Il personaggio più cinico della serialità, Frank Underwood, è il nuovo archetipo dell'antieroe. Tutto è sacrificabile per la scalata ai vertici del potere, e per guadagnarsi un posto, apicale, nel mondo. La scommessa vinta del canale di streaming Netflix che ha inaugurato un nuovo corso del sistema televisivo
Un consiglio doveroso, quando ci si approccia a "House of Cards", è quello di lasciare i propri schemi morali ad altre visioni per farsi condurre da Francis (Kevin Spacey) nell'abisso del politicamente - e umanamente - scorrettissimo. E di allontanare dallo schermo qualsiasi pretesa di realismo, che non sia un ferale realismo politico. Sembra una notazione banale e perfino ridondante, ma a giudicare da alcune amenità circolate, con la diffusione del libro di Michael Dobbs e con il passaggio del serial su Sky Atlantic, sulla possibilità che le gesta di Frank Underwood possano ispirare la nostra amministrazione della cosa pubblica, meglio specificare. A dirla tutta, e come la direbbe Obama, sarebbe bello che la macchina statale funzionasse così bene.
Andiamo però con ordine a ricostruire la genesi di un fortunato e atipico serial che ha innovato il concetto di fruizione, grazie alla piattaforma che lo ospita, e posto in essere una narrazione tanto epica quanto cinica intorno a un unico, deplorevole, personaggio. Creatura di Beau Willimon (già sceneggiatore de "
Le idi di Marzo"), "House of Cards" nasce da un'ibridazione tra una miniserie omonima degli anni 90 andata in onda sulla Bbc che raccontava il post-thatcherismo e il romanzo di Lord Michael Dobbs da cui, a sua volta, era tratta. Dobbs, con il suo passato da consigliere di Margaret Thatcher e membro del partito conservatore, di certo sapeva come rappresentare l'intrigo politico, e Willimon ha dimostrato altrettanta capacità nel reinventarlo in funzione di una serie di largo respiro, moderna, per niente edulcorata.
Dunque, con un nome altisonante come quello di David Fincher come produttore esecutivo della serie (e regista delle prime due puntate), "House of Cards" debutta nel febbraio del 2013 su Netflix, canale
on demand di streaming online che, ad oggi, ormai colosso da 50 milioni di sottoscrizioni, non ha bisogno di presentazioni. La prima stagione, lunga tredici episodi, viene diffusa da Netflix per intero, dando così allo spettatore la possibilità di misurarsi con la compulsività da serial e inaugurando con successo una nuova era per il sistema televisivo.
Il fascino indiscreto del potere (stagione I e II)
A Washington D.C. un deputato del partito democratico, Frank Underwood, cerca vendetta. Dopo essere stato il regista della vittoriosa campagna elettorale del neo-presidente degli Stati Uniti Garrett Walker, si vedrà sfilare via la nomina a Segretario di Stato, cosa che gli risulterà decisamente indigesta. Personaggio senza scrupolo alcuno e, piuttosto, dotato di un'ambizione smisurata, Frank Underwood si rivelerà, con il concorrere degli episodi all'evoluzione del personaggio, un Riccardo III rieditato, tanto in linea con la tragedia teatrale da prendersi la libertà di interagire in modo diretto con lo spettatore, unico depositario di una verità scomoda e brutale nella sua evidenza.
Anziché ricorrere in modo massiccio a espedienti thriller come la suspense o tipici della narrazione seriale come il
cliffhanger, l'autore sceglie una britannica terza via: rovesciare addosso allo spettatore un quantitativo debordante di cinismo e non sottenderne nemmeno una goccia. Lasciare, altresì, ai giochi di potere che governano l'intreccio di esercitare il loro notorio fascino malevolo e performare narrativamente il lato oscuro che alberga nel chiuso dell'Io. Quello interpretato da Kevin Spacey potrebbe sembrare - al netto della bravura dell'attore nel conferire fattezze, microespressioni, e voce da vero bastardo - un personaggio spietato
à-la Walter White, Tony Soprano o Dexter Morgan. Insomma, già visto. Eppure, Frank Underwood manca di qualcosa che tutti gli altri hanno: quel giustificativo delle sue azioni che lo rende passabile di comprensione. Walter è sì trascinato in una parabola amorale, ma per necessità economiche; il boss dei Soprano è un mafioso, ma, poveraccio, soffre di depressione; e infine Dexter, chirurgico serial-killer, ha il cuore buono nel conferire la patente di sua prossima vittima solo ai rei. A muovere le intenzioni del protagonista di "House of Cards" è, invece, la sola atavica lotta per la conquista del potere, dove fare il male è il modo più efficace per ottenere quello che si vuole. E nel farlo, Frank Underwood non ha remore, è chiaro sin dall'
incipit della prima stagione in cui Spacey, che ha appena aiutato nel trapasso un cane agonizzante, recita così: "There are two kinds of pain. The sort of pain that makes you strong, or useless pain. The sort of pain that's only suffering. I have no patience for useless things". Ancora più demoniaco, nel primo episodio della seconda stagione, quando si è ormai sostanziata la natura spericolata del protagonista, ascoltiamo, attoniti, questa frase: "For those of us climbing to the top of the food chain, there can be no mercy". Oltreché darci la misura del grado di letterarietà della scrittura del personaggio principale, quest'ultima citazione, con il riferimento alla catena alimentare, è utile a far emergere un motivo ricorrente in entrambe le stagioni, il continuo rimando al regno animale, come se i personaggi di "House of Cards" fossero parte di un branco in cui si esercita il diritto del più forte e una darwinistica selezione naturale.
Anche i rapporti umani tra personaggi - lungi dal rispettare convenzioni normate dalla consuetudine alla banalizzazione - si svolgono in un'arena ideale, dove si è pronti a combattere sino al sangue. È così per la coppia Frank-Claire (una statuaria icona algida, Robin Wright), il cui matrimonio si fonda sulla promessa di non annoiarsi mai e su una forma d'amore che contempla il mutuo aiuto nella scalata ai vertici del potere. Sempre che non si calpestino i piedi a Claire (come nella puntata s01e9). "I love that woman. I love her more than sharks love blood", ci dice il protagonista. Ed è così anche nel rapporto tra Frank e la giornalista Zoe Barnes (Kate Mara), i cui incontri privati somigliano a dei combattimenti, dove selvatica e ferina è la loro sproporzionata ambizione e la necessità di servirsi dell'altro sino a farlo soccombere.
Nella seconda stagione, rilasciata per intero il 14 febbraio 2014 negli Usa, a dirigere gran parte degli episodi c'è James Foley (ma sono passati di qui David Fincher, Joel Schumacher, Jodie Foster Robin Wright etc.), che confermerà l'architettura gelidamente geometrica della prima, vincente, stagione. Stavolta, i piani di Frank Underwood, vicino alla nomina di vicepresidente, sono volti a eliminare il presidente degli Stati Uniti, grazie a grosse dosi di doppiogiochismo. La diversità sostanziale tra le due stagioni si misura sull'assenza. Se nella prima vi è un eroe tragico, e debolmente umano, come Peter Russo, nella seconda manca un personaggio di medesimo spessore e che, quindi, rappresenti l'ultimo raccordo del serial con la possibilità di suscitare sentimenti edificanti vicini alla compassione. A prendere il sopravvento è, invece, un universo sempre più glaciale di cinismo, ormai libero di esprimersi secondo natura.
Hunt or be hunted.
Il potere logora chi (non) ce l’ha (stagione III)
La terza stagione di “House of Cards” ha inizio sei mesi dopo che Frank Underwood è stato nominato Presidente degli Stati Uniti. Alle prese con i mille intrighi nelle stanze della politica di Washington, sono raccontate le grandi difficoltà del suo governo: osteggiato dal Congresso e dai poteri economici, in piena crisi dell’occupazione, impelagato in una crisi internazionale nella valle del Giordano che rischia di far scoppiare una guerra e un ritorno della guerra fredda con la Russia.
Del resto, i titoli di testa in timelapse con le riprese statiche dei centri del potere di Washington – la Casa Bianca, il Congresso – e la velocità del tempo con le auto e la folla ridotte a macchie di luce, non sono altro che una sineddoche di una rappresentazione dell’immobilità fisica degli spazi della politica, da una parte, e del continuo cambiamento delle persone che la agiscono. Appare come se la coppia presidenziale cerchi di contrastare questo continuo flusso della quotidianità politica, cercando di rendersi eterni all’interno della Storia con la creazione di una società modellata dal potere.
Le principali linee narrative, intersecanti tra di loro, sono essenzialmente due. Da un lato, il neopresidente lavora per far approvare “America Works” il disegno di legge che permette di dare un lavoro a ogni americano disoccupato. Per ottenere i fondi Frank indica in diversi settori il recupero del denaro: dalla sanità pubblica alla protezione civile, dall’assistenza sociale ai fondi pensionistici. Di fatto, a ben vedere, una sostanziale distruzione del welfare, costruito in decenni di norme e leggi dei governi democratici, compiuto, ironicamente, da un presidente democratico. Ma, ormai è chiaro, che Frank Underwood è al di là di qualsiasi schieramento o ideologia politica. Lui e la moglie Claire sono interessati solo al potere. E, non al suo esercizio in quanto tale, ma al mantenimento del loro potere in particolare a discapito di tutto e di tutti.
Dall’altro lato, c’è la vicenda internazionale con la crisi giordana e il rapporto burrascoso con la Russia che viene plasticamente iconizzato con il confronto tra Frank e il presidente Petrov, ma soprattutto con lo scontro con Claire che arriva pubblicamente a insultarlo durante un banchetto ufficiale. In mezzo ci sono diversi sotto temi, a volte complicati e ripetitivi, con personaggi che appaiono e scompaiono, per poi riapparire sotto altre vesti.
Tra i tanti, il più interessante è quello che vede protagonista Douglas "Doug" Stamper (Michael Kelly), stretto collaboratore di Frank e colui che compie il lavoro sporco, dato per morto nel finale della seconda stagione, qui viene ricoverato gravemente ferito alla testa. La sua lenta guarigione e riabilitazione, che lo vede menomato e ricaduto nell’alcolismo appare come la rappresentazione più dolente del logorio e dei danni creati da un’ossessione per qualunque dipendenza essa sia: l’alcool, un politico, una donna, il potere.
In tutto questo, il rapporto tra Frank e Claire diventa il fulcro che sostiene l’intera narrativa di “House of Cards” in una competizione riportata all’interno della coppia, dove Claire non è da meno in quanto a mancanza di scrupoli e machiavellismo pur di ottenere la sua parte nella storia. Claire sempre più si discosta dalla figura di semplice first lady che lavora con devozione alla riuscita della carriera del marito, ma diventa una “socia in affari” con patti e compromessi ben precisi. E quando questi patti non sono rispettati da Frank, Claire attua vendette e contromosse che mettono in difficoltà il marito. Un esempio è la nomina ad ambasciatrice all’Onu: prima promessa, poi smentita da Frank; infine, si piega al volere di Claire e dopo che il Senato non approva l’investitura, per una dichiarazione inopportuna della moglie durante l’audizione, lui la nomina ugualmente richiamandosi a un cavillo legale. Nella realtà, tutte le azioni nascondono ricatti, scambi di favori, sotterfugi politici di ogni genere, in un gioco al massacro che comprende anche gli omicidi di eventuali persone che possono minacciare la loro posizione. In questa competizione continua, Claire comprende che il marito, adesso impegnato a concorrere nelle le primarie presidenziali del partito per la candidatura alle prossime elezioni, le chiede di sacrificarsi per l’ennesima volta. E lei in tutta risposta lo lascia e torna alla casa materna.
“Noi creiamo il terrore” (stagione IV)
Frank e Claire ricordano personaggi shakespeariani e lo sviluppo delle stagioni successive si articolano come un riflesso sulla contemporaneità ai drammi storici – in particolare a “Riccardo III” – ma, soprattutto, alla struttura di una tragedia come “Macbeth” che viene esplicitamente citato in più episodi nella corsa alla conquista della presidenza e del suo mantenimento. Ma possiamo dire che se Claire possa apparire una versione surrogata di Lady Macbeth, ella è più simile, nei modi, nei gesti e nel perseguimento dei suoi piani, a Tamora, regina dei Goti, protagonista in “Tito Andronico”. Il continuo parlare al pubblico con lo sguardo in macchina in direzione dello spettatore è un altro elemento caratteristico di una teatralità trasportata nella televisione. E da questo punto di vista “House of Cards” miscela elementi letterari, teatrali e di cronaca in una combinazione drammaturgica a volte molto riuscita, altre volte troppo ellittica.
Il personaggio di Claire prende maggiore consapevolezza nella quarta stagione, in cui l’evento principale è l’attentato che Frank subisce durante la campagna per le primarie. Claire diventa il consigliere speciale di un vicepresidente debole durante i negoziati che vedono coinvolti la Russia e la Cina per la crisi petrolifera internazionale. Il personaggio acquista in profondità e ampiezza d’azione all’interno dello sviluppo diegetico, proprio in corrispondenza di una minore presenza di Frank sulla scena che lotta tra la vita e la morte nel letto di ospedale. Ma, al contrario, le sequenze oniriche di Frank, create per mettere in scena le sue allucinazioni soggettive dato il suo stato clinico, rendono questa stagione dal punto visivo più interessante, spostando la figura di Frank al di là della vita e della morte, come lo è già al di sopra della legge.
Frank si salva, grazie a un trapianto di fegato, e vince le primarie democratiche per acclamazione insieme a Claire come sua vice. In questa corsa senza sosta della diabolica coppia, lo sviluppo diegetico è sempre composto da un avanzamento dei due verso il proprio obiettivo, interrotto momentaneamente da ostacoli più o meno importanti che riescono a saltare con l’esperienza e le alleanze costruite nel tempo oppure abbattendoli e alzando sempre di più la posta in gioco.
L’attentatore di Frank, caporedattore del “The Washington Herald”, aveva indagato sulle connessioni con la morte della collega, senza ottenere nulla e finendo in prigione a causa di un complotto ordito da Stamper su ordine di Underwood. Dopo la sua morte, durante il conflitto a fuoco, tutta la documentazione è raccolta dall’ex direttore del quotidiano Tom Hammerschmidt pubblicando una serie di articoli che scoperchiano gli intrighi e le collusioni degli Underwood. E per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica sfruttano gli attentati di un gruppo terroristico islamico che ha rapito una famiglia sul suolo americano. Nella war room, seduti uno a fianco all’altra, assistendo in diretta alla decapitazione di uno degli ostaggi (che avrebbero potuto salvare), la macchina da presa da un campo medio arriva fino al primo piano della coppia mentre fuori campo il sonoro dell’orribile morte è inequivocabile. I due si scambiano uno sguardo di intesa e poi Frank, rivolgendosi allo spettatore afferma: “Noi non subiamo il terrore, noi creiamo il terrore”.
Divide et impera (stagione V e VI)Con il terrore, il caos. Iniziato nelle ultime puntate nella stagione precedente, è inserito un nuovo confronto per gli Underwood, quello con il candidato repubblicano alla presidenza Will Conway e la moglie Hannah. Confronto che si sviluppa per tutta la quinta stagione, in continui colpi di scena. Gli Underwood sono ormai finiti a se stessi, autoreferenziali, rispetto ai Conway che sono più giovani e con figli. Lui è un ex pilota di guerra decorato, ma che non riesce a chiudere i conti con i traumi del passato; lei è una cittadina inglese, cosmopolita.
I social network e la possibilità di influenzare le opinioni è il tema portante di questa stagione. Argomento introdotto dalla nuova coppia, ma che gli Underwood ben presto ne capiscono l’importanza arrivando a reclutare un hacker. Sempre più “House of Cards” diventa specchio scuro di una realtà possibile e probabile, in cui si agisce creando il caos e dove la realtà non è mai quella che viviamo, ma quella che il potere costruisce per perpetuarsi. E pur perdendo di fatto, alla fine, Frank riesce a farsi eleggere Presidente degli Stati Uniti, stravolgendo le regole democratiche. Ma per evitare l’impeachment, si dimette aprendo la strada alla Casa Bianca a Claire. Sotto l’influenza del #metoo, almeno all’interno dello schermo televisivo, si vede una presidenza femminile (in attesa dell’entrata della prima donna afroamericana vicepresidente fuori dagli schermi televisivi).
Nell’ottobre del 2017 scoppia il caso del produttore Harvey Weinstein, accusato di molestie e violenze sessuali da molte donne, sulla scia della quale nasce il movimento Me Too. In questo ambito anche Kevin Spacey viene accusato dei medesimi presunte violenze da parte di alcuni componenti della troupe del serial e di altri giovani attori dal suo passato (alcune già archiviate dai tribunali). Netflix decide di licenziare l’attore – che viene colpito da una damnatio memoriae, visto che viene persino letteralmente cancellato il proprio ruolo in “
Tutti i soldi del mondo” con il regista
Ridley Scott che rigirerà le scene sostituendolo con Christopher Plummer, facendolo scomparire dalle scene - e annuncia che la sesta serie di “House of Cards” sarebbe stata ultima, ridotta a otto episodi rispetto ai tredici delle stagioni precedenti.
L’entrata in scena della realtà sul set televisivo è forse l’elemento metanarrativo che in qualche modo rende “House of Cards” una serie peculiare del panorama dell’intrattenimento almeno del decennio. Come Spacey viene “eliminato” così il suo – ormai sotto alcuni punti di vista – alter ego Frank Underwood muore, lasciando come assoluta protagonista Claire nello spazio del potere. Ma se fino a quel momento l’alchimia tra i due personaggi ha funzionato, la mancanza di uno dei due ha in qualche modo reso monco l’equilibrio narrativo della serie. Così, l’ultima, più breve stagione, deve correre ai ripari costruendo un passato a Claire, fatto di abusi, di cui sono colpevoli una coppia composta da fratello e sorella, Duncan e Annette Shepard, ora a capo di una corporazione industriale. Da un lato, costruiscono una qualche giustificazione morale al personaggio, vittima anch’essa; dall’altro, inseriscono una nemesi che arriva dal passato per colpirla al presente in una lotta senza quartiere sempre utilizzando gli stessi metodi che si vorrebbero condannare, arrivando ad attentare alla sua vita. Nella stagione finale Diane Lane, che interpreta Annette, spesso ruba la scena a Robin Wright, che ha ormai terminato le possibilità espressive e di sviluppo di un personaggio esauritosi per consunzione. “House of Cards” finisce con l’ultimo sguardo in macchina di Claire rivolta agli spettatori che assistono allo spettacolo del potere. Un po’ vittime e un po’ complici.
Voti alle stagioni
I stagione: 8,5
II stagione: 8
III stagione: 7