Rahim, giovane detenuto finito in carcere per debiti, trova una borsa piena di soldi e la restituisce invece di tenersela. Un gesto che gli vale il plauso del carcere, dei media, una raccolta fondi e un impiego.
O forse no. La storia è inventata. Una bugia che gli vale il disprezzo del carcere, dei media e la revoca dell’impiego. La raccolta fondi rimane, ma lui rinuncia ai soldi in favore di un condannato a morte. Un gesto generoso.
O forse no?
Tornato ai fasti dopo una parentesi tristanzuola, Farhadi compone il suo dramma sul fine equilibrio che lega la differenza alla ripetizione, esponendo Rahim – l’eroe – al riverbero infinito e inclemente dei media, che moltiplica e distorce, insieme ai fatti, i giudizi che li accompagnano. L’intenzione già traspare nell’incipit sontuoso, in cui Rahim scala la vertiginosa impalcatura che conduce alla tomba di Serse solo per scenderla immediatamente dopo. È solo la prima delle tante scale, scalinate, rampe e ringhiere che infestano l’inquadratura, salite e scese con la stessa velocità che accompagna l’ascesa e la caduta mediatica di Rahim.
Multipli e sovrapposti non sono solo i piani architettonici ma anche quelli di lettura, perché "Un eroe," seguendo uno schema tipicamente farhadiano, accumula strati narrativi a partire da un dilemma, proprio come l’ostrica genera la perla accumulando secrezioni concentriche sopra un ormai irrecuperabile granello di sabbia. Il granello in questo caso è il dilemma etico per eccellenza, e lungo l’arco di una sceneggiatura tesa e puntuale ci torna a domandare cosa sia una buona azione. Le risposte come al solito sono celate nell’ambiguità di una focalizzazione più che mai esterna, affidata a personaggi opachi di cui non comprendiamo né azioni né intenzioni. Farhadi si rivela socratico non solo nell’impianto ma anche nello stile, coinvolgendo lo spettatore in un incessante domandare su problemi che non ha l’illusione o la pretesa di risolvere.
Per quanto fumosa la questione morale, è invece trasparente il discorso politico sulla società iraniana – terzo piano di lettura. Una società vincolata e divisa da un meticoloso apparato di norme, cavilli, codici d’onore, dogmi religiosi e ipocrite contraddizioni, come il fatto che un condannato a morte possa acquistare la grazia. Sembra la Sicilia di Germi o la Roma di De Sica, contemplata dagli occhi di un padre ingenuo e un bambino innocente (Rahim e Siavash come Antonio e Bruno), invece è la periferica Shiraz (non più la cosmopolita Teheran), filmata attraverso una profusione di reti, grate, griglie, sbarre, barriere, sportelli. Altrettanto torbida è la colonna sonora, limitata a una soundscape urbana di traffico e voci, notifiche e suonerie.
L’amore di Farhadi per il paese natio, tormentato e non sempre corrisposto, apre al quarto piano di lettura, in cui la figura del protagonista e dell’autore si sovrappongono fino a confondersi. Più amato a L.A. che a Teheran, Farhadi si scrolla di dosso le opinioni contrastanti che rimbalzano di media in media, e dichiara che l’eroismo, se esiste, si trova nell’intimo recesso di un’integrità che rimane nascosta ai riflettori. Come quella di Rahim nel finale, che in un’inquadratura spavaldamente fordiana gusta nel silenzio e nel buio "una cosa piccola ma buona," una buona azione o una pastarella, mentre la libertà rimane oltre la soglia, luminosa e inaccessibile. Come nelle migliori tradizioni mitiche, da Edipo a Driver, "all’eroe manca un posto nella comunità per cui lotta". *
*(Yvonne Tasker, Spectacular Bodies: Gender, Genre and the Action Cinema, Routledge, 2000, 77)
cast:
Amir Jadidi, Mohsen Tanabandeh, Fereshteh Sadr Orafaie, Sarina Fahradi
regia:
Asghar Farhadi
titolo originale:
Qahreman
distribuzione:
Lucky Red
durata:
128'
produzione:
Asghar Farhadi Production, Memento Films Production, Arte France Cinéma
sceneggiatura:
Asghar Farhadi
fotografia:
Ali Qazi, Arash Ramezani
montaggio:
Hayedeh Safiyari
costumi:
Negar Nemati