso un overlap temporale, vediamo nel quadro successivo la stessa scena in campo lungo, l’allunaggio vero e proprio sulle rocce satellitari. Il tempo che scorre è scandito, durante il riposo dei sei pionieri, dall’apparizione delle stelle dell’Orsa Maggiore, coi volti di sei danzatrici del corpo di ballo di Châtelet, di un burbero Saturno, di una fugace e sfrecciante stella cometa e da Bluette Bernon che in una posa Art decò è raffigurata in figura intera come la dea della Luna. 
Una improvvisa nevicata sveglia il gruppo che si avventura negli anfratti di rocce e caverne fino a scoprire la grotta del Fungo Gigante presso cui vivono i dispettosi Seleniti, ostili e atletici acrobati delle Folies Bergère. Ai funghi, i nostri contrappongono gli ombrelli, usati come un trucco di prestidigitazione col quale fanno sparire, al tocco, i Seleniti in una nuvola di fumo. Ma sono troppi, e infine catturati e portati al cospetto del loro re-crostaceo. Lo scenario di guerrieri e dame fa subito pensare a un quadro dei viaggi di Gulliver, in cui una lotta a colpi di ombrello e piroette, e una fuga a rotta di collo, portano il gruppo di valorosi al razzo che, sfruttando la pendenza e una spinta a mano, precipita fino a naufragare in un qualche oceano, con Barbenfouillis e un selenita attaccati alla capsula. Portati in salvo, assistiamo alla loro celebrazione cui presto si adatta anche la natura burlona del selenita sulla Terra che si unisce alle danze, sfilate e allo svelamento di un busto del professore che porta inciso il motto latino Omnia Vincit Labor

Diciassette quadri, tre mesi di lavorazione, 260 metri di pellicola, diecimila franchi di budget per un film di 14 minuti. Completato, si tratta ora di venderlo, e l’operazione è tutt’altro che semplice. Il costo elevato del tournage, che ha fatto lievitare il prezzo delle singole copie, e il tema ardito del film scoraggiano a tutta prima i naturali acquirenti delle pellicole, quelli che mostrano le meraviglie del cinematografo a un pubblico più ingenuo ma nondimeno vasto, che popola le fiere delle province francesi. I forain, già pronti coi loro tendoni, megafoni e ingressi a pochi centesimi, titubano. Méliès stesso, dopo aver personalmente disegnato la locandina che vedete qui sopra, si reca presso i decennali amici con le pizze sottobraccio e imbonisce gli imbonitori che, ancora perplessi, cedono salvo ricredersi presto, dopo aver esaurito ogni ordine di posto. 
La vendita estera, invece, fa venire a galla uno dei problemi che neanche venti anni dopo causerà il fallimento della Geo-Méliès e di Méliès stesso. Il nostro ha un contratto di distribuzione con Charles Urban per il mercato inglese, supportato da Gaston, fratello di Georges, per quello americano. Negli USA, Edison, tagliato fuori dalla distribuzione, cerca prima un accordo, offrendo un assegno quasi in bianco. Al rifiuto, l’ingegnere americano, lungi dal perdersi d'animo, commissiona l’acquisto di una copia che sarà duplicata a centinaia e scoraggerà l’acquisto del film originale, più caro. È una operazione ai limiti del codice penale ma il saccheggio è pressoché legale anche se, ricorda Méliès: "La comparsa del logo Geo-Méliès in così tante copie pirata fece diventare il marchio famoso in tutto il mondo." 
Magra consolazione, la guerra di Edison contro Méliès portò al fallimento della costola americana della sua casa di produzione, nonché alla perdita dell’archivio e al ritorno a rotta di collo in Francia del fratello e del nipote, grazie soprattutto a una serie di investimenti sbagliati neanche concordati con Georges, come trasferirsi in California e darsi alla produzione di, pessimi, western. D’altra parte, il proliferare delle copie pirata tornò utile molto più tardi: degli oltre seicento film realizzati dal nostro, più della metà sono andati perduti, e i ritrovamenti sono tuttora all’ordine del giorno, in cantine e magazzini improbabili di mezzo mondo; l’ultimo è del 2016, "Match de Prestidigitation", un saggio di illusione con le carte eseguito, come sempre, da Méliès stesso. 
Il nostro stesso film ha goduto di un ritrovamento decisivo, nel 1993 a Barcellona. 
Si tratta di una copia non solo integrale (ancora negli anni 90 ne circolava una di neanche nove minuti rispetto ai 14 reali) ma anche colorata, pur se in pessime condizioni. Un costoso (900 mila euro) e certosino lavoro hanno permesso il restauro della copia che nel 2011 fu presentata in pompa magna al festival di Cannes, accompagnata da una sonorizzazione composta appositamente dagli Air che poi ne fecero un album intero, entrambi accessibili sui vari Youtube. 
Sulla scorta del grande successo del film, fu realizzato una sorta di sequel, "Voyage à travers l’impossible" (1904, 20’). 
Composto di 26 quadri, ne riprende il soggetto perfezionandone la tecnica: nel XVI quadro fa la sua apparizione il Sole, nuova destinazione dei pionieri. Il tentativo di renderlo iconico quanto la Luna non riesce; incorniciato da due nuvole fisse, l’astro, attraverso l’esposizione multipla, si ingrandisce, muove i suoi raggi minacciosi come saette e, come una vendetta per la sorella Luna, inghiotte, attraverso la sua controfigura umana, il razzo che lo vuole raggiungere, che poi è un treno, salvo sputare fuoco come una cattiva digestione quando va per deglutirlo. Col consueto overlap temporale già descritto per la Luna, inizia così una nuova mission impossible
In definitiva, è un personale inno alla scienza e alla tecnica reso iconico nella scena più riuscita del film, il cantiere dei mezzi di locomozione che può dispiegare quest’inizio 900: macchina, treno, dirigibile e, financo, una ghiacciaia; non ci sono più uomini sudati che battono chiodi, vediamo macchine e ciminiere, vediamo il progresso, insomma. 
Tanto amore per l’avvenire non è però ricambiato e, dopo il saccheggio, suona il secondo campanello d’allarme: il cinema-industria è totalmente alieno a questo personaggio, orgoglioso, scialacquatore e poco interessato al denaro. Il suo cinema, che era stato all’avanguardia in ispecie nel biennio d’oro 1902-1903, sembra ormai aver raggiunto il suo apice, come testimonia il viaggio verso il Sole che non aggiunge né toglie nulla a quanto già detto, salvo una messa in scena più elaborata: Méliès si sta ripiegando su se stesso, come le donne che amava tagliare in due durante i suoi spettacoli di prestidigitazione. Il suo, è ormai uno stile classico. 
Che proviamo infine a descrivere, smontando alcuni luoghi comuni. 

La rivalità Méliès-Lumiere
Fatto salvo che l’amicizia tra Méliès e i fratelli (e il padre) Lumiere fu sincera e senza incomprensioni, soprattutto negli ultimi, difficili, anni della sua vita, in molti tengono come articolo di fede che i Lumiere siano stati i progenitori del documentario mentre Méliès fu il genius della finzione e dell’artificio, e perciò avversari. 
La questione è decisamente più sottile. Godard, per esempio, aveva fatto notare che i Lumiere avevano immortalato incoronazioni di teste improbabili in reami incredibili mentre Méliès è andato sulla Luna settanta prima che accadesse. Un aneddoto, però, spiegherà meglio la sottigliezza della questione. 
Dopo 63 anni di regno, la Regina Vittoria d’Inghilterra, morendo, lascia lo scettro al Principe di Galles, Edoardo. Siamo nel 1902, anno d’oro per Méliès che si mette sulla pista dell’evento, previsto per giugno. L’abbazia di Westminster è interdetta, e Méliès la ricostruisce nel giardino di Montreuil; il protocollo è minuziosamente illustrato dal maestro di cerimonie, Lord Esher, fin nei minimi dettagli; il numero di comparse è determinato matematicamente, né troppe da ingolfare la maestosità degli spazi né poche per dare comunque l’idea della folla; un garzone impersona il futuro re, una ballerina di Châtelet la regina. Il tutto è condensato in dieci quadri e sette minuti. Il 29 giugno il film è già pronto ma la cerimonia è spostata ad agosto a causa di un attacco di appendicite che Edoardo è costretto ad operare. Per una esigenza di verità, ricorda Méliès, la proiezione sarà rimandata pure, alla sera del nove agosto, dopo che in mattinata finalmente il re sarà diventato re. Fu un così grande successo che Edoardo espresse il desiderio di vedere il film, che così commentò: "Meraviglioso apparecchio, il cinematografo, signor Méliès. Riesce anche a mostrare cose che non sono accadute." A causa della convalescenza infatti, molti momenti previsti dal protocollo e messi in scena da Méliès non ebbero effettivamente luogo. 

L’ingenuità dei suoi trucchi 
Ricordando che Méliès nasce come prestigiatore, di grande maestria e di valore internazionale, i suoi trucchi sono meno banali di quanto possa sembrare, e non solo per essere stato il primo a impressionarli su pellicola. Ne "L’homme à la tete en caoutchouc" (1901) il suo volto in primo piano si ingrandisce fino a scoppiare. Fatto salvo che una testa che scoppia con un trucco "ingenuo" è tuttora un cult del cinema ("Scanners", D. Cronenberg, 1981), la medesima scena ripresa da Jean-Cristophe Averty negli anni 60 è stata girata sette volte per avere la stessa resa dell’originale. Particolarmente difficoltoso fu sincronizzare il movimento in avanti di una carriola (un movimento della cinepresa che non fu abbastanza per assegnare a Méliès l’invenzione del travelling) che avvicinando la testa alla cinepresa dà l’idea dell’ingrandimento fino all’esplosione finale. Ricordiamo, inoltre, che le prime cineprese non erano dotate del mirino e la centratura delle immagini e i tagli dell’inquadratura si affidavano solo al buon occhio dell’operatore. 
Le scenografie, l’ideale palco su cui folleggiava con le sue fantasmagorie, sono sempre risultate il lavoro più duro dei suoi artigiani che costruivano botole e anfratti, modellavano cera e cartapesta, cucivano abiti e tute, accendevano fuochi e spargevano fumo, tanto che la loro voce di budget risultava sempre la più impegnativa, in special modo, ricorda Méliès, nella messa in scena del Voyage. 

Una debole sceneggiatura
Un’obiezione più sensata. 
Méliès non racconta storie ma episodi fantastici. Non pensò mai alle didascalie e affidava le informazioni di servizio a un imbonitore (spesso lui stesso) in presa diretta che diceva i nomi dei protagonisti e il loro stato d’animo, senza preoccuparsi della concatenazione. Tra i tanti, è un soggetto letterario, "Barbe-blu" (1901) a metterne i limiti in evidenza. Troppe cose andrebbero spiegate tra il pestare dei tasti del pianista e un movimento profilmico, a dispetto della cinepresa fissa, sempre sulle righe. In effetti, Méliès sente il bisogno di inanellare trovate e gag davanti l’occhio fin troppo severo della cinepresa fissa che funge quasi da totem entro cui gli attori si muovono tantissimo e mai sono incoraggiati a mettersi eccessivamente in mostra, attraverso quei primi piani che il Nostro così non formalizza per primo, e che avrebbero avuto lo scopo sia di dar respiro al film sia di lanciare la mozione degli affetti verso lo spettatore. Nonostante sia spesso lui stesso la star maschile dei suoi film, e le sue fiamme quelle femminili, Méliès privilegia il movimento al sentimento, la capriola allo struggimento, il fantastico a un più o meno estetizzata realtà. La concorrenza, lo sbirciare le altrui produzioni, non gli fu d’aiuto in nuove riflessioni, dato che quelli che c’erano, in patria e ovunque, lo copiavano spudoratamente. Il regista che più lo insidia in quegli anni, Ferdinand Zecca (per conto del già colosso Pathé Film, che avrebbe fatto i ponti d’oro per il fin troppo orgoglioso Georges) oltre a copiarlo spudoratamente pure lui, si era impegnato in un "cinema sociale", zoliano eppur stucchevole. 

Cala il sipario
L’ultimo film di Méliès fu "Le voyage de la famille Bourrichon", 1913. 
Da quel momento, il ritorno dietro la cinepresa è spesso annunciato ma mai realizzato (un regista porno ci riuscì quasi, e comunque gli fu d’aiuto nelle ristrettezze). "Hugo Cabret" (M. Scorsese, 2013) racconta di straforo e con affetto la vecchiaia di questo geniale personaggio, incatenato alla vecchia stazione di Montparnasse, a vendere "jouets et bonbons", ma non furono quelli i momenti peggiori tant’è che morì in un ospizio, a Orly, il 21 gennaio 1938, appena consolato dall’ammirazione di Langlois, Franju, Brasillach, Clair, Walt Disney e i fratelli Lumiere, che fino all’ultimo, tutti quanti, gli furono vicini. 
Seppellito al Père Lachaise, abbiamo visto la sua tomba, vecchia e spoglia, quasi per caso; ritornati venti anni dopo di proposito per omaggiarla, e con la mappa, non è stata ritrovata. Da vero illusionista, come amavano dire i suoi cari: "Tutto sembra sparire intorno a lui…"

18/09/2018

Cast e credits

cast:
Georges Méliès, Victor André, Bleuette Bernon


regia:
Georges Méliès


titolo originale:
Le Voyage dans la Lune


distribuzione:
Geo-Méliès


durata:
14'


produzione:
Geo-Méliès


sceneggiatura:
Georges Méliès - Jules Verne (romanzo)


fotografia:
Théophile Michault - Lucien Tainguy


scenografie:
Charles Claudel


montaggio:
Georges Méliès


costumi:
Jeanne d'Alcy


Trama
Il primo film di fantascienza, ingenuo in alcune parti, profetico in altre, ricco di trovate, trucchi e tecniche cinematografiche che hanno fatto, di uno strumento di mera registrazione, un'arte.