Prodotta da Fox, "Boris" rappresenta ancora oggi il vertice assoluto della serialità televisiva italiana, vivido e illuminante esempio di metafiction dove comicità e satira concorrono a fare luce sull'archetipo della fiction italiana di massa
Gli ingredienti per una fiction televisiva made in Italy di successo? Una regia alla "cazzo di cane", l'interpretazione di una "cagna maledetta", una fotografia "smarmellata". Sono solo alcuni dei punti strategici adottati dagli addetti ai lavori sul set televisivo della soap "Occhi del cuore 2", grande storia d'amore che scava nell'animo umano...
Prima serie prodotta da Fox Italia nel 2007, "Boris" si è subito imposta quale vertice assoluto della serialità televisiva italiana, vivido e illuminante esempio di meta-televisione dove commedia e satira concorrono a fare luce sull'archetipo della fiction italiana di massa. Nata da un'idea di Luca Manzi e Carlo Mazzotta e commissionata dalla stessa Fox al trio di sceneggiatori Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, questa particolare situation comedy si incunea con spericolatezza e piglio grottesco tra i meandri dello show business casareccio, strutturandosi in 14 episodi, ognuno dei quali possiede una relativa autonomia, secondo i canoni del plot verticale, ma dove al tempo stesso le evoluzioni dei personaggi e del racconto conducono di volta in volta anche verso una struttura orizzontale che veicola la serie verso una seconda e una terza stagione, fino al congedo sperimentale di un lungometraggio.
Non si può non provare un velo di malinconia e di maldisposta rassegnazione nel vedere quelle molteplici inquadrature dall'alto che aprono o inframmezzano le avventura di "Boris", quei capannoni di Cinecittà che una volta rappresentavano il tempio della produzione audiovisiva italiana che tutto il mondo ci invidiava. Oggi quel paradiso dell'industria culturale sembra essere divenuto quasi un non-luogo sperduto nel deserto, allestito da anonimi e claustrofobici micromondi che accorpano miseri e tetri set, angusti camerini in prefabbricato e scarni spiazzi cementificati. A popolare questo triste ambiente una sguaiata fauna di personaggi usciti dalla giungla del set televisivo, bizzarri soggetti che più che dimostrarsi seri professionisti sembrano essere evasi da una grande comunità: c'è lo stagista non retribuito, rassegnato a una realtà che ne impedisce qualsiasi forma di ribellione, c'è quello schiavizzato costretto a una continua umiliazione che si snoda sul più banale nonnismo di darwiniana memoria. Ci sono le star eclettiche, quelle presuntuose per le loro megalomanie fatte di capricci ridicoli, tutte artisticamente inqualificabili e protette dalle solide ali della raccomandazione. E ancora, freak di borgata, ruffiani, alcolizzati, drogati, spacciatori e borseggiatori seriali sul set (sintomatico l'undicesimo episodio della terza stagione, nel quale l'ex-calciatore Sergio Brio è convinto di essere vittima di "Scherzi a parte").
Cinecittà o Cinecomunità?
Presentazione dei personaggi principali e secondari
La coralità è sicuramente una tra le armi vincenti di "Boris". Tutti i personaggi, infatti, anche i meno caratterizzati, sono dotati di forti componenti empatiche, questo perché non vi è un protagonista di riferimento (quello che si avvicina di più a tale prospettiva, almeno nelle fasi iniziali, è lo stagista alla regia Alessandro, che però nel corso del racconto subisce un netto decentramento), tutti sono scrutati dalla medesima lente di ingrandimento, secondo una rigida forma paritetica. A cominciare dal pesciolino rosso che dà il titolo alla serie, simpatica mascotte che richiama allegoricamente alla sfera di cristallo del mago e sulla quale il regista René Ferretti spera e prega scaramanticamente nella buona riuscita delle sue performance, in un mondo già di per sé irto di ostacoli e allertato dalla minaccia del precariato. Ogni pesce una serie, ogni serie una sfida da superare. Boris è altresì il punto di vista del pubblico che senza avere il potere dell'interazione sul set è in grado comunque di giudicare le sciagurate peripezie a cui è costretto ad assistere dalla lente "deformata" del piccolo schermo.
Alessandro è una personalità apparentemente estranea alla realtà degradata e sempliciotta del set, un ragazzo estremamente introverso ed educato, alla sua prima esperienza professionale in quello che è il sogno della sua vita e che, al pari dello spettatore, si ritrova spiazzato di fronte alla superficialità, alla mancanza di rispetto e al vocabolario boccaccesco del dietro le quinte. Solo grazie all'aiuto di Arianna, la bisbetica (almeno in apparenza) assistente alla regia che si contraddistingue all'interno della troupe per essere l'unica degna di serietà e competenza, Alessandro riesce a ottenere qualche compenso retributivo, ma solo dopo aver minacciato il suo addio dal set. Arianna e Alessandro rappresentano dunque il futuro della produzione italiana e altresì le uniche personalità all'interno del complesso processo creativo in grado di riuscire a gestire e sbrigliare gli innumerevoli intoppi del dietro le quinte e a salvare il loro regista in più di una circostanza.
René Ferretti è un megalomane depresso a seguito della sua vertiginosa involuzione artistica. Possiede una caratterizzazione molto potente, vulcanica, proprio perché il suo passato è avvolto dalla ragnatela della mediocrità televisiva nella quale si è imbattuto e si imbatte quotidianamente e di cui si vergogna maledettamente. Accetta il compromesso un po' per comodità, per "fare la giornata", un po' perché si è perfettamente adattato alle richieste della produzione e del pubblico (e del denaro) televisivo. La carica esplosiva di René è per contro compensata dall'accidia perseverante di Duccio, direttore della fotografia e grande amico del regista, caduto in preda all'abuso di cocaina. Lavora anch'egli per campare, ma, al contrario di René, il suo mestiere non lo preoccupa neanche un po' ("io qua mi trovo a mio agio perché ti chiedono di lavorare poco e male e ti pagano bene"). La sua lunga e promettente carriera ha subito un ridimensionamento in relazione al declino della tv italiana, che lo ha trascinato in un abulico e malinconico stato d'essere.
Stanis e Corinna rappresentano invece le star della serie, la coppia di attori che nessun regista vorrebbe mai incontrare. Vanitoso, presuntuoso e pateticamente spaccone lui (epiche le sequenze del suo impresentabile sostegno alle popolazioni del "Darfur" e dell'astio verso la cadenza toscana), capricciosa, viziata e psicologicamente instabile lei. Le loro pessime interpretazioni sono mascherate da una cortina di influenti raccomandazioni che impediscono a René di liberarsene, al punto tale che viene chiesto al professionista Orlando Serpentieri di recitare "alla cazzo di cane" pur di non rendere troppo vistosa la differenza recitativa tra il suo personaggio e quello dei due protagonisti. E poi si va avanti con il capo elettricista Biascica, romano de Roma, ignorante dentro e gran bestemmiatore. Rivendica costantemente gli "straordinari d'aprile" ancora non retribuiti dopo quasi un anno e affida tutto il suo lavoro sulle spalle del povero "schiavo" stagista della fotografia, umiliato sino al midollo. Itala è la segretaria di edizione, inamovibile anch'essa per via di potenti conoscenze, alcolizzata e amante del trash più becero tipicamente italiota, come quando esorta continuamente Martellone a esibirsi col suo elegantissimo cavallo di battaglia, frutto di decenni di cinepanettoni.
Gli episodi si snodano tra dialoghi epici e trovate geniali come Pedro Benitez, "lo scalatore delle Ande", la scena di sesso girata con l'intera troupe senza vestiti, alla "Lars Von Trier", la sbronza collettiva di limoncello sul set o la partita a scopa tra delegato di produzione, aiuto-regista e la guardia del corpo della moglie del senatore. In particolare nella seconda stagione, "Boris" si arricchisce di altri personaggi geniali come la ninfomane romana Karin ("il salto di qualità, più coraggio, più cosce!"), Cristina, radical chic figlia di un facoltoso industriale costretta a recitare senza averne la benché minima voglia, e soprattutto Mariano Giusti, piromane psicopatico e violento folgorato dalla visione di Gesù Cristo sulla Roma-L'Aquila. Deve però rassegnarsi a non poter interpretare "Padre Frediani", ruolo che avrebbe voluto fortissimamente, perché superato da un attore di prima fascia: Fabrizio Frizzi. Corinna lascia la serie per la gioia di tutti per non perdere l'occasione di interpretare una fiction che la vedrà vestire i panni di Madre Teresa di Calcutta, mentre a fronte del suo licenziamento, Gloria si ritrova a lavorare da truccatrice per la tv a capo del personale alla presidenza della regione Basilicata (perché "qua in Italia vale la regola delle tre G: la giusta telefonata, al giusto momento, alla giusta persona").
Di fatto, uno dei segreti del successo di una serie come "Boris" sta quindi nella grandiosa e multisfaccettata cornice di personaggi presentati nel corso delle tre stagioni e, insieme a loro, alla freschezza e alla veridicità dei dialoghi. Ognuno racconta dunque uno spaccato di un'Italia non solo televisiva ma anche politica, sociale e culturale che si ostina a rimanere come fossilizzata all'eterna regressione.
Un'altra televisione è possibile (?)
L'importanza di chiamarsi "fiction" e lo stratagemma della "locura"
Fiction significa letteralmente finzione. E paradossalmente la finzione ha forti analogie con il vissuto quotidiano, soprattutto per il ruolo che oggi ricopre il consumo mediale per eccellenza, la televisione. La fiction non è solo una simulazione di situazioni reali ma soprattutto un'autentica dissimulazione di ciò che non esiste. Per questo l'immaginario che ricopre sul pubblico è quello di uno spassionato, distensivo e immediatamente comprensibile spaccato del reale sotto le mentite spoglie del chiacchiericcio collettivo, dell'emozione palesemente truccata ma che inevitabilmente costituisce un ruolo attivo nelle vite del pubblico di massa. Oggi quando un film non è riuscito sentiamo spesso dire "sembra una fiction televisiva", perché per troppo tempo le produzioni si sono crogiolate su marchingegni narrativi reiterati, consolatori, falsi e profondamente stucchevoli.
Ma non sempre la fiction italiana è stata sinonimo di mediocrità. Una volta a formare socialmente e culturalmente lo spettatore c'era lo "sceneggiato televisivo" degli anni 50, 60 e 70. Un ricordo indelebile, irripetibile e glorioso di una tv che non tornerà (forse) mai più. Perché la parola "finzione" a quei tempi esisteva pur sempre, ma era secondaria a qualcosa di ben più importante: la sceneggiatura. Un lavoro di scrittura spesso firmato da celebri letterati del periodo che trasmettevano un pathos meraviglioso, pur nella finzione a cui appartenevano, da Leopoldo Trieste a Tullio Pinelli, da Suso Cecchi D'Amico a Cesare Zavattini, solo per citarne alcuni. Veri e propri romanzi da ammirare con gli occhi, oltre che da leggere.
L'approdo delle tv private milanesi prima e l'avvento del digitale terrestre, passando per l'imperdonabile sgretolamento della tv generalista (soprattutto della struttura pubblica Rai) non hanno fatto altro che acuire il divario artistico, qualitativo e culturale tra quel periodo e il nostro. Il problema è gravissimo, poiché la fiction italiana è un'industria ricchissima seguita da milioni e milioni di persone e ha di riflesso una grande importanza nella cultura del paese. E la responsabilità di ciò non è di René Ferretti, distrutto dai sensi di colpa delle sue azioni commesse ("quanta monnezza ho fatto!"), ma di un sistema radicato in profondità secondo cui "la fiction è pensata, prodotta, diretta e recitata da persone che non vogliono vedere quello che fanno, perché lo fanno per un pubblico che non sono loro", come sottolinea in un'intervista Daniele Cesarano, sceneggiatore della serie di "Romanzo Criminale". Quando ci si abitua a un tipo di normalità televisiva commerciale fatta di televendite, corpi femminili seminudi e intrattenimenti dementi ("Troppo frizzante" nella serie ne è il fulgido esempio) non ci si rende neanche conto del declino qualitativo cui si sta andando incontro. In Italia, si sa, il duopolio dei network generalisti è rappresentato da Rai e Mediaset che si indirizzano verso un pubblico di massa e indecifrabile, con un target medio-alto e incline a un ascolto distratto, di "relax". "Un medico in famiglia", così come "I Cesaroni" non hanno un obiettivo altro se non quello di rassicurare il pubblico, intrattenerlo agilmente e comodamente, incanalando il plot, attraverso le peripezie di uno o più "eroi" positivi, verso un inguaribile politicamente corretto. Oggi però la televisione in questo paese deve sì dare quel senso, tra l'altro un po' irreale, di tradizione, ma deve dare anche qualcosa di più: pazzia, colore, diciamo pure una "locura", come sostengono i tre sceneggiatori e il dottor Cane.
"Boris" nasce nel buio pesto dell'ideazione creativa per la tv, in un caos infernale di scritti morti sul nascere, pensieri vuoti o triti e ritriti. È un prodotto di nicchia, settorializzato nel mondo di chi la tv la modella, aperto alla sperimentazione e rivolto a uno spettatore critico. Ma possiede una freschezza tale da saper adescare la massa grazie all'inscalfibile indole nostrana fatta di difetti, ignoranza e pregiudizi, il che si traduce in una serie continua di sketch comici sempre troppo intelligenti e raffinati, che riescono addirittura nel miracolo di far affievolire e mettere in secondo piano le apparenti superficialità delle battute e il turpiloquio continuo a opera delle maestranze. Possiede quel quid in più che nessun'altra serie nostrana è mai più riuscita a raggiungere. Non è propriamente una sit-com, perché esplora, seppur con irriverenza, il mondo della soap, quindi delle fiction. Allo stesso tempo aggiunge un piglio documentaristico per l'accuratezza dei processi lavorativi e per l'istintiva nonché anarchica evoluzione della scrittura. In fondo, il processo narrativo di "Boris" in un certo senso è anche quello di educare e formare sul passaggio dalla vita a quel mondo bizzarro che è la produzione televisiva (e che è il sogno di molti), invitandolo (a tratti quasi forzatamente) a riflettere su un modo per sovvertire il fenomeno prepotentemente descritto. "Boris" si rivolge al futuro secondo una lettura rigorosamente sociosemiotica.
La qualità non basta
Il lavoro sulla sceneggiatura e il gioco della metafiction
Oltre ai personaggi di scena già ampiamente presentati, il gioco narrativo di "Boris" è sorretto da quattro figure fondamentali: il dottor Cane, lo spietato, sessuomane simil-berlusconiano e misterioso direttore della rete Magnesia (inutile sottolineare la genialità degli autori) mai inquadrato in volto, lo zerbino Diego Lopez, il suo delegato nonché contatto diretto col regista e con il resto della troupe (come quando avverte René del problema etico dell'aborto esploso sulle prime pagine dei giornali, costringendo il regista a fare grossolane modifiche sulla sceneggiatura). Poi c'è Sergio, il delegato di produzione intento a spendere meschinamente il meno possibile sul set per evidenti motivi di budget, e infine gli sceneggiatori, punte di diamante della serie, i veri artefici dell'orripilante operazione messa in piedi dalla produzione. Tre mercenari incapaci e fannulloni, che richiedono agli attori al massimo quattro facce (in ordine dalla più utilizzata: basita, preoccupata, spensierata e intensa, quest'ultima "la più difficile") e che mandano costantemente su tutte le furie Ferretti ("4.000 euro a settimana per scrive ‘sta merda!"). L'apparente leggerezza con cui "Boris" indugia continuamente su quei tre inetti con chiari effetti umoristici è per contro una delle posizioni più dure e imperdonabili che i tre veri autori allestiscono per evidenziare una responsabilità rimasta impunita, la scaltrezza divenuta abitudine che è quella di tutti quegli sceneggiatori, "padri putativi" di ogni progetto, che per troppi anni hanno campato ricevendo una marea di soldi fregandosene della professionalità e delle cose su cui scrivevano.
Puntata dopo puntata, dopo vari esperimenti micidiali come la sottotrama comica e l'immancabile pubblicità occulta al fine di risollevare i disastrosi dati auditel, la terribile sceneggiatura di "Occhi del cuore" viene infine venduta alla tv greca, insieme al suo girato conclusivo. Impossibile non citare Isaia Panduri, il perfino dittatore del Burmini (!) che in un attentato dinamitardo elimina tutti i personaggi della serie nell'ultima, ignobile puntata. "Nessuno è più basito o sorpreso" dichiara René, tutti sono consapevoli della fine, compreso Lopez che chiede aiuto alla provvidenza e il pesciolino Boris che in concomitanza con la conclusione del racconto sembra lasciarci le penne... Salvo poi risorgere miracolosamente insieme ai dati auditel dell'ultima puntata, che riassumono il senso del geniale lavoro alla scrittura del trio Ciarrapico-Torre-Vendruscolo: boom di ascolti, primi nello share. Undici milioni di italiani a vedere la merda. Così, senza un motivo apparentemente valido.
Stessa ridicola sorte tocca al finale della seconda stagione con la presentazione del "Macchiavelli", il progetto irrealizzabile commissionato dalla rete al fine di far fuori Ferretti (e qua il trio di sceneggiatori si diverte a infondere un tocco di noir onirico imperversato da grotteschi personaggi). Progetto schivato all'ultimo da René, costretto comunque al compromesso di modificare il suo girato per venire incontro "ai nuovi equilibri politici del paese all'indomani delle elezioni. "Il colpevole non può essere Erik il gay", esclama Lopez. René gli domanda: "E quindi? Chi ha sparato al conte?". La risposta è da antologia: "Aspettiamo gli exit poll".
Nella terza e ultima stagione fuoriesce in modo lapalissiano la rassegnazione di una fiction destinata al brutto, dove la qualità è bandita e ostacolata volontariamente (il primo episodio non a caso è programmato in concomitanza con la finale di Champions League). Citando Lopez: "Medical Dimension è una trappola. La rete non ha interesse che sia un successo, al contrario, ha interesse che vada male". E ancora: "Il senso dell'operazione è dimostrare a tutto il comparto televisivo nazionale, dalla rete, ai produttori ai giornalisti, agli investitori pubblicitari, che in Italia oggi una fiction diversa non solo non è possibile, ma non è neanche augurabile. Non la vuole nessuno una fiction diversa! Ma tu ti rendi conto cosa succederebbe se veramente qualcuno facesse una fiction più moderna? Ben scritta, ben recitata, ben girata... Tutto un intero sistema industriale fondamentale per il nostro paese da un giorno all'altro dovrebbe chiudere! La domanda è un'altra: perché rivoluzionare un sistema che funziona già?". "Per il pubblico", esorta sommessamente René. "Bravo! Ma la fiction un suo pubblico ce l'ha già!". Motivo per cui cui la qualità ostentata da René per questo suo ultimo progetto è destinata a scomparire per fare posto a una nuova formidabile fiction, "Luciano Moggi: un eroe italiano".
Il personaggio di René Ferretti, insieme ai due "puri" Alessandro e Arianna, è quello che beneficia di più della struttura orizzontale durante le tre stagioni: René, pur nella sconfitta, alla fine capisce di non poter reggere l'urto di quella realtà deprimente dove le persone si rassegnano alla mediocrità. "Boris" in tal senso è la prova vivente che ce la si può fare anche se gli stessi autori parlano di "straordinaria casualità" in un paese in cui "sembra che le cose belle, la cura e la qualità siano malviste".
Per contro Alessandro rimane vittima di questo perverso meccanismo pur di uscire dal precariato. Acquista progressivamente una sicurezza diabolica e perde quell'insicurezza degli esordi che era sinonimo di genuina onestà. Questo frangente rappresenta forse il riferimento più doloroso da digerire della serie, quello su cui Lopez appoggia le fondamenta del suo discorso. La qualità non basta, le radici del diabolico meccanismo televisivo sono terribilmente difficili da scardinare. Perché, come afferma il maestro Serpentieri, "tra il Macbeth e Occhi del Cuore c'è il mutuo".
Come Kubrick
Il destino di "Boris" nella tv italiana e il continuo raffronto con la serialità americana
Incentrando l'attenzione sulla soap e sulla fiction-soap, attraverso meccanismi parodistici della produzione Rai ("Capri" diviene "Caprera", "Vento di Ponente" diventa "Libeccio", la stessa produzione della Magnesia richiama alla mente una delle principali produttrici di format italioti, la Magnolia), la satira borisiana non risparmia niente e nessuno, nemmeno la chiesa (il Padre Gabrielli di Guzzanti, palestrato e affiliato alla camorra). L'intento della "fuoriserie italiana" è quello di prendere di mira un sistema che fa acqua da tutte le parti, dall'influenza del potere politico a un modo di ragionare troppo chiuso e limitato. Per questo era impensabile che i padroni della tv Rai e Mediaset potessero lanciare un progetto del genere. Il coraggio ce l'ha avuto l'unica pay tv influente sul fronte nazionale, Sky, che attraverso la Fox e la casa di produzione Wilder ha permesso a questo piccolo grande capolavoro della serialità italiana di esistere, concedendo agli autori piena fiducia e libertà. Va bene, l'avranno vista solo poche decine di migliaia di spettatori contro i dieci milioni di "Un medico in famiglia", ma in fondo per "Boris" è stata una vittoria anche solo essere riuscita a sbracciarsi dalla selva umana di detrattori e contestatori con la coscienza sporca. Di riflesso, è anche vero che non tutti possono permettersi di scegliere, dato che non tutti hanno a disposizione le tv satellitari (anche se l'offerta si sta a mano a mano ampliando e chissà che l'imminente arrivo di Netflix e gli altri nascenti servizi di SVOD non risollevino dal torpore il mummificante stallo della qualità seriale italiana tra le emittenti generaliste).
Perché la voglia di ripartire ci sarebbe anche. E l'esempio è quello del cinema (e oggi soprattutto della serialità) americana. Arianna lo dimostra innalzando la qualità del girato quando è lei a essere dietro alla macchina da presa in assenza di René, Alfredo, l'altro aiuto-regista, in un episodio prova ad allestire tutto come si deve prima di essere fermato con un cazziatone dal regista ("basta con ‘sta storia della recitazione naturalistica!"), Stanis, pur nella becera caratterizzazione del suo personaggio e nel suo inqualificabile dilettantismo, sogna la professionalità americana insultando sempre tutti con un laconico "sei troppo italiano". Lo strafottente direttore della fotografia Glauco Benetti, che lavora saltuariamente tra Italia e Sudafrica, ammette di lavorare seriamente solo in terra straniera, mentre insulta, si diverte e si prende gioco degli addetti ai lavori sul set di "Occhi del Cuore". René più volte desidererebbe usare dolly e steadycam come nel bel cinema hollywoodiano, ma il delegato di produzione non può procurarsi tutti quei soldi. Infine Gioacchino Panè, regista "visionario che lavora solo con i malati di mente", autore che ha lavorato a Los Angeles per Kubrick e Lynch ma che viene inesorabilmente mandato a fanculo da René quando questo è stufo di essere costantemente ripreso per i grossolani errori commessi dalla sua squadra di lavoro.
Eppure nessuna delle grandi serie americane, da "Lost" a "Grey's Anatomy", da "Desperate Housewives" al più recente "House of Cards", è incredibilmente in grado di realizzare gli ascolti delle tv italiane generaliste quando propongono "Montalbano" in prima serata. Per il semplice motivo che oltreoceano hanno molti più canali e realtà produttive, mentre la nostra scelta "alternativa" ricade unicamente su Sky. Ma osservando il bicchiere mezzo pieno, la diffusione dei prodotti pay ha imposto decisamente un nuovo linguaggio, più creativo e rivoluzionario, di cui "Boris" rappresenta il capostipite. Si pensi alle fortunate serie di "Gomorra" e "Romanzo Criminale", entrambe targate Sky.
E allora evviva "Boris", evviva le sue risate scurrili, la sua satira, la sua artigianalità che ha reso possibile a sole tre persone la realizzazione di 42 episodi tra sceneggiatura e regia, perché noi l'esercito di maestranze e i faraonici budget economici degli americani non potremmo mai permetterceli. Perché "Boris" è la dimostrazione che attraverso un coraggioso progetto satirico in Italia si ha ancora la possibilità "di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene" (Cassazione dixit).
E se oggi il terremoto che sta subendo la tv, insieme alle fiction, al cinema e all'intera catena audiovisiva sta volgendo verso risultati leggermente più confortanti, il merito è anche di questi giovani autori che non si sono arresi di fronte a questa insulsa abitudine, a questa umiliante manipolazione delle menti che potrebbe essere sintetizzata dalla splendida metafora che il Dottor Cane riserva a Lopez nell'ultima battuta della terza stagione:
"Occhi del Cuore è come il Colosseo: vecchio, decrepito, i piccioni ci defecano sopra, ma lui sta sempre li e lo guardano tutti. Perché Occhi del Cuore esisterà sino a quando esisterà un paese chiamato Italia".
I voti
Prima stagione (2007) 9,5
Seconda stagione (2008) 9
Terza stagione (2010) 8
Boris - Il film (2011) 6