Da una parte il mondo della disoccupazione e del precariato, dall’altra quello degli altri. Altri che - volutamente - non vengono classificati in una categoria specifica. Affinché la distinzione sia incisiva, infatti, Emmanuel Carrère sceglie di non denunciare in modo specifico una professione, ma l’idea (o il pregiudizio) che c’è dietro. Ai due poli opposti ci sono Marianne (Juliette Binoche, unica attrice professionista di tutto il film), una scrittrice che ha deciso di lavorare a un romanzo che affronta la realtà del precariato francese e Christèle, madre single e addetta alle pulizie. È proprio quando Marianne diventa un’"infiltrata" che riesce a toccare con mano i ritmi massacranti e le umiliazioni che subisce chi è costretto a quella vita.
Emmanuel Carrère dipinge in modo brutale una realtà inconfutabile. Retribuzioni minime, nessun sussidio o difesa sindacale, e - soprattutto - nessuna pietà. Nessun rispetto, nessuna considerazione. Quella che viene raccontata, ovviamente, è solo una parte delle diverse storie di emarginazione sociale. Di incarichi ingrati, sporchi e faticosi che non vengono ricompensati adeguatamente ce ne sono molti e il regista non calca la mano per insistere su una categoria più svantaggiata rispetto ad altre. Perché, pensandoci, se si facessero differenze su un lavoro rispetto a un altro, verrebbe meno il senso della pellicola. "Tra due mondi" è una finestra (come quella che divide Marianne e Christèle mentre compiono un’azione banale come fumare una sigaretta) sul precariato, è un’opera che sottolinea quanto si debba lottare con la vergogna per continuare a lavorare. La stessa vergogna raccontata, ad esempio, dai fratelli Dardenne in "Due giorni, una notte", o nel più recente "Tori e Lokita"; da Sergej Michajlovič Ėjzenštejn in “Sciopero!”, ambientata nel contesto precedente alla Rivoluzione d’Ottobre. Da Elio Petri - naturalmente - nel cult "La classe operaia va in paradiso", da Jean-Luc Godard in "Crepa padrone, tutto va bene" (il cui titolo originale è "Tout va bien"), da Martin Ritt in "Norma Rae" e - naturalmente, ancora - da Ken Loach in "Riff Raff". Il comune denominatore di tutte queste pellicole è la capacità di trovare la forza di reagire senza umiliarsi, rispettando - dopo aver prima riconosciuto - il proprio valore e la propria persona. Il punto, però, è che rispettare se stessi in un mondo infetto come quello in cui viviamo è una lotta estenuante. Un mondo di alieni, come quello raccontato da Ugo Gregoretti nella sua opera (dimenticata?) "Omicron", in cui si suggerisce l’idea che, per aumentare i ritmi produttivi, sarebbe utile annullare la coscienza morale e installare quella operaia. Non possedendo facoltà intellettive, infatti, le persone diventerebbero operai modello. La metafora di Gregoretti, sviluppata sotto forma di film di fantascienza, rende evidente come il meccanismo perfetto di produzione consista nel rendere gli uomini al pari di creature alienate e mercificate (inferme, praticamente inesistenti), così da aumentare il fatturato.
Viene da chiedersi, allora, perché questo sistema funzioni ancora. La verità su cui Emmanuel Carrère insiste - senza imporla - è che questo meccanismo fa leva su un bisogno più forte di qualsiasi forma di umiliazione: lavorare. E quando si ha fame si lavora persino in una condizione di invisibilità. La scelta di Marianne di infiltrarsi in questo mondo suggerisce, poi, altre riflessioni. Si pensa spesso che chiunque si infiltri in realtà particolari (come è avvenuto, ad esempio, nel romanzo della giornalista Nellie Bly "Dieci giorni in manicomio"), lo faccia con il solo e unico scopo di far luce su realtà poco conosciute o per dare voce a chi non è nella condizione di farsi valere, come nel caso degli internati. Se provassimo, però, a immedesimarci nella figura di cui si vuole raccontare - come, in questo caso, un addetto alle pulizie - che sensazione proveremmo sapendo che qualcuno ha ricoperto quel ruolo solo per finzione? Con lo scopo di denunciare, ma pur sempre per finzione, offendendo (in parte, sempre provando a immedesimarsi) chi, invece, a quella condizione è costretto?
Emmanuel Carrère, adattando per lo schermo il romanzo-inchiesta della giornalista Florence Aubenas "La scatola rossa", si discosta dalla narrazione strettamente documentaristica per indagare a fondo le emozioni. Per soffermarsi sulla differenza tra chi ha accesso ad alcune possibilità, chi prova a costruirsele da solo e chi, ancora, pur provando a scovarle da solo non riesce comunque a uscire da una condizione di precarietà. Non si tratta di privilegi, o meglio, non si tratta solo di privilegi. Ci sono situazioni e condizioni irreversibili, lavori che non si possono rifiutare, umiliazioni che ci si ritrova a subire pur di sopravvivere. Se tutto è merce, la risposta può essere solo la distruzione della merce in quanto tale? In fondo, Carrère si è sempre (im)posto - sia come scrittore che come regista - nella condizione di indagare ingiustizie e diseguaglianze, analizzando i diversi punti di vista (intesi anche come ruoli, oltre come prospettive), soprattutto quelli più scomodi.
cast:
Juliette Binoche, Léa Carne, Hélène Lambert
regia:
Emmanuel Carrère
titolo originale:
Ouistreham
distribuzione:
Teodora Film
durata:
107'
produzione:
Cinéfrance Studios, Curiosa Films, France 3 Cinéma, Studio Exception
sceneggiatura:
Emmanuel Carrère, Hélène Devynck
fotografia:
Patrick Blossier
scenografie:
Julia Lemaire
montaggio:
Albertine Lastera
costumi:
Isabelle Pannetier
musiche:
Mathieu Lamboley