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recensione di Stefano Santoli

In “Suspiria” deflagrano le pulsioni visionario-fantastico-grandguignolesche che percorrevano la filmografia di Dario Argento. È un punto di rottura: il regista si libera delle costrizioni del “whodunit”, dell’ambientazione urbana, e affievolisce la contestualizzazione contemporanea, di cui “Suspiria” conserva poche tracce. Giusto un paio: l’incipit all’aeroporto – che ha la funzione di strappare la protagonista Susy/Jessica Harper al presente per scaraventarla in una dimensione magica quasi atemporale – e lo sfondo di grattacieli della parentesi diurna (in un film quasi completamente notturno) in cui Susy va alla ricerca di spiegazioni razionali interloquendo con due scienziati.
Clamoroso successo internazionale, “Suspiria” non è il primo horror paranormale del cinema italiano: anche a volerlo distinguere dalla ricca tradizione del Gotico italiano, già diverse pellicole lo precedono nello sposare paranormale e contemporaneità. A partire almeno da “La goccia”, il migliore fra gli episodi de “I tre volti della paura” (1963) di Mario Bava (sempre seminale), diversi film avevano già innestato il soprannaturale nel presente, spesso proprio parlando di streghe: vale la pena ricordare “La strega in amore” di Damiano Damiani (1966). Senza dimenticare che urbano e contemporaneo era già “I vampiri” di Riccardo Freda (1957), convenzionalmente ritenuto il primo horror del cinema italiano moderno.
Tutto quel che Argento tocca, si trasforma in oro, e dopo aver lanciato il Giallo con l’enorme successo commerciale di “L’uccello dalle piume di cristallo” nel 1970, con ampi debiti verso pellicole di Mario Bava che di successo non ne avevano avuto (“La ragazza che sapeva troppo”; 1963, “Sei donne per l’assassino”, 1964), è adesso “Suspiria” a inaugurare una nuova stagione dell’horror in Italia, non solo per il suo regista. E non solo in Italia: è infatti grazie ad Argento che, nel 1978, Romero potrà produrre “Dawn of the Dead” (in Italia conosciuto come “Zombi”, rimontato da Argento con una diversa colonna sonora a cura dei Goblin). A ruota, passa all’horror Lucio Fulci, proprio dirigendo una pellicola che sfrutta il filone dei morti viventi (“Zombi 2”, 1979) che darà il via allo sfruttamento del sottogenere, parallelo a quello cannibalico: entrambi vivranno una breve stagione di gloria a cavallo del 1980 con pellicole di Fulci, Deodato, Lenzi, Massaccesi, ecc.


L’horror in Italia

La cinematografia horror italiana, a cavallo fra anni 70 e 80, si afferma come una delle più originali, influenti ed estreme nonostante il pregiudizio di critica e accademia. Vi trovano sfogo le pulsioni grandguignolesche che pervadevano il cinema non solo di Argento, ma di tutto il cinema di genere italiano, a partire dal Western. Il teatro Grand Guignol, fondato a Parigi nel 1897, era stato introdotto in Italia nel 1908, andando incontro a una pessima reputazione critica e infine a una rimozione non dissimile da quella riservata, in ambito cinematografico, alla ricchissima e insospettabile tradizione “orrorifica” che caratterizzò almeno tutti gli anni 10 del XX secolo [1]. Il Grand Guignol si propone di forzare le maglie della censura della propria epoca, ed è per sua natura politicamente scorretto. Non è un caso se è specialmente dopo il Sessantotto che – sul modello riconosciuto di Leone e più nascosto di Bava - l’exploitation, il macabro, il truculento, il corpo esibito e seviziato cominciano a permeare tutti i generi del cinema italiano “di serie B”, dal Western al Giallo al poliziottesco (e anche il cinema c.d. d’autore: si pensi a “Un borghese piccolo piccolo” di Monicelli e a “Gran Bollito” di Bolognini, entrambi dello stesso anno di “Suspiria”). L’horror vero e proprio risentirà dei limiti tipici di un percorso sotterraneo, non canonico, non organizzato e fortemente deficitario sotto il profilo produttivo (con la sola vistosa eccezione proprio di Dario Argento, che per “Suspiria” può permettersi un super apparato tecnico e il lusso di chiamare nel cast Alida Valli e Joan Bennett). Ma proprio  per questo sarà un genere libero: anzi, anarchico. È la marginalità quasi underground a fare dell’horror un esempio perfetto di cinema alternativo che, a fianco di quello “colto”, trovava soprattutto all’estero una parte della critica pronta ad accoglierlo, in un’ottica post-surrealista che celebra film anche deliranti, a volte “talmente sgangherati dal punto di vista narrativo da raggiungere la poesia proprio per tale strada paradossale e antiborghese”[2]. Del resto, in generale l’horror, a ogni latitudine e in ogni epoca, è caratterizzato da un approccio puramente visivo e da una libertà formale “che altri generi narrativamente più strutturati faticano a raggiungere” [3]. 


“Cinema puro”?

Non si può apprezzare “Suspiria” senza accogliere le sue slabbrature di sceneggiatura, che vanno a braccetto con l’irrazionalità di fondo e non domandano che di essere accettate per la loro sfacciataggine: siamo nel 1977, e a suo modo “Suspiria” - nonstante il suo sfarzo - è un film punk. Una delle critiche che non sempre a torto hanno accompagnato Argento riguarda lo scarso interesse per la logica narrativa: un difetto che si accentua dalla seconda metà degli anni 80, accompagnandosi al progressivo scemare del valore estetico dei suoi film. Ma “Suspiria” costituisce un punto di arrivo maiuscolo del rifiuto consapevole della verosimiglianza in nome di una visionarietà radicale. Sin dagli esordi, la razionalità drammaturgica era vissuta da Argento come un fardello: ciò che lo interessava era gestire i meccanismi della paura, eccitare la suspense ed esasperare l’emotività dello spettatore. In questo senso “Suspiria” si rivela perfetto: una pellicola composta praticamente solo di scene madri, nel realizzare la quale Argento si era riproposto di non girare un’inquadratura uguale ad un’altra e in cui a tenere vivo l’interesse dello spettatore non è il filo conduttore che lega le sequenze, ma il loro impatto emozionale.
Oggi è comune considerare le opere che vanno da “Profondo Rosso” a “Phenomena” le maggiori di Argento, ma all’epoca quelli che ora si ritengono pregi erano trattati alla stregua di difetti [4]. L'equivoco di fondo stava nel valutare il cinema di Argento con parametri di verosimiglianza, in base al rispetto dei canoni del cinema classico, o meglio di un’idea fuorviante della classicità “intesa come luogo di compattezza, coerenza assoluta” [5]. Con una superficialità critica tipicamente italiana, non si riteneva degno il cinema di genere della stessa attenzione estetica riservata al cinema d’autore: Argento veniva rapportato alla classicità, senza riconoscervi ascendenze moderne, laddove invece appare oggi evidente come il suo cinema viva della tensione fra classicità e modernità: “l’impulso centripeto della tradizione – risolvere il mistero – è contrastato da linee centrifughe e antinarrative, tipicamente moderne” [6].
A partire dalla fine degli anni 90, proprio mentre la critica mostra riserve sulle nuove opere di Argento, ecco la rivalutazione, secondo una prospettiva che rovescia le obiezioni di un tempo in punti di forza. Ecco riconosciuto l’autore di un “cinema puro”, non esente dal rischio di cadere nell’eccesso opposto e giustificarlo sempre e comunque, anche nelle prove più recenti e discutibili. Diventa possibile rilevare nel cinema di Argento l’ascendenza di Antonioni, per l’uso dei campi lunghissimi (gli esterni notte di “Profondo Rosso”) o per il ricorso al Giallo con disinteresse per la detection. In realtà, i gialli di Argento non hanno mai rinunciato allo scioglimento tradizionale (come invece in Antonioni), mentre l’insistenza per il particolare rivelatore (in genere visivo; acustico in “Suspiria”) è più indizio di una persistenza della classicità che non una reminiscenza di “Blow Up” (cui “Profondo Rosso” ammicca sin dalla scelta di D. Hemmings come protagonista) [7].
Al di là di tutto, restano oggettivi i debiti verso Mario Bava. Fra i tanti, la predilezione per una regia esibita, compiaciuta, sopra le righe, lontana dall’invisibilità e dalla classicità: il virtuosismo dei movimenti di macchina, l’uso espressionista del colore (portato ai massimi livelli proprio in “Suspiria”) sono elementi che Argento trae da Bava così come i guanti in pelle e la soggettiva dell’assassino o la serialità degli omicidi. Persino la debolezza delle sceneggiature ricorda quelle che Bava accettava di dirigere. Più le sceneggiature appaiono deboli, “più i film sembrano liberarsi delle necessità narrative in una continua invenzione visiva” [8], si è detto di Bava: l’affermazione si adatta alla perfezione al cinema di Argento e più che mai a “Suspiria”.


Un’estetica sontuosa

Tre sono gli elementi stilistici che fanno di “Suspiria” un’esperienza estatica. Ampiamente riconosciuti, è quasi pleonastico richiamarli: la fotografia di Tovoli, le scenografie di Bassan e le musiche dei Goblin. “Suspiria” è un film fantastico, irreale e antinaturalista sotto il profilo anzitutto estetico. Il lavoro di Tovoli sulla saturazione del colore è stato reso possibile grazie al ricorso al technicolor, già desueto (solo fortunosamente fu reperita una m.d.p. idonea). L’esasperazione dei colori, in particolare quelli primari (rosso, giallo e blu, come gli iris che aprono il passaggio segreto) è accentuata da espedienti inventivi come l’uso di drappi colorati in luogo delle gelatine. I colori aggrediscono lo spettatore come un killer la vittima, contribuendo a un assedio sensoriale in cui non è lasciato scampo [9].
La musica dei Goblin aggredisce lo spettatore come la fotografia di Tovoli: mancano in “Suspiria” scene di alleggerimento, e la partitura musicale – una pietra miliare della musica italiana – mantiene un costante livello di tensione, senza apici né variazioni improvvise come nella colonna sonora di “Profondo Rosso”. Allo scopo di evocare un’atmosfera esoterica, i Goblin utilizzano molta strumentazione etnica (chitarre orientali, tabla indiano, bouzouki greco), sovrapponendovi l’ elettronica; aggiungono vocalizzi stranianti, rumori prodotti da oggetti (bicchieri di plastica), e modificano accordatura e sonorità degli strumenti (il bouzouki è accordato a quarte; i timpani hanno le pelli allentate).
Quanto alla scenografia, la Tanz Akademie è un tripudio di Art Nouveau, come e più della villa di “Profondo Rosso”. I richiami pittorici sono espliciti: oltre a suggestioni del calibro di Klimt e Mucha (evocati per analogia anche da alcune acconciature, ad esempio quella di Olga), troviamo Escher e Beardsley, cui opere sono presenti in diversi ambienti del film. Le predilezioni di Argento sono esplicitate sin dal viaggio in taxi di Susy: l’indirizzo dell’accademia è EscherStraße, poi il taxi passa sotto un manifesto di Kokoschka, pittore richiamato già in “Profondo Rosso” (ci sembra infatti Kokoschka la fonte d’ispirazione dei dipinti di Francesco Bartoli, quelli del film del ’75, tanto celebri quanto misconosciuto ne è l’autore, che pure meriterebbe un apprezzamento se non altro per aver prodotto i dipinti più famosi del cinema horror). Particolarmente importante, ci torneremo, è Escher - del resto, l’accademia si trova su una strada che porta il suo nome - nella cui opera “Cielo e acqua” uccelli e pesci neri e bianchi sembrano suggerire la compenetrazione fra male e bene, smorzando l’apparente manicheismo del film. Le forze malefiche sono subdole, si avvalgono di chi meno si sospetterebbe: ne è apice il momento in cui un cane sbrana il padrone di cui è la guida, il pianista cieco interpretato da Flavio Bucci.
Quello di “Suspiria” è un male ubiquo, onnipresente, che permea tutto e non risparmia nulla. Le linee avvolgenti, sinuose dell’Art Nouveau richiamano la danza e la sensualità femminile, e però sono anche serpentine, come è appunto ambigua nelle tradizioni più oscurantiste la sessualità femminile (per Olga, “i nomi che iniziano per esse sono nomi di serpenti”). C’è poi un’eccezione che passa quasi inosservata: il grande atrio dell’edificio in cui trovano la morte Pat e Sonia è un esempio di Art Déco. Il Déco, con le sue linee geometriche è radicalmente diverso dal Nouveau, cui è successivo e di cui può essere considerato la risposta maschile [10]. È proprio lì che avviene la prima irruzione violenta del soprannaturale, attraverso la comparsa di un braccio irsuto che sfonda una finestra. Un arto chiaramente maschile.


Fiaba

L’accumulo è disinvolto, ma proprio per questo si rivela carico di un’inventiva sfrenata e provocatoria: è il pregio principale del film, che assimila riferimenti colti per tradurli in una visionarietà aggressiva e nuova, senza precedenti artistici non solo in campo cinematografico. Cinema puro? Senz’altro un’opera d’arte anzitutto sensoriale, meritevole di una lettura prima di tutto estetica come in ambito musicale. Ciò non vuol dire che quello di “Suspiria” sia un racconto privo di spessore. Si tratta di un rito iniziatico, una discesa agli inferi, un racconto di formazione. In questo senso il film è correttamente decodificato come fiaba. È noto che Argento avrebbe voluto che le protagoniste fossero bambine, e non potendo realizzare quest’idea, ha voluto alludervi in maniera subliminale ponendo le maniglie delle porte all’altezza dei volti, alla quale si trovano per i bambini.
Delle fiabe, “Suspiria” riprende l’alone di inverosimiglianza, e l’indeterminatezza dei fattori centrali della vicenda, oltre naturalmente alla struttura di base (una prova da superare, il confronto e la sconfitta dell’antagonista, la liberazione conclusiva). Della fiaba, “Suspiria” possiede anche gli elementi orrorifici (si è detto che la fuga di Pat nel bosco si ispira alla Biancaneve disneyana, ma se avete dimenticato quanto siano raccapriccianti le fiabe classiche in originale, leggetene una dei Grimm…).
La Tanz Akademie è un castello gotico, perso in mezzo ai boschi. Anche se le scenografie del Gotico sono rivisitate, la sostanza non cambia. E naturalmente, tutto ha inizio in una notte buia e tempestosa… In particolare, subito, all’inizio del film, un elemento perturbante è posto a separare la realtà quotidiana dal mondo fitto di misteri che si svelerà a breve: è il dettaglio sul meccanismo minaccioso della porta scorrevole, reso quasi letale dal montaggio: separa l’interno dall’aeroporto da un mondo esterno già in preda alle forze (sovra)naturali dell’acqua e del vento.
Nell’ultima sequenza, Susy deve scostare una tenda prima di incamminarsi nell’ignoto. Andare dritti al cuore del Male è la sola possibilità di fronteggiare il mostro nelle fiabe. Un corridoio che curva è sufficiente ad alludere all’archetipo del labirinto (ecco allora viene in mente Arianna, e il Minotauro da sconfiggere per liberare dal loro atroce destino i giovani a lui destinati). Ma prima che il rimando colto, a contare è qualcosa di profondamente basico, ancestrale (come ogni cosa che ha a che fare con la paura): dice Argento che da bambino era terrorizzato dal corridoio che portava alla sua cameretta. Amplificare le paure dell’infanzia è in fondo quanto si ripropone il cinema di Argento. In tutti i momenti che possono preludere a una morte violenta, Argento dilata la durata delle scene: nel momento in cui Susy si appresta a sbirciare la congrega delle streghe, il regista dilata l’attraversamento del corridoio quasi estendendone la lunghezza [11].


Rivincita femminile

Vi sono, in “Suspiria”, riferimenti non tanto sfumati al nazismo: Miss Tanner con i suoi modi da gerarca nazista; la Königsplatz di Monaco, la piazza dei tre templi dove muore il pianista. Ma sono quasi orpelli. “Suspiria” mette in scena soprattutto uno scontro generazionale. Come in “Rosemary’s Baby”, tanto più sono decrepiti gli agenti del Male, tanto più sono potenti. Queste vecchie streghe non vogliono cedere le armi: Helena Markos sembra aver stretto un patto mefistofelico per l’immortalità, anche se immonda e putrescente (notare: il patto col diavolo era già stato declinato nel cinema italiano in chiave femminile da Nino Oxilia, nel 1917, in “Rapsodia Satanica”).
Nel Gotico italiano, la figura della “vergine” si sovrapponeva e confondeva con la “vampira” (incarnate entrambe nella doppiezza dei ruoli affidati a Barbara Steele); al contrario, qui i ruoli si polarizzano. Nell’universo tutto al femminile di “Suspiria”, la vittoria dalla virginea Susy non rappresenta però banalmente il trionfo del bene: è una rivincita della giovinezza in un redde rationem tutto femminile dove il culto della Markos porta su di sé la tradizione secolare che vuole vedere nella donna-strega la fonte di ogni corruzione. È una rivincita femminile su una tradizione dietro la quale, ancora nel XX secolo, si nasconde la paura maschile della donna e della sua emancipazione in una società in rapida trasformazione. Anche nel Gotico italiano degli anni 60 se ne avvertono tracce, in una misoginia magari involontaria ma non dissimile da quella che si celava nella demonizzazione della femme fatale nel Noir americano degli anni 40. Il copione di “Suspiria”, che tanto deve all’apporto di Daria Nicolodi, s’incarica di fare pulizia di queste scorie [12].
La sceneggiatura si fa beffe dell’eroe maschile: oltre al pianista cieco che muore azzannato dal proprio cane, c’è solo un servo muto che sembra il mostro di Frankenstein e il ballerino interpretato da Miguel Bosé, efebo senza rilievo: non sarà lui il principe della fiaba. Non c’è nessun principe: la protagonista deve vedersela da sola con il mostro. Diventare adulta senza alcun aiuto maschile.


La seduzione del Male, la colpa della curiosità

Il braccio mostruoso che improvvisamente sfonda il vetro della finestra infrange ogni aspettativa verosimile, preparandoci alla possibilità che la minaccia arrivi dai luoghi meno attendibili. È l’approdo estremo di una pratica avviata sin dall’esordio di Argento: si inserisce, cioè, nel solco della ricerca costante per punti di vista sorprendenti, immagini inedite, arditezze che si avvalgono spesso di innovazioni tecnologiche (come la Louma in “Tenebre”) allo scopo di mostrare l’inedito. Così è per la morte del pianista: l’aquila sembra animarsi e la m.d.p. spicca il volo in una mirabolante soggettiva aerea. Ci si aspetta un attacco dall’alto e invece Argento ci destabilizza con l’attacco a sorpresa da parte del cane: una volta ancora, le cose vanno diversamente dalle attese e il pericolo arriva da dove meno era probabile.
Punti di osservazione innaturali o impossibili pervadono il film, tutte possibili soggettive di un killer che potrebbe collocarsi in qualsiasi luogo: “percepire il pericolo è già esserne vittime. La ragazza coglie qualcosa di strano attorno a sé, si guarda in giro per capire, è incuriosita oltre che impaurita. Lo sguardo come tentazione, e come perdizione” [13]. L’accademia è sospesa su una dimensione irrazionale: un dipinto ispirato a “Relatività” di Escher, che campeggia nell’anticamera del covo delle streghe, allude a una dimensione in cui sono stravolte le regole della fisica e della geometria. È l’irrazionale che prende il sopravvento: il Male disorienta, ma affascina. Seduce. Il film non trova il suo senso con la sconfitta del Male; lo trova da subito nella grandiosità estetica in cui si celebra il fascino che il Male esercita ai nostri occhi.
Per essere puri non basta essere vergini. C’è il peccato originale: la voglia di conoscere, la pulsione scopica. La curiosità è più forte della paura. È vero specialmente per Susy. Per un inconscio retaggio giudaico-cristiano, la curiosità è una colpa. Susy, come tutti i protagonisti di Argento, “apre ciò che non doveva aprire, guarda ciò che non doveva guardare, spia ciò che doveva restare segreto” [14]. Allora, è poiché non ha guardato fino in fondo che si salva: il sabba finale, infatti, è solamente intravisto, da noi come da lei - notevole il senso della misura con cui è reso, in sottrazione: sorprendente in un film tutto giocato sull’accumulo. Certo, l’invisibile fa più paura perché lasciato alla nostra fantasia. Ma il mistero del Male rimane impenetrabile. L’eroina si affaccia appena sull’abisso. Parafrasando Nietzsche, non ci guarda dentro, e perciò non ne viene corrotta. Si può dire lo stesso di noi?


Note

[1] Si veda ampiamente S. Venturini, “Horror italiano”, Donzelli, 2014.
[2] R. Venturelli, “Horror in cento film”, Le Mani, ed. aggiornata 2010, 22.
[3] R. Venturelli, cit., 27.
[4] Estratti delle recensioni dell’epoca, nel contesto di un giudizio negativo: “tutto è urlato dal principio alla fine” (E. Comuzio, Cineforum 164, 317), “uno stile tutto di superlativi e di esclamativi (G. Fink, Bianco&Nero, gen-feb 1977, 107). Ancora ne recano traccia i Dizionari di Cinema, come la storica scheda del Morandini che assegna al film 2 stelle su 5.
[5] C. Bisoni, “Dal rifiuto alla celebrazione. Dario Argento e la critica”, in V. Zagarrio (cur.), “Argento vivo”, Marsilio, 2008, 57.
[6] Così A. Pezzotta, “La modernità imperfetta”, in “Argento vivo”, cit., 87.
[7] Sull’ascendenza di Antonioni si veda ad es. R. Menarini, “Dal thriller all’horror. Tra modernità, postmodernità e manierismo”, in G. Carluccio, G. Manzoli, R. Menarini (cur.), “L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento”, Lindau, 2003.
[8] R. Venturelli, cit., 28.
[9] Sul colore in Argento, si veda: L. Venzi, “Qualcosa di Rosso. Il colore”. In Argento vivo, cit., 228.
[10] In questo senso D. Ottini, V. Del Corno, “Suspiria di Dario Argento”, Un Mondo A Parte, 2011, 113 ss.
[11] Sulle asincronie del tempo del racconto e tempo della storia, vedi C. Peperoni, “A tempo di morte. Suspiria”, in “Argento vivo”, cit., 291 ss.]
[12] Si deve alla Nicolodi l’interesse per l’occulto, l’esoterismo, anche l’Art Nouveau (l’ispirazione stessa del film sembra derivare da un ricordo infantile dell’attrice, qui sceneggiatrice, legato alla nonna che aveva studiato in una scuola di danza tedesca all’interno della quale si narrava si celebrassero riti di stregoneria). Argento tese a minimizzare i contributi della compagna arrivando a estrometterla dai titoli di “Inferno”, il film successivo di notevole valore (ma quasi oscurato dal fulgore di “Suspiria”), al quale invece, a detta della Nicolodi, lei pure contribuì.
[13] R. Pugliese, “Dario Argento”, il Castoro cinema, 2011, 62.
[14] G. Canova, “L’epifania del diavolo. Su alcune radici cattoliche del cinema di Argento”, in “Argento vivo”, cit., 74.


12/02/2019

Cast e credits

cast:
Jessica Harper, Alida Valli, Stefania Casini, Joan Bennett, Flavio Bucci, Miguel Bosé, Eva Axen, Udo Kier


regia:
Dario Argento


durata:
98'


produzione:
SEDA Spettacoli S.p.A.


sceneggiatura:
Dario Argento, Daria Nicolodi


fotografia:
Luciano Tovoli


scenografie:
Giuseppe Bassan


montaggio:
Franco Fraticelli


costumi:
Pierangelo Cicoletti


musiche:
Goblin


Trama

Suzy Banner, una ragazza americana, arriva in Germania per iscriversi alla famosa Accademia di danza di Friburgo ma la sera del suo arrivo, sotto un diluvio, cominciano ad accadere eventi inspiegabili, e si avvia una sequenza di raccapriccianti omicidi.