Un uomo e una donna si parlano dalle finestre del loro appartamento. Si sorridono. Escono in balcone per un aperitivo in cui mostrano l'affetto e l'intesa coltivati durante la loro lunga convivenza. Sarà l'ultima volta in cui abitano la stessa inquadratura.
"Vortex" replica e radicalizza il formalismo di Gaspar Noé attraverso l'espediente dello split screen. Due protagonisti, due parabole, due schermi, inevitabilmente due sguardi critici per analizzare l'opera più umana e avvicinabile del regista.
[Avvertenza: sebbene "Vortex" non sia il classico film concepito per offrire il colpo di scena, si informano i lettori che i saggi che seguono contengono anticipazioni della trama.]
L’inevitabile dualismo dello split screen
di Vincenzo Chieppa
La prima impressione che si manifesta durante e dopo la visione di "Vortex" è il deciso cambio di approccio di Noé rispetto alle pellicole che lo hanno consacrato quale regista tra i più controversi del cinema contemporaneo. Parrebbe davvero una totale abiura rispetto ai temi e ai contenuti delle sue opere precedenti, tanto da mettere in discussione la stessa identificabilità autoriale. O forse non è proprio così, perché in realtà sotto l’aspetto stilistico "Vortex" una identificabilità autoriale ce l’ha eccome. In particolare, in "Vortex" Noé esprime ancora una volta quell'ostinata e ossessiva ricerca dell’espediente formale macroscopico tipica del postmoderno.
Qui l’espediente è lo split screen, che appare poco dopo l’inizio della pellicola per accompagnarla ininterrottamente fino al termine dei suoi oltre 140 minuti di durata. Un espediente che Noé aveva già utilizzato in altre sue opere - da ultimo, con una certa insistenza, in "Lux AEterna" - ma mai con questa radicalità.
Il film inizia con un’ormai inconsueta aspect ratio fullscreen (1.33:1), con mascherino dai bordi leggermente arrotondati, costringendo lo spettatore a sospendere il giudizio in attesa di comprendere se l’espediente formale abbia o meno una giustificazione sostanziale.
Il fullscreen ha del resto finalità e significati ben precisi, come da ultimo dimostrato da "L'événement", che lo utilizzava per focalizzare l’attenzione sulla protagonista, estraniandola dal contesto e dando contemporaneamente l’impressione di una gabbia, uno spazio claustrofobico che la racchiude.
A un primo sguardo, in "Vortex" il fullscreen sembrerebbe fuori posto, quanto meno con riguardo alla scena che inquadra i due protagonisti (Dario Argento e Françoise Lebrun) distesi nel letto, al loro risveglio. Un formato panoramico sarebbe stato infatti più congeniale, permettendo di inquadrare la scena da un piano più ravvicinato mantenendo - e anzi esaltando - la centralità dei soggetti.
Ben presto, però, il fullscreen rivela la sua finalità di strumento prodromico alla genesi di un altro espediente formale, lo split screen appunto, che si forma con un artificio di post-produzione - e non dunque con il tradizionale stacco di montaggio - e che è composto da due riquadri uguali a quello iniziale che, affiancati, formano un più canonico widescreen (2.35:1).
Il quesito iniziale, sorto nell’osservare il formato d’apertura (l’espediente formale ha una giustificazione sostanziale?), si ripropone dunque con lo split screen, in particolare quando ci si rende conto che non si tratta di un escamotage effimero, visto che lo schermo diviso ci accompagnerà fino alla fine della pellicola.
Ora. È chiaro come quella di mantenere uno split screen per oltre 120 minuti sia una scelta estrema, concettualmente paragonabile a quella del (quasi) unico piano-sequenza di Sam Mendes in "1917". Una scelta tutt’altro che fine a se stessa, però, essendo sostenuta da solide basi sostanziali.
Per oltre mezz’ora lo split screen sembra avere, innanzitutto, una chiara finalità di rappresentazione di due realtà vicine ma separate a causa della demenza senile che ha colpito lei: mentre lui rimane a letto a dormire, lei si alza, va in bagno, gira spaesata per la casa, si prepara un caffè. Una scena che richiama quella da manuale del risveglio della servetta Maria in "Umberto D.". E che si richiami il neorealismo per un'opera di Gaspar Noé è già di per sé significativo di quanto "Vortex" possa costituire una decisa svolta nella filmografia del regista franco-argentino.
La scena è inquadrata con un piano sequenza (fittizio, come vedremo), interrotto da alcuni blink, battiti di ciglia che rappresentano l’artificio scelto da Noé per i raccordi. Tuttavia, è solo un’illusione di piano sequenza perché, in realtà, la scena è collocata all’interno di una sequenza ricca di stacchi di montaggio, nonché particolarmente lunga. Il segmento narrativo comprende infatti (i) la sveglia di lei e la preparazione per uscire nel quartiere, (ii) la sveglia di lui, (iii) l’uscita di casa di lei, (iv) lui che si prepara e la va a recuperare nell’emporio, (v) la ramanzina di lui a lei, (vi) i due che tornano alle loro occupazioni.
Come detto, qui lo split screen ha una funzione piuttosto chiara: appunto, quella di evidenziare due realtà vicine, ma separate, distanti, fotografate con il ricorso a delle oggettive che seguono o precedono il personaggio (fig. 1.a). Due realtà di difficile comunicazione, come mostra il lungo silenzio iniziale. Due realtà prossime ma isolate, che vivono ciascuno in una sua bolla (ecco spiegato il bordo leggermente arrotondato).
Artificio nell’artificio, Noé introduce l’espediente di uno switch tra riquadri in alcune determinate situazioni, generalmente quando i due entrano in contatto o si separano. Lo split screen non si ricompone nemmeno quando lei e lui si ritrovano a condividere la medesima inquadratura, come regola invece vorrebbe. I due punti di vista rimangono tali e non vengono meno per la sola vicinanza fisica dei protagonisti, confermando l’idea del regista di due mondi contemporaneamente connessi e disconnessi.
Eppure, questo costrutto teorico viene messo in discussione quando entrano in scena un terzo e un quarto personaggio, il figlio della coppia Stéphane e il nipote Kiki. L’entrata in scena di Stéphane, in particolare, sembra sconvolgere quella simmetria del profilmico, ancorché imperfetta, che aveva dominato la prima parte del film, quando i soggetti principali erano soltanto due. Sembra insomma stravolta l’idea della doppia bolla portata avanti dal regista. Le inquadrature di Kiki e Stéphane, che occupano insieme o da soli uno dei due riquadri, sono lì a dimostrarlo inconfutabilmente (fig. 1.b).
fig. 1
Se dunque l'interpretazione della scelta stilistica adottata da Noé non può essere quella dei due punti di vista dei protagonisti (o almeno non in modo tale da giustificare il ricorso all’artificio per l’intera durata del film) e se non ci si può richiamare nemmeno alla finalità canonica dello split screen (vale a dire la rappresentazione in contemporanea di due scene distanti – nel tempo o nello spazio – in quanto tali non riproducibili nello stesso frame), la logica – sempre che vi sia – va cercata altrove.
A tal fine vengono in aiuto una manciata di altre sequenze. Quella del dialogo a tre fra padre, madre e figlio, seduti sul divano. Quella analoga (e precedente) del dialogo a quattro (presente anche Kiki) al tavolo da pranzo. Quella subito successiva, sempre al tavolo, ma assente la donna. Infine, la sequenza in ospedale e in particolare, all’interno di essa, la scena in cui madre e figlio si consolano reciprocamente, fin quasi a ricreare una sorta di Pietà michelangiolesca. In tutti questi casi lo split screen sembra un espediente, a un primo sguardo, del tutto gratuito e privo di giustificazione.
Cominciando dall’ultima delle sequenze citate, quella dell’ospedale, va detto che in essa una giustificazione sostanziale è invero facilmente ravvisabile: le inquadrature utilizzano infatti piani e campi diversi, restituendo due sguardi, uno ravvicinato e uno distante, su uno stesso momento, quello del dolore (fig. 2.a).
Le tre sequenze dialogiche sono invece ben più difficili da decifrare, perché sono quelle che - più delle altre – sembrano relegare il ruolo dello split screen a strumento pretestuoso. I soggetti, infatti, sono sempre tutti potenzialmente inquadrabili dalla stessa macchina da presa (fig. 2.b). Non ci sono movimenti di macchina che giustificano, prima o dopo, lo sdoppiamento, né movimenti nello spazio degli attori inquadrati (e infatti il passaggio, nelle due sequenze al tavolo, dalla presenza di quattro persone alla presenza di tre persone è ottenuta con un’ellissi temporale).
fig. 2
È dunque evidente come il ricorso allo split screen diventi una scelta portata alle estreme conseguenze, un vero e proprio partito preso. Una scelta irrevocabile, indipendentemente dalla situazione oggettiva del profilmico, tanto da essere portata avanti fino alla fine del lungometraggio.
Quella di Noé è la scelta della duplicazione permanente e simmetrica del punto di vista, che non può che richiamare metaforicamente, o per suggestione analogica, la ripartizione del cervello umano in emisferi, la struttura dell’organo visivo (e dunque dello sguardo, che poi si ricompone proprio nel cervello per trovare una sua unicità), ma anche – e non secondariamente – le modalità di condivisione dello schermo, durante le comunicazioni a distanza, divenute sempre più familiari a seguito della pandemia (il film, del resto, è stato girato in epoca Covid).
I due punti di vista non sono necessariamente - come sembrava suggerire la prima parte del film - quelli di chi ha e di chi non ha le piene facoltà mentali, lei devastata dalla demenza senile e lui ancora intellettualmente attivo, tanto che sta scrivendo un libro che, guarda caso, vuole intitolare "Psyche". I punti di vista (mobili ma sempre duali) variano a seconda delle singole scene e sequenze (e talvolta delle singole inquadrature): l’innocenza fanciullesca contrapposta alla perdita dell’innocenza (Kiki vs. Stéphane, costretto ad affrontare i problemi di salute della madre – fig. 3.a); l’amore filiale e l’affetto coniugale (Stéphane vs. il padre – fig. 3.b); dovere e dolore (impresario delle pompe funebri vs. Stéphane – fig. 3.c); oblio e memoria (schermo nero vs. cerimonia funebre – fig. 3.d).
fig. 3
Una scelta estrema che pare però a tutti gli effetti una scelta di concezione della rappresentazione filmica, quasi come se essa non possa che assumere una connotazione necessariamente duale, alla stregua dei grandi dualismi che accompagnano le varie branche del sapere umano, dalla filosofia alla fisica delle particelle, alla psicanalisi.
Il dualismo come fondamento strutturale della conoscenza e della visione.
L’estetica dell’empatia e della crudeltà
di Giuseppe Gangi
"Vortex" replica e radicalizza il formalismo del cinema di Gaspar Noé, autore essenziale per comprendere alcuni stilemi del cinema (non solo estremo) della contemporaneità.
Il film si apre sull’immagine dell’anziana protagonista che apre la finestra e chiama l’attenzione del marito che si sta pettinando i capelli. Il montaggio, per mezzo di un classico raccordo di campo e controcampo, incorpora le due finestre ai due protagonisti, simbolo del quadro cinematografico da cui a breve saranno separati e imprigionati. Sono occhi che si guardano e si rispecchiano in un ultimo momento di prossimità e idillio prima della de-composizione che strisciando li separa di notte, staccando il quadro e provocando lo split screen che durerà fino ai titoli di coda (fig. 4). Ciascuno vede e vive solo dalla propria "finestra", dentro il proprio schermo.
fig. 4
Da sempre il linguaggio filmico di Noé lavora direttamente sulle risonanze psico-corporee degli spettatori. Come una buona parte dell’estetica che deriva dal postmoderno, anche la sua è un’estetica della "sensazione" che, in purezza, è uno "‘choc’ indifferenziato, istantaneo e puntuale", poiché "io sentirei nell’esatta misura in cui coincido con il sentito"[1]. In un’arte dalla natura autoritaria come il cinema, Noé produce interferenze e interpolazioni nel linguaggio audiovisivo che si traducono in un assalto sensoriale ai danni dello spettatore.
Lo split screen di "Vortex", pur mantenendo per larghi tratti la continuità spaziale, costringe lo spettatore a muoversi nello spazio dello schermo con lo sguardo per orientarsi correttamente tra i due protagonisti e i due quadri, con il timore di perdersi dei dettagli. Se è vero che "l’esperienza dell’arte e dell’umano nell’arte raffigurato è innanzitutto esperienza dell’eco dell’umanità che risuona in me e mi induce a simpatizzare" consapevoli che "la raffigurazione artistica dell’altrui sentimento è solo una rappresentazione", Noé è invece intenzionato ad allinearci alla realtà esperita dai personaggi così da subirla. Dalla collera furibonda di Cassell alla violenza umiliante perpetrata sulla Bellucci in "Irréversible", fino alla confusione e alla paranoia della comune di ballerini in "Climax", gli stati alterati della coscienza sono i luoghi esplorati dall’arte di Noé. Proprio il vorticoso piano-sequenza iniziale di "Climax" rappresenta una sintesi dell’estetica dell’autore, in cui lo spettatore è chiamato sì a ripercorrere "interiormente i movimenti dei danzatori su un piano virtuale, relativo al decorso psichico"[2] ma anche a subire delle sensazioni organiche, a vivere gli stati di eccitazione, nausea, follia collettiva.
L’empatia è una inevitabile conseguenza delle modalità estetiche del cinema di Noé ed è anche una delle ragioni per cui l'abusata etichetta di provocateur si attaglia al regista, in quanto lo spettatore viene realmente provocato e deve decidere se accettare o rigettare l’esperienza filmica. Noé non costruisce l’empatia ma è come se la imponesse, poiché quando guardiamo un film si produce un transfert emozionale tra attori e spettatori, i quali, costretti all’inazione causata dall’immobilità, dispiegano tutte le loro risorse di simulazione incarnata per metterla al servizio di una relazione immersiva con i personaggi e con la storia del film[3]. In questo meccanismo Noé si intromette inserendo elementi disturbanti a livello audiovisivo e terribili e perversi sul piano tematico-narrativo (incesto, stupro, omicidio, violenza, dipendenze, relazioni tossiche, malattie). In "Vortex" si declina nella vita di due persone anziane di cui una, affetta da demenza senile/Alzheimer, inizia ad andare gradualmente fuori controllo trascinando con sé il coniuge nella frustrazione di un incubo a occhi aperti. Il vortice del titolo è l’irreversibile sprofondare delle funzioni psichiche, ma anche il sospetto, la diffidenza a relazionarsi quando non si percepisce più la realtà allo stesso modo. Se in "Irréversible" il tempo distrugge tutto, in "Vortex" la vita è una breve festa che si dimentica presto e Noé mette in scena l’arco di questo disfacimento. L’uso di un regista amato come Dario Argento e di un’attrice come Françoise Lebrun, volto della Nouvelle vague di seconda generazione (per Eustache, Duras, Vecchiali) corrobora l’idea di un’affezione a cui siamo condannati.
fig. 5
La disciplina "neurocinematics" si è interrogata a fondo sul tema del controllo che un regista può esercitare sulla mente dello spettatore attraverso determinate azioni stilistiche e la disponibilità dello spettatore a lasciarsi controllare per godere appieno del coinvolgimento fisico del prodotto filmico: una delle ambizioni di Gallese e Guerra, nell’ormai proverbiale "Lo schermo empatico", è quella di dimostrare "che le forme di risonanza motoria che si instaurano tra lo spettatore e il film ricoprano un ruolo non secondario nell’articolazione di sistemi simbolici e di significato costruiti dal cinema"[4]. In "Vortex" lo split screen istituisce un transfert inevitabile con questi due personaggi inquadrati in terza persona e pedinati mentre abitano e agiscono il loro appartamento. La relazione intersoggettiva è intensificata dal prolungarsi dell’inquadratura (che, come detto, dà l’illusione di un pianosequenza) e, azzardiamo, dalla sua duplicazione. La scena del risveglio dei due coniugi ha una funzione propedeutica e possiede la tensione di un thriller trasmettendo allo spettatore stimoli di segno opposto: da una parte siamo ancorati al corpo ancora dormiente di Argento, dall’altra ci spostiamo dentro l’appartamento insieme a Lebrun. Si palesa presto l’incoerenza di gesti e azioni, come se la donna fosse disorientata da quegli ambienti non riconoscendoli più come suoi. Questa sequenza, come gran parte del film e del cinema di Noé, pertiene all’estetica della crudeltà, poiché l’immedesimazione richiede la nostra segregazione che si rispecchia (anzi è raddoppiata) dalla segregazione esibita dallo split screen. In "Vortex" la macchina da presa di Noé calibra con esattezza le forme di eccesso e di riconoscimento che, secondo Francesco Casetti, contribuiscono ad aggirare le nostre capacità razionali e al contempo di riconoscerci nell’esperienza filmica. La stimolazione prolungata in "Vortex" provoca una sorta di climax in cui la tensione diviene estenuazione: a tal proposito, basti pensare che dopo la morte di uno dei due, una parte dello schermo prima si dissolve sul primo piano del defunto e poi si spegne (fig. 5). Lo spettatore è dunque chiamato a un montaggio intellettuale: da una parte lo schermo nero, dall’altro la vita degli altri che continua. La cesura dello split screen diventa un banco di prova non solo per sperimentare col montaggio di cui lo spettatore è spinto a ricostruire raccordi, parallelismi, rime simboliche e reaction shot, ma anche per saggiare l’elasticità e la porosità del quadro (fig. 6). Alcune scene che presentano brevi momenti di serenità ritrovata sono tra i momenti più sinceri e affettuosi di tutto il cinema del regista e mostrano i personaggi invadere l’altra parte dello schermo. In modo straniante le mani di Argento si allungano per toccare la moglie, agganciando i due schermi in un efficace picco emotivo. Un movimento che rompe i confini tra i quadri e che genera una prossimità sia tra i personaggi che riescono a toccarsi, sia tra chi guarda e lo schermo, per mezzo di quella stimolazione aptica che riesce a "saldare ancora più profondamente l’esperienza dello spettatore alla ‘carne’ delle immagini, di suscitare sensazioni e memorie capaci di implementare la muldimodalità dell’esperienza filmica"[5] (fig. 7).
fig. 6
Se a lungo Noé è stato accusato di essere un regista concentrato soltanto su uno stile ipertrofico, il linguaggio così identificativo dell’autore forgia qui un’opera in cui il movimento e la presenza della macchina da presa, le simmetrie e le biforcazioni visive, l’impasto della fotografia di Benoît Debie che alterna naturalismo e cromatismi sulfurei, intendono far percepire i turbamenti psichici e il peso fisico dei corpi dei personaggi messi in scena. La fatica e il dolore della visione appartengono al dolore e alla fatica di un cinema che intende violentare lo sguardo dello spettatore pur restando in una dimensione domestica e realistica. Come all’inizio di "Un chien andalou", un gesto quotidiano come affacciarsi al balcone e guardare la luna si tramutano nella pulsione a squarciare l’occhio, precipitandoci nell’onirismo surrealista, "Vortex" ci presenta i due protagonisti mentre si affacciano alla finestra, per farci guardare dentro i grandi tabù occidentali: l’incubo del deperimento di corpo e mente, l’orrore della morte, il vuoto della tumulazione. Il cinema spesso cinico e crudele di Noé appare qui umano, sin troppo umano.
fig. 7
[1] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 35.
[2] A. Pinotti, Empatia. Storia di un'idea da Platone al postumano, Capitolo secondo. La sfera delle arti, 1. Mimica e fisiognomica, Laterza, Bari, 2011, edizione digitale.
[3] Cfr. V. Gallese, M. Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, p. 78. L’osservazione di azioni o comportamenti prodotti da individui conspecifici induce nel cervello dell’osservatore l’attivazione dei medesimi circuiti nervosi deputati a controllarne l’esecuzione, producendo una simulazione automatica definita simulazione incarnata. La teoria della simulazione è stata fondata dopo la scoperta dei neuroni specchio nel corso degli anni 90.
[4] Ivi, p. 92.
[5] Ivi, p. 233.
cast:
Dario Argento, Françoise Lebrun, Alex Lutz
regia:
Gaspar Noè
distribuzione:
Mubi
durata:
142'
produzione:
Rectangle Productions; Wild Bunch International; Les Cinémas de la Zone; KNM; Artémis Productions
sceneggiatura:
Gaspar Noé
fotografia:
Benoît Debie
scenografie:
Jean Rabasse, Nathalie Roubaud
montaggio:
Denis Bedlow
costumi:
Corinne Bruand