Nel 2018 Luca Guadagnino si impegnò, in quella confusione interpuntata da grida di lesa maestà che seguì l’annuncio ufficiale, nel rifacimento di "Suspiria". Quel che ne trasse fu un saggio critico in forma di cinema, in cui, col medesimo piglio di Tom Stoppard che fa un buco nelle pareti di carta del castello di Elsinore e vi intrufola costantemente i poveretti Rosencrantz e Guildenstern, l’autore cercava costantemente un pertugio per infilarsi nelle trame dell’opera argentiana, osservandola, studiandola, dissezionandola, cogliendone i temi sottesi, i riflessi di contemporaneità, le deliziose lungaggini, le pulsioni squisitamente pacchiane e, in generale, tutto ciò che sta - o può stare - dietro sopra sotto al capolavoro del 1977. L’esito è, di fatto, quanto di più lontano vi sia dagli onirismi argentiani.
Ora, Edgar Wright, inseguendo la consueta pratica sbarazzina di ibridare i linguaggi secondo un principio che risponde alla sua sola soddisfazione di cinefilo, incolla in questo corpo multiforme, in questo Frankenstein di riferimenti e generi che è "Ultima notte a Soho", un incipit che rifà quello del film di Dario Argento, anziché con la pulsione analitica del critico, col divertimento dell'appassionato che ne ha amato i dettagli secondari.
Seguiamo, difatti, le vicende della giovane Eloise, che arriva a Londra per studiare in una prestigiosa accademia di moda. Il tassista che l’accompagna al collegio non è reticente quanto quello che scarrozzava Jessica Harper alla scuola di Friburgo, ma corrompe con un primo germe di inquietudine le oneste speranze della protagonista, per mezzo di allusioni oscene e sguardi assai importuni. Giunta allo studentato, Eloise - cui Thomasin McKenzie infonde una studiata innocenza nello sguardo - fa conoscenza con la nuova coinquilina in quel modo scintillante e competitivo con cui il cinema - e al citato "Suspiria" aggiungiamo le analoghe sequenze di convivenza collegiale in "Phenomena" - ci ha abituato a pensare questo momento. Il tutto ovviamente aggiornato ai piaceri, le musiche e gli svaghi dei giorni nostri. Da qui in avanti il film si stacca dal suo primo modello - che, pure, tornerà come riferimento di stile - e muta profondamente, di nuovo aderendo ad altri e differenti modelli.
Inibita dall’aggressività adolescenziale delle coetanee, Eloise si trasferisce in un fatiscente appartamento di Soho gestito da un’anziana signora (Diana Rigg) e qui sogna tutte le notti di vivere una vita parallela con le fattezze di Anya Taylor-Joy nella modaiola Swinging London degli anni 60, tra prime visioni dei film di James Bond con Sean Connery, seduzioni in locali notturni e la vitale musica di Tony Hatch, James Ray e Cilla Black a ritmare le fantasie spensierate di una intera generazione. Gradualmente, però, la ragazza si accorge di aver sviluppato un intenso legame psichico con quel condominio e con i suoi fantasmi, scivolando nell’incubo a spirale di una nevrosi che ripete in alcuni gesti l’ossessione di Catherine Deneuve in "Repulsion".
Come si vede, il film di Wright non difetta di ingombranti numi tutelari, ripetuti un po’ ovunque in articoli e interviste. Per non essere da meno li diciamo d’un fiato anche noi, uno dopo l’altro, come il catalogo di Leporello: Dario Argento, Roman Polanski, Mario Bava, Nicolas Roeg, Michael Powell, certe produzioni Hammer di fine anni 60, l’ultimo Michelangelo Antonioni. Da qui in poi la lista si fa dispersiva e intimamente cinefila: "Darling" (1965), con Julie Christie nei panni di una fotomodella che scopre nell’alternanza delle relazioni amorose un utile mezzo di scalata sociale; l’esordio di Kean Loach "Poor Cow" (1967); "Il collezionista" di William Wyler, il cui influsso si legge principalmente nella palette cromatica scelta per il film e nella presenza di un inquieto Terence Stamp.
Ebbene, che cos’hanno in comune questi riferimenti? Più che indicare un indirizzo critico, essi sembrano comporre un ritratto. Affiancati uno all’altro e visti nella giusta prospettiva, restituiscono, come in una fantasia borgesiana, il profilo di Edgar Wright, un cinefilo tanto appassionato da lasciarsi ispirare persino da film mai realizzati - su tutti quell’"Inferno" di Henri-Georges Clouzot, i cui frammenti e spezzoni giunti sino a noi e raccolti di recente in un documentario a cura di Serge Bromberg e Ruxandra Medrea dicono di un’opera psichedelica, sperimentale, al limite della video-arte, che certamente non ha mancato, con i suoi effetti ottici, di ispirare al regista alcuni tra i momenti più cromaticamente allucinati del film.
Dall’incalzante ritmo delle musiche alle sequenze di ballo, dai colori alle atmosfere, tutto parrebbe richiamare l’immagine di un "Midnight in Paris" voltato in chiave londinese. Tuttavia Wright non è affatto un nostalgico dei tempi andati, quanto un giovane cresciuto nell’epoca della destrutturazione dei sistemi valoriali operata da certa cultura postmoderna e del passato vede la faccia elegante e patinata dei locali alla moda tanto quanto l'umanità sordida e meschina che si muove al fondo di quei locali, fino alle camere d’albergo dove le relazioni di potere e di sfruttamento si svelano all’apice del loro squallore.
Operando in chiave anti-romantica, il regista deforma il modello della elegia alleniana in un racconto di ossessioni, sordidezze e malaffare. E di zombie, ovviamente. O, per meglio dire, di creature fantasmatiche dall'aspetto cadente e sgretolato caratteristico dei non-morti, le cui braccia forano pareti e pavimenti, a mezzo tra la più classica immagine del cadavere che riemerge dalle viscere della terra e l'allucinazione che inquietava la Deneuve nell'incubo polanskiano.
Non dubitiamo, in ogni caso, che l’interesse di Wright sia in egual misura ripartito tra il fascino della la Swinging London e la sua sordidezza. Certo, nel momento in cui ne emerge il lato più squallido e brutale, se ne va anche gran parte della leggerezza che aveva sino allora fatto volare il film, ma basta l’ingresso di Terence Stamp nella cantina fumosa di un locale per restituirci quelle atmosfere opprimenti e grigiastre di tanto cinema inglese degli anni 70. Il che ci conduce a un punto chiave: se Allen, ne siamo certi, avrebbe davvero voluto abitare gli anni 30 in quella Parigi ove fa muovere Owen Wilson, a Wright gli anni 60 interessano soprattutto in quanto possibilità di fare del cinema. Allen vorrebbe aver sedotto Zelda Fitzgerald, Wright, più modestamente, insegue il sogno di rimettere in scena Terence Stamp secondo i colori e le atmosfere che ha amato. E anziché viverle in prima persona, guardarle rivivere sullo schermo.
Il guaio, in tutta questa appassionata (ri/de)costruzione cinefila, è che talvolta l’amore per il cinema non basta per tenere assieme un film e "Ultima notte a Soho", nella seconda parte, patisce lo sforzo dell'autore che vorrebbe creare unicamente per eccesso di piacere personale, e tuttavia al contempo si frena nel tentativo di infondere un ordine - vale a dire un inizio, uno sviluppo e una fine - al cumulo di fantasie sin lì inscenate. Al netto di tutto, Wright è un regista che alle storie tiene e non vi rinuncerebbe che a malincuore. Così come tiene al gioco del cinema e alle possibilità di sperimentare con la sua grammatica.
Probabilmente a causa dell'ipertrofia di un racconto eccessivamente macchinoso, entrambi questi aspetti vengono parzialmente trascurati e mentre la sceneggiatura sembra in più parti cedere man mano che si avvicina il finale, il gioco digitale sugli specchi che unisce la protagonista al suo doppio, pur eseguito con perizia, non manca di lasciare un certo rimpianto per le più genuine sperimentazioni di montaggio che caratterizzavano i primi film di Wright.
Tuttavia, se anche in questa sarabanda di musiche e colori si rischia di smarrire la strada, rimane comunque un bel giro, che seduce e inquieta in pari misura, rilanciando altresì le possibilità di un cinema inteso come gioco sui propri materiali, laddove il più compatto, ma anche più convenzionale, "Baby Driver" rischiava di preludere a un periodo di stanca.
cast:
Matt Smith, Terence Stamp, Diana Rigg, Anya Taylor-Joy, Thomasin McKenzie
regia:
Edgar Wright
titolo originale:
Last Night in Soho
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
116'
produzione:
Complete Fiction, Working Title Films, Film4, Edgar Wright, Tim Bevan, Eric Fellner
sceneggiatura:
Edgar Wright, Krysty Wilson-Cairns
fotografia:
Chung Chung-hoon
scenografie:
Marcus Rowland
montaggio:
Paul Maschliss
costumi:
Odile Dicks-Mireaux
musiche:
Steven Price