Fu vera gloria? La risposta non sarà mai concorde. Intanto, a 5 anni esatti dal sipario sulla serie tv più amata e odiata del nuovo millennio, torniamo sull'isola per fare il punto su che cosa ci è rimasto addosso di quelle 6 stagioni televisive indimenticabili
"Lost" è tante cose. Non è solo un universo parallelo da amare indipendentemente da tutto, non è solo una potente infatuazione, poi trasformatasi in un terribile risveglio dal sogno. È anche mitologia contemporanea, creazione di una realtà fittizia fatta di esperienze collaterali che ne arricchiscono la veridicità. "Lost" è anche un nuovo modo di fare televisione, uno spostare oltre il possibile fino al momento del suo concepimento le possibilità della narrazione nel piccolo schermo. È una rivoluzione del concetto di serialità: prima non si credeva possibile estremizzare a questo livello la connessione verticale dal primo fino all'ultimo episodio. "Lost" lo ha fatto. E ha vinto la scommessa.
"Lost" è mystery, avventura, melodramma, action, un po' fantasy e un po' fantascienza. È anche il primo serial aggiornato al tempo dei social network, capace di sviluppare attorno a sé un dibattito continuo, un gioco al massacro dei fan capaci di leggere nella mente degli autori e a volte, lanciandosi in congetture folli, anticipare le reali scelte di sceneggiatura dei suoi creatori. "Lost" è la serie che ha compreso meglio di tutte l'importanza di un cocktail indispensabile per un successo planetario: un ritmo delle vicende sempre sostenuto, unito a un'attenzione capillare per lo sviluppo dei personaggi che, fra l'altro, in questo caso hanno trovato ognuno un proprio spazio non da comprimario. L'immedesimazione scatta senza dubbio con qualcuno e la partecipazione emotiva ai drammi e ai dolori del protagonista di turno si fa sempre più intensa con il passare degli episodi.
"Lost" è anche la vittima più illustre della durezza del network produttore. Ed è anche il serial che, facendo da cavia, ha permesso ai format di più alto livello arrivati dopo di imparare la lezione e migliorare ancora di più l'offerta per lo spettatore. Quale lezione? Quella che imperava a cavallo tra gli anni 90 e i Duemila, ovvero: non esiste serie tv di cui è giusto pianificare il finale. Gli show vanno "spremuti" fintanto che fanno ascolto. E per "Lost" fu così: la Abc per tre anni si rifiutò di concedere agli autori una data per programmare il finale. Per intere stagioni Carlton Cuse e Damon Lindelof sono andati avanti senza sapere quando avrebbero smesso di andare in onda. Questa incertezza, per un serial che fa della concatenazione degli eventi messi in scena l'essenza stessa della sua esistenza, è decisiva. E lo è stata anche in questo caso, in senso chiaramente negativo. Nell'analizzare, su un piano critico ma anche su uno più strettamente emozionale, quello che è successo in sei anni di programmazione, cercheremo di evidenziare tutti i punti del format che hanno traballato proprio a causa di questa indecisione di fondo. Le sofferenze e i patimenti degli autori di "Lost" nel raggiungere l'agognato ultimo episodio sono ormai celebri e hanno già fatto scuola: tanto che al giorno d'oggi, questa discriminante risulta essere una delle principali per distinguere un prodotto televisivo di medio valore da uno di alte ambizioni. Nel secondo caso, il network accetta il "pacchetto completo": fin dall'inizio si pianifica il dipanarsi di tutto il serial. Ma per raggiungere questo risultato c'è stato bisogno del volo Oceanico 815 e dei suoi passeggeri-naufraghi.
Importante avvertimento: questa non è l'esegesi delle puntate, qui non facciamo re-interpretazione, per questo ci sono stati siti specializzati molto più bravi e brillanti di noi che hanno già provveduto. Qui, limitando gli spoiler, ma comunque non potendoli evitare necessariamente, tentiamo, a mente fredda, una breve e modesta disamina critica dell'opera, come se si trattasse di un film. Anche se, va detto, la giusta distanza che serve sempre per una recensione va un po' a farsi benedire di fronte a qualcosa di molto simile a un virus entrato sottopelle e lì rimasto, anche anni dopo.
Uno strano parto creativo
La genesi dello show è quanto di più avventuroso, funambolico e paradossale ci possa essere nel mondo del tubo catodico. Comincia tutto come una lotta per la sopravvivenza di un produttore sull'orlo del licenziamento, Lloyd Braun, che stava subendo le pressioni dei vertici della Abc per lo sgonfiamento del gioco "Chi vuol essere milionario?", vera punta di diamante del canale per tutto il periodo a cavallo tra la fine degli anni 90 e l'inizio del nuovo millennio. Pochi telefilm erano stati finanziati, ma nessuno aveva avuto un grande successo. Insomma, serviva qualcosa di veramente nuovo.
Braun si presentò alla riunione decisiva con i suoi datori di lavoro con due chiodi fissi in testa: il film di Robert Zemeckis "Cast Away", in cui Tom Hanks interpretava il ruolo di un uomo precipitato su un'isola deserta in cui doveva fare i conti con la difficile sopravvivenza e con la progettazione della fuga da quel carcere a cielo aperto, e il reality "Survivor", ormai dimenticato dal pubblico, ma che aveva evidenziato le potenzialità esplosive del costringere un gruppo di sconosciuti a cooperare forzatamente in un ambiente delimitato. Ecco, la somma di queste due origini fu "Lost". Una spiaggia, un'isola misteriosa, un incidente aereo, un gruppo di persone con delle storie alle spalle molto dure e la difficoltà del dover sopravvivere, convivendo.
Il progetto ottenne l'ok della Abc, ma Braun sapeva in cuor suo che era un proposito talmente folle da mettere in pratica che sarebbe durato giusto il tempo di un episodio pilota o, al massimo, di una sola stagione. Per stendere una prima bozza di sceneggiatura viene convocato uno sceneggiatore della Abc, di nome Jeffrey Lieber, ma quello che ne verrà fuori sarà un copione troppo "poco ambizioso", secondo lo stesso Braun. Lieber si allontana così subito dal progetto, rimarrà nei credits del serial senza praticamente aver mai scritto una riga di sceneggiatura. Al suo posto, chiamato dai vertici del network arriva J.J. Abrams, già ideatore della fortunata serie "Alias" e giovane regista con il sogno di ripetere la carriera di Steven Spielberg. È Abrams il vero cambio di passo del progetto. Prende in mano lo script dell'episodio pilota, lo infarcisce di tensione e di squarci noir, lo ripensa come un mastodontico film d'azione di due ore con venature horror. L'idea piace a Braun: i due si mettono al lavoro. Il tutto costerà tredici milioni di dollari, il casting, in separata sede è già stato fatto. Tutto è pronto per cominciare.
E così, vede la luce il primo episodio, che farà subito record di ascolti, che lascerà a bocca aperta i critici e gli appassionati di serie e che costringerà la Abc a mettere in cantiere un'idea di storia ben più articolata di qualche episodio sperimentale. Dopo l'input dato da Abrams, c'era un altro problema da risolvere, però. Il regista di New York non intendeva legarsi al progetto a lungo termine, ambiva a fare cinema ed era già stato contattato per dirigere un nuovo capitolo della saga di "Mission: Impossible". A quel punto Braun ingaggiò prima Damon Lindelof, un nerd d'origine controllata, uno cresciuto sognando di scrivere il serial dei suoi sogni che, ai tempi di "Alias", aveva letteralmente stalkerato Abrams per chiedergli un posto nel suo staff. E quando successivamente la Abc, andando incontro ai finanziamenti di una nuova stagione, si rese conto di avere di fronte un'opera mastodontica da portare a termine, a Lindelof si aggiunse il più maturo e posato Carlton Cuse, ovvero l'ex-capo del giovane Damon ai tempi di "Nash Bridges".
Ora la squadra era al completo, con un regista specializzato in puntate televisive, Jack Bender, a prendere il posto dietro la telecamera di Abrams. Il team era amalgamato al punto giusto in vista dei nuovi episodi e dei trionfi delle stagioni successive. Ironia della sorte, la Abc licenziò comunque Braun, perché tutti gli altri progetti naufragarono e "Lost" non fu sufficiente a far risollevare le sorti del network. E così il padre putativo dell'opera fece i bagagli prima che si potesse cominciare a raccogliere le prime vere soddisfazioni.
Vivere insieme, morire da soli
La prima stagione, che inizia con l'episodio pilota di Abrams e si chiude con una mega-puntata divisa in tre parti, "Esodo", è, indipendentemente dai picchi creativi che verranno raggiunti nelle due annate successive, la più compatta, omogenea e ben distribuita di tutte le sei che compongono lo show. È pura avventura, venata da un alone di mistero molto terreno, con diversi accenni alle proprietà di un'isola che, per il momento, non esorbitano mai dallo scientificamente spiegabile. È questa la grandiosità della creazione di Abrams, Cuse e Lindelof: l'universo "Lost" ha una sua plausibilità che non richiede il ricorso ad elementi fantastici o horror.
Tutto, anche l'aspetto più inquietante, come può essere il Fumo Nero, viene messo in scena come parte di un tutto assolutamente materiale, concreto, realistico. È uno degli interrogativi che turbano gli spettatori: "Possibile che ci sia una spiegazione per tutto?". Poco importa se questo fragile ma geniale equilibrio verrà disatteso in futuro, per il momento, volendo analizzare solo la prima stagione, resta un merito dal punto di vista narrativo di non certo poco conto.
Poi c'è l'altra colonna portante di tutto il racconto principale: "Lost" è il serial televisivo che batte ogni record di cast principale numeroso. Nessuna serie tv, prima di allora, aveva mai avuto l'ambizione di strutturare il proprio percorso attraverso le storie di decine di protagonisti, quasi tutti con uguale dignità, quasi tutti con un ruolo determinante nello svolgimento complessivo. La dimensione tragica e, oseremmo dire, cinematografica della loro personalità è curata con un doppio escamotage. Da una parte l'attingere a piene mani dal reality "Survivor" per poter descrivere tutte le possibili interrelazioni che si vanno a creare sull'isola, in uno spazio angusto e confinato, fra personaggi di estrazione sociale diversa, provenienze disparate e attitudini contrastanti. E dall'altra i flashback, oltre che ricostruire la vicenda solitamente drammatica del passato sulla terraferma, tendono ad allargare il fronte dei generi affrontati. "Lost" diventa così non soltanto action immersa nella natura rigogliosa e ostile, ma anche melodramma familiare, storia sentimentale, thriller, commedia degli equivoci e omaggio stesso ad altri tipi di telefilm, dal medical drama alla sit-com.
Insomma, un'ambizione spropositata e sempre ben calibrata fanno da costante per tutti i 25 episodi della prima stagione.
Anche se emergono fin da subito i caratteri predominanti (chiaramente quelli di Jack, Kate e Locke, d'altronde furono gli stessi autori a confermare che, seduti a un tavolo, si decise fin da subito di puntare su di loro), il primo anno è il più corale e "democratico", dove tutti, grazie ai salti nel passato equamente distribuiti, hanno l'occasione per mostrarsi per quello che sono. Una scelta ardita, che avrebbe potuto portare a un rallentamento deciso della narrazione, ma che contribuì a stimolare il "gioco delle parti" e l'immedesimazione dello spettatore con il suo beniamino preferito. Sul finale, per i fan ormai dipendenti dello show, la catastrofe. Il cliffhanger inaspettato e tanto odiato. "Esodo" non finisce davvero, infatti. Ma, con una botola che finalmente salta in aria e si apre, lancia solo l'amo per il nuovo fil rouge, quello della seconda stagione, non svelando però al pubblico che cosa dentro quella trincea meccanica si nasconde realmente. È però una costante di tutto il progetto: una stagione per costruire, un episodio finale per demolire e ricominciare da capo.
Puntualmente, a ogni stagione, la conclusione già faceva intendere che il tema portante dell'anno si andava a spegnere e se ne andava a iniziare un altro. Segno di lungimiranza e genialità? O semplicemente fiato corto in fase di sceneggiatura? Ognuno avrà la sua risposta.
Fede contro scienza, credere o conoscere
Dopo il successo planetario, la caterva di premi, lo scatenarsi di una vera epidemia virtuale sulla Rete a caccia di risposte, "Lost" si presenta alla produzione della seconda stagione. Dimenticato il fuoco di paglia del debutto spettacolare firmato Abrams, lo show è ormai saldamente e definitivamente nelle mani del duo Cuse-Lindelof. Ma una volta aperta la botola nell'ultimo episodio della prima stagione (e affondata la zattera di Michael, Sawyer e Jin al largo dell'isola, con il rapimento di Walt), ciò che era chiaro è che la narrazione si dovesse allargare. Non poteva più limitarsi a un "Survivor" aggiornato ai tempi della serializzazione televisiva. Ecco allora i nuovi personaggi, l'introduzione del gruppo della sezione di coda, che verranno ripresi in un unico lungo flashback in tutti i 48 giorni che hanno passato, a modo loro sull'isola; ma anche la sorpresa Desmond Hume, uomo solitario e pressoché impazzito chiuso dentro la botola.
L'introduzione dei nuovi personaggi principali è sempre stato un vezzo, per tutte le stagioni, molto caro a Cuse e Lindelof. Era una sfida, ogni volta. Riuscire a presentare al pubblico che ormai solidarizzava con i suoi beniamini nuovi volti, nuove storie e provare ad estrarre dal cilindro nuovi idoli. Con Desmond fu subito amore. Non tanto per la comparsata in un flashback dedicato a Jack, né appunto per il suo spuntare in versione gendarme del progetto Dharma dentro la stazione sotterranea. No, Desmond entra a pieno titolo tra i più amati e influenti dei personaggi con l'ultima puntata della seconda stagione, un doppio episodio interamente a lui dedicato, in cui la sua propensione al romanticismo sfrenato, al coraggio incosciente, al suo essere "oltre" e "diverso" dagli altri risalta con un'efficacia disarmante.
Ma la seconda stagione vive soprattutto su un altro tema portante. Dopo la lotta per la sopravvivenza nel primo capitolo, la seconda parte del serial si snoda invece lungo il binario dell'adattamento. Non sono più naufraghi quelli che vediamo messi in scena, sono ormai padroni del territorio, cercano di prendere possesso della botola, di conoscersi approfonditamente con i nuovi arrivati (Ana Lucia, Mr. Eko, Libby, Bernard, che si ricongiunge a sua moglie Rose) e poi ci sono gli Altri, gli indigeni misteriosi e pericolosissimi che hanno rapito il piccolo Walt e che continuano a terrorizzare i protagonisti. A questo proposito emerge una figura insolita: un uomo apparentemente indifeso e spaesato, trovato imprigionato dentro una mongolfiera in mezzo alla foresta. Dice di chiamarsi Henry Gale, di essere precipitato sull'isola, di aver perso sua moglie e di essere un "lost" esattamente come tutti gli altri. Ecco come entra in scena il gigantesco Michael Emerson e il suo Benjamin Linus, capo degli Altri e sull'isola fin da quando era ragazzino. C'è una storia interessante che merita di essere raccontata a tal proposito e che svela l'incredibile follia del progetto "Lost" nel suo procedere per tentativi, per invenzioni estemporanee. Lindelof raccontò a show terminato che Emerson aveva firmato un contratto che lo legava alla serie per metà di una stagione, appunto la seconda. Non era previsto un leader degli Altri e di conseguenza la terza stagione, tutta giocata sul conflitto tra i due gruppi, prese forma soltanto all'indomani della scoperta del successo clamoroso che il personaggio aveva riscosso al momento della sua comparsa.
Fede contro scienza, dicevamo. Ma anche credere contro conoscere. La seconda stagione, con un crescendo di tensione complessivo fino a un completo ribaltamento dei ruoli, esalta il confronto/contrasto tra i due uomini preminenti: Jack, il medico, la guida dei naufraghi, un uomo razionale che non crede al destino né tantomeno agli interventi superiori che decidono le sorti umane; e John, uomo di mezza età, con un passato tra il vero dramma e la tragedia, rimasto paralizzato, dilaniato dal dolore di essere stato usato da suo padre per loschi fini, e convinto che l'isola sia il luogo dove un'esistenza mediocre e passata nell'ombra possa essere riscattata. Il suo personaggio sarà forse quello con la crescita e i cambiamenti più coerenti nel corso delle stagioni.
L'altro Jack, quello con la barba
Quando gli autori scrissero il (bellissimo) finale della seconda stagione, "Si vive insieme, si muore soli", sapevano di giocare un nuovo tiro mancino al proprio pubblico: ancora una volta, una sospensione della vicenda rischiava di far arrabbiare molti, correndo il pericolo di perdere una fetta di telespettatori esausti ed esasperati da queste continue promesse tradite. Di nuovo, infatti, una vicenda si apre, viene esaminata nei suoi dettagli (parliamo della botola da una parte e del misterioso Henry Gale dall'altra) e poi lasciata in sospeso sul finire dell'annata. Ma stavolta, a differenza di ciò che era accaduto con la prima stagione, c'era dietro una frustrazione che Cuse e Lindelof condividevano con i loro fan. Come abbiamo avuto già modo di dire, "Lost" ha rappresentato una specie di linea di confine nell'evoluzione del mondo delle serie tv americane. Fino ad allora, il network vedeva l'oggetto-telefilm come una gallina dalle uova d'oro, da spennare e spremere fintanto che garantiva ascolti alti e ingenti investimenti pubblicitari.
Gli autori di "Lost" furono probabilmente le vittime sacrificali per una rivoluzione che spingesse gli stessi produttori a capire che un'opera così complessa ed elaborata come un serial, che faceva della omogeneità della narrazione il fulcro del fragile equilibrio, non potesse essere subordinata a esigenze di marketing. D'altronde, e lo sappiamo ormai benissimo, l'inevitabile declino dell'atmosfera lostiana fu in parte dovuto proprio all'impossibilità dei suoi sceneggiatori di pianificare un ordinato cammino verso la fine.
Ma la terza stagione è l'eccezione che conferma la regola. In pieno caos creativo, in grossa difficoltà per la fatica di architettare gli snodi narrativi, Cuse e Lindelof avviano una faticosa trattativa con la Abc arrivando a minacciare l'abbandono della serie se dai piani alti del canale televisivo non arriverà un via libera per una data certa di conclusione dello show. E proprio mentre pare che la storia stia ormai giocando per accumulo, sbandando fra quesiti irrisolti e nuovi interrogativi lanciati nella mischia, "Lost", dopo un avvio molto complicato (con tanto di esordio dei personaggi più detestati dal pubblico, i brasiliani Nikki e Paulo, cui viene addirittura dedicato un incomprensibile episodio), si rialza verso vette impensabili. La stagione si gioca tutto sulla lotta contro gli Altri, sull'esplorazione di un mondo capovolto, guidato da Ben e dalla sua (non più) fidata dottoressa Juliet Burke, sull'elaborazione straziante del concetto di destino, che comincia a prendere il sopravvento in modo predominante nelle vicende individuali.
Il destino, quello che Desmond tenta di combattere prevedendo eventi futuri, quello che Jack crede di ignorare perché "ognuno è artefice del proprio", quello che John, pur non capendo, prova a inseguire per dare finalmente un peso rilevante alla sua vita terrena. Tutti combattono per sopravvivere, ma al tempo stesso devono sopportare il fardello del "sospetto", di un'entità superiore, buona o cattiva ancora non si capisce, che li ha costretti sull'isola per qualcosa. Se le prime puntate sono lo specchio di un blocco creativo abbastanza desolante, la parte centrale e finale della terza stagione è il momento più alto di "Lost", la sommatoria di tutti gli elementi che ne hanno fatto un'opera capitale nella storia del tubo catodico: azione allo stato puro, tensione insostenibile, colpi di scena inattesi eppure plausibili, venature melodrammatiche di straziante intensità. Si sale di livello fino agli ultimi incredibili flashback, alla storia di Ben, a quella di Juliet, alle puntate dedicate a Desmond, per cui vale, anche in un'ottica di struttura dell'episodio ciò che vale nella finzione per il personaggio stesso, ovvero le regole sono diverse.
Tutto porta allo scontro finale, al poderoso epilogo raddoppiato nella durata di "Attraverso lo specchio", titolo quanto mai ondivago, perché oltre a essere la stazione sottomarina che Charlie dovrà allagare per permettere ai suoi di contattare una nave al largo, è anche una sommessa spiegazione di ciò che accade: si attraversa un riflesso e tutto si capovolge. Inutile rammentare qui nei dettagli il colpo di scena dei colpi di scena, il senso di quel Jack a Los Angeles in versione barbuto e strafatto. Resta però clamorosa l'intuizione di fondo: con un ribaltamento dei punti di vista, "Lost" è pronto a giocarsi la partita fino alla fine, l'isola non sarà più il luogo principale della narrazione ma diventerà essa stessa flashback di qualcos'altro. Soltanto "Twin Peaks" fino a quel momento, aveva osato tanto nel violentare l'emotività del pubblico.
La fuga
Quando la quarta stagione è al via, tutti i presupposti lasciano presagire l'inizio di una nuova età dorata per "Lost". Si sa che il serial durerà altri tre anni, si sa che è pace fatta tra gli autori e i produttori e inoltre il colpo di coda sul finale della terza stagione, con il flashforward di Jack che lascia intuire il ritorno a casa, dava nuova linfa per materiale del tutto inedito cui dare forma. Sembrava tutto giusto al posto giusto, se non fosse che proprio in quella stagione televisiva, nel 2006, lo sciopero degli sceneggiatori ha travolto tutte le produzioni americane. Anche "Lost" è stato rabberciato alla bell'e meglio per far fronte a questa agitazione e la quarta stagione, alla fine, ha avuto una durata ridotta a soltanto tredici episodi.
Se questo ha portato da una parte a concentrare in un minor minutaggio un condensato impressionante di eventi e azione, che ne fa a tutti gli effetti il capitolo più teso e movimentato di tutta l'opera, dall'altra molti dei probabili nuovi spunti sono rimasti solo in potenza, inespressi o tirati via molto velocemente. Sembra un particolare da poco, ma in realtà questa rinuncia dolorosa a metà del cammino si ripercuoterà sulle endemiche debolezze degli ultimi due anni. Ormai tutto è consolidato, dopo tre anni di grandi successi: i pregi e i difetti. L'universo lostiano si allarga e, come sempre, tutta la stagione, almeno relativamente agli eventi sull'isola, si fonda su un fil rouge primario: in questo caso, è la novità della nave, forse venuta a ripescare i naufraghi, forse a sfruttare l'isola.
L'elemento più interessante della stagione è probabilmente il capovolgimento del punto di vista fra le due ambientazioni cardine. L'isola non rappresenta più, necessariamente, il tempo presente del racconto, potrebbe a sua volta essere fatta dai flashback di chi è fuggito e ora fa i conti con i suoi demoni. Se non fosse che la stagione, per abbandonare alcuni protagonisti a un destino da comprimari, decide di alternare flash nel futuro (per coloro che sono riusciti a lasciare l'isola) a flash nel passato per chi invece non ce l'ha fatta. Questa alternanza, che pure regala momenti sorprendenti come nell'episodio dedicato a Jin e Sun (con flashback e flashforward che si incontrano e si intervallano fra loro), è però un campanello d'allarme: scarseggia la materia nuova da utilizzare per i sopravvissuti, resta da poco da utilizzare per scavare nel passato di chi è rimasto. E oltre a questo, la brevità della stagione porta con sé il grave vizio di accantonare per quasi tutta la durata la prosecuzione della mitologia di "Lost". Il soprannaturale, le coincidenze, i paradossi, tutto resta nell'ombra, sacrificato sull'altare dell'accelerazione del ritmo. Soltanto sul finale, quando Ben "sposterà" l'isola, dopo i suggerimenti ricevuti da John da un misterioso uomo nella capanna con le sembianze del padre di Jack, la potenza evocativa del mistero che aleggia sull'isola tornerà a farsi sentire. Alcuni momenti bellissimi, ma molti punti di domanda inevasi.
Ritorno al futuro
Nella quinta stagione la struttura tipica degli episodi scompare quasi completamente. A parte sporadiche eccezioni (gli episodi dedicati a Daniel e a Miles), tutto è messo in scena in modo più corale. Certo, resta un faro centrale nella narrazione di ogni puntata, ma fondamentalmente i flashback e i flashforward sono cose passate. Ora i flash sono tra chi è tornato, e per qualche ragione vuole tornare indietro, e chi è rimasto intrappolato sull'isola con le sue anomalie spazio-temporali. I due gruppi si muovono separatamente per tutta la stagione. C'è molto divertimento e imprevedibilità, certo, ma siamo anche di fronte a un anello sganciato dal flusso di eventi principale, una specie di parentesi, con qualche rivelazione decisiva, che gli sceneggiatori si sono concessi in attesa di capire bene come bisognava condurre fino al termine la serie.
Ormai, rispondere ai quesiti è impresa ardua. Lo diventa ancora di più quando i sopravvissuti che decidono di tornare si ritrovano catapultati indietro di trent'anni, su un'isola degli anni 70, con il progetto Dharma ancora operativo e la botola ancora da costruire. Una decisione stravagante, inspiegabile e molto avversata dagli spettatori. Cuse e Lindelof abbozzarono: dissero che, nonostante alcuni passaggi delle ultime due stagioni potessero apparire criptici, tutto era assolutamente frutto di un piano. L'impressione in realtà è che alcuni escamotage siano stati espedienti per riempire il minutaggio, che altre questioni siano state sbrigativamente risolte e che, cosa più importante, nulla degli eventi della linea narrativa principale fosse stato adeguatamente pianificato.
Persino l'immancabile colpo di scena che chiude l'ultima puntata, "L'incidente", è stavolta farraginoso, non immediato, agevolato soltanto da un breve flashback a inizio episodio sulla sfida fra Jacob e l'Uomo Nero. "Lost" appare in questa quinta stagione come una specie di linea nel tempo che ha perso la sua direzione, esattamente come i suoi protagonisti, spersi per motivi non chiarissimi trent'anni indietro. Una linea che ha proseguito dritta e sicura per tre anni, che ha poi preso qualche sbandata al quarto anno e che pare ora completamente deviata verso altri lidi.
Un'altra questione, legata molto alla scrittura delle singole puntate, riguarda la minor cura con cui i personaggi vengono messi successivamente in scena. Si è ormai persa una "disciplina" creativa, ci sono cambi di umore, di personalità, azioni imponderabili necessitate dalle esigenze superiori di trama, che esorbitano da ciò che farebbero i naufraghi così come li abbiamo conosciuti in anni e anni. Gli esempi si sprecano, ma ne scegliamo uno "di nicchia": il bellissimo personaggio di Daniel Faraday, cui gli autori sembravano aver assegnato un destino cruciale negli equilibri della storia, scompare di scena nell'episodio a lui dedicato con una svolta narrativa ai limiti dell'inversione a U. Da scienziato geniale e criptico, Daniel diventa uomo d'azione istintivo e irragionevole, fino alle estreme conseguenze. Risultato: la puntata risulta essere molto meno fondamentale di quanto aveva promesso. Lo stesso destino hanno gli episodi dedicati a Desmond, a Ben, a Miles. Mini-film, come piccole parentesi, in una storyline ormai discontinua e caotica.
Ogni risposta porterà ad altre domande
Ma il vero tonfo arriva quando proprio non doveva, nell'ultima stagione. Prima di tutto, le domande: chi è Jacob? Perché l'Uomo Nero lo voleva morto e voleva lasciare l'isola? Che cosa è la realtà alternativa che, all'improvviso, spunta fuori come nuovo percorso narrativo parallelo soltanto ora? E ancora, come fanno uomini e donne come Jack, Kate, Sawyer, Sayid e altri ancora, disegnati come il bilanciamento razionale della vicenda, sempre legati strettamente all'empirico e alla realtà tangibile, ad accettare così, supinamente, le ormai incontrollabili vicende fantastiche che accadono attorno a loro? "Ogni risposta porterà ad altre domande", dice la vecchia saggia madre di Jacob nell'episodio "Al di là del mare", una sorta di messaggio a tutti noi: "Inutile che vi chiediate tutti questi perché, il massimo che possiamo fare è questo, rassegnatevi".
Cuse e Lindelof diedero la colpa per la velocità con cui la sesta stagione ebbe un ruolo di "spiegazione riassuntiva" alle difficoltà di relazione con la Abc, all'impossibilità di programmare un dipanarsi del progetto complessivo fin da subito, che avrebbe costretto gli autori a improvvisare di anno in anno. Ma a conti fatti, e dopo aver completato la visione, è difficile non pensare che, comunque, alla base, si sia trattato di una creazione diventata di titaniche proporzioni per due nerd che volevano soltanto giocare al serial ideale. La nave di Charles Widmore, i salti nel tempo per riscrivere il proprio presente, in pieno stile "Ritorno al futuro", a posteriori sembrano più che altro i desideri irresistibili di chi non voleva privarsi di nulla e ha provato a far convivere tutto e il contrario di tutto. Ma la coerenza narrativa, a questo punto, è stata forse troppo sacrificata e il conto è arrivato puntuale al momento di tirare le fila del discorso conclusivo.
Particolarmente significativa è la puntata dedicata a Jacob e al suo fratello malvagio. Un lungo e continuo flashback, ambientato millenni addietro: un'occasione unica per rinforzare quell'apparato mitologico attorno all'isola, così prodigiosamente creato nei primi tre anni e successivamente andato in larga parte perduto. E invece, l'episodio si rivela essere una sorta di tacito incontro sotto mentite spoglie degli autori con il pubblico: "Ora vi diciamo come stanno le cose, così potrete godervi il finale senza farvi troppe domande". Ma il risultato è modesto: le risposte paiono posticce, la sceneggiatura della puntata scricchiola per la sua freddezza, gli elementi che compaiono sono del tutto nuovi e mai accennati nel corso della serie, indizio troppo evidente di un'invenzione ad hoc in vista della chiusura.
L'ultimo episodio, laconicamente intitolato "La fine", risente del peso di tutti i problemi strutturali dell'ultima stagione: sul versante action sull'isola, la vicenda manca di tensione, persino la scenografia hawaiana risulta stranamente fasulla, plastificata. Sul versante flashsideways alcune belle trovate di queste vite apparentemente piacevoli e romantiche si alternano a un vuoto di senso generale, a una specie di spin-off improvvisato alla bell'e meglio di una Lost 2.0, che trova la sua ragion d'essere, in modo molto affrettato a ogni modo, soltanto all'ultimo istante. Dunque si chiude con tanta amarezza una serie che, nel bene e nel male, ha segnato il futuro che stiamo vivendo. Citata da più parti, omaggiata sul finale persino da "Breaking Bad", con un'affettuosa inquadratura-fotocopia, "Lost" resta il non plus ultra della serialità, la dimostrazione che si poteva sfidare le abitudini dello spettatore medio e portarlo a vivere con partecipazione emotiva estrema le vicende di un gruppo di personaggi. Pur con tutte le sue indecisioni e i passi falsi della seconda metà del viaggio, la creazione di J.J. Abrams, Carlton Cuse e Damon Lindelof ha aperto la strada che ora i network stanno seguendo, regalandoci una nuova età dell'oro della produzione televisiva.
E anche per questo saremo eternamente grati a Jack, Kate, Sawyer, John, Ben, Desmond, Juliet, Daniel, Sun, Jin, Rose, Bernard, Charlie, Boone, Shannon, Daniel, Miles, Frank, Ana Lucia, Eko, Libby, Hurley, Sayid, Claire, Michael, Walt, Charlotte, Richard, Ilana e, perché no, anche Jacob.
Le stagioni, i voti
I - 8
II - 9
III - 9
IV - 7
V - 6
VI - 5