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recensione di Claudio Zito
Quando ho iniziato a fare film, egli faceva le cose migliori in giro. Sembrava possedere
una illimitata sorgente di creatività. Tutti noi alla Bbc eravamo dominati da lui.
I suoi film possedevano un'autenticità e una poesia che ispirava e caricava
(
Stephen Frears)

La giusta misura di Ken Loach. Autore in controtendenza rispetto alle mode del momento, si afferma alla fine degli anni 60 mentre il Free Cinema inglese è in fase di declino. Ma la gloria dura poco: per il cinema solo tre film ("Poor Cow", "Kes", "Family Life"), che ottengono una vasta eco nei festival e nei cineforum, ma non gli assicurano una carriera stabile e prolifica. L'infaticabile regista di Nuneaton si dedica con profitto alla televisione, medium con cui si è fatto le ossa - provvidenziale sarà poi l'approdo al neonato Channel Four all'inizio degli anni 80 - i problemi dell'Inghilterra sono molteplici e crescenti, l'impegno politico del Nostro, sorretto dal saldi ideali trotzkisti, è un dovere morale. L'appuntamento col cinema è dunque rimandato a partire dalla fine dei 70, ma Loach fallisce le poche occasioni a disposizione girando film che deludono pubblico e critica, oltre a infastidire i patrii distributori per l'alto contenuto polemico: si va dalla carriera militare come risposta alla disoccupazione giovanile di "Uno sguardo, un sorriso", alla questione irlandese de "L'agenda nascosta". Solo qualche buongustaio che, se si parla di cinema, non può che risiedere in Francia, capisce che Loach non è un autore finito. Anche perché il cinema negli anni 80 in Inghilterra è rifiorito, e uno dei cineasti più importanti del paese non può stare a guardare.

È proprio in corrispondenza del declino di quella che viene definita British Renaissance che Loach risorge dalle ceneri come la Fenice. Le ceneri sono quelle di una nazione stremata dalle politiche reazionarie e classiste di Margareth Thatcher. La fine del thatcherismo è sicuramente uno dei fattori che consentono a Ken Il Rosso di procedere a una distaccata rielaborazione critica, abbandonando l'incontrollata furia che gli toglieva lucidità nel raccontare gli eventi in tempo reale. Un secondo fattore decisivo è l'incontro con Bill Jesse, scrittore con un passato da gran faticatore, sulle navi, sulle impalcature, in fabbrica. Jesse dà un decisivo contributo nel tenere lontana la poetica di Loach dai rischi dell'ideologia, ancorandola al concreto della vita reale dei lavoratori, fatta di lacrime e sangue - specie di questi tempi - ma anche di risate, di affetti, di piccole cose quotidiane. Lo scrittore non lo saprà mai, morirà a quarantott'anni, prima che la post-produzione del suo unico film venga conclusa, ma la sua opera segnerà una svolta decisiva per la carriera di colui che diverrà uno dei maggiori registi degli anni 90, ma che rimarrà contrario alla cosiddetta "politica degli autori", attribuendo importanza cruciale al lavoro di squadra, e in particolare a quello dello sceneggiatore. Chi firmerà gli script dei film successivi - spesso sarà il sodale Paul Laverty - dovrà molto alla lezione della meteora Bill Jesse, affrescatore di un mirabile spaccato di miseria economica e ricchezza umana che andiamo brevemente a descrivere.

Una casa invasa dai topi, da disinfestare. Un cantiere edile a Tottenham, Londra. Un padrone molto cattivo, a cui "il buco dell'ozono non interessa se non interferisce con gli affari" e che ammette di essere diventato cinico, con gli anni. Il welfare aziendale pressoché azzerato: l'assicurazione è a carico dei lavoratori. Un proletariato senza coscienza (quindi non una classe in senso marxiano), "lumpen". Gentaglia (riff-raff), secondo la vulgata dominante. Che parla "un cazzo di linguaggio sboccato", "fannulloni" (in effetti appena possono "cazzeggiano" sperando di non essere visti) secondo lo stesso padrone, che predica dal pulpito del suo comodo ufficio, sorseggiando un caffè. Secondo Loach, che opta per un efficace titolo antifrastico, persone le cui vite meritano di essere raccontate e osservate con uno sguardo per lo meno affettuoso.
Un protagonista, Stevie (Robert Carlyle), che dorme in strada, che trova lavoro presso il cantiere e che, con l'aiuto dei colleghi, occupa un appartamento. Se la solidarietà di classe latita, quella umana non manca. E se la situazione è a dir poco complicata, i personaggi non si piangono addosso, si divertono e scherzano tra loro, vige una serena rassegnazione. Il dibattito politico e sindacale, portato avanti soprattutto da Larry, unico lavoratore "cosciente" che pagherà con il licenziamento in tronco, è confinato a poche sequenze, prevalentemente nei primi dieci minuti. Questa commistione di seriosità e commedia, sguardo sulla società e attenzione al privato, già sperimenta negli anni precedenti, a loro modo, da Stephen Frears e Mike Leigh, è per Loach relativamente inedita, ma diventerà un suo inconfondibile marchio di fabbrica.

C'è anche spazio per la vita sentimentale di Stevie, che trova in Susan, uno dei personaggi più autentici e toccanti di tutto il cinema di Loach, una compagna appassionata e problematica. La ragazza, cantante dilettante senza talento né grinta, con la testa persa tra oroscopi e reiki, depressa che ha già tentato il suicidio, porta nel film, oltre a un carico di fragilità, sensibilità e dolcezza (memorabile la festa di compleanno da lei improvvisata), il delicato tema della tossicodipendenza, particolarmente sentito in un'epoca di enorme diffusione dell'eroina.
La narrazione prosegue felicissima, tra quel piccolo capolavoro di humor nero che è la sequenza dello spargimento delle ceneri, al funerale della madre del protagonista, e la vicenda un po' didascalica ma di grande intensità del figlio di immigrati che vuole "tornare" in Africa dove non è mai stato e muore cadendo dal ponteggio, preceduto dai dépliant sul Continente Nero. Sequenza che, sommata ai tanti piccoli drammi antecedenti, spiana la strada alla catarsi luddista dell'infuocato finale, col cantiere dato alle fiamme dal protagonista e i topi che fanno ritorno. Uno dei pugni allo stomaco meglio assestati in oltre quarantacinque anni di onorata carriera.

C'è poco da aggiungere. Il cinema inglese degli anni 90 deve tutto alla trilogia di perle sull'Inghilterra contemporanea inaugurata da "Riff Raff", proseguita con l'altrettanto fondamentale "Piovono Pietre" e conclusa con il potentissimo "Ladybird Ladybird". In seguito Loach, ormai internazionalmente affermato, pur mantenendo sempre un piede nell'odierna Gran Bretagna (fateci caso quando guardate i suoi film "esotici") getterà un ponte in altri luoghi e altre epoche ("Terra e libertà", "La canzone di Carla"). Ma intanto il germe seminato a partire da "Riff-Raff" germoglierà, con esiti a corrente alternata, in film firmati da colleghi meno dotati (un ottimo esempio è "Grazie, signora Thatcher" di Mark Herman). Robert Carlyle, qui al suo primo ruolo importante, diventerà l'attore simbolo di un'intera generazione di spiantati, fino al successo planetario di "The Full Monty".
Senza con questo voler necessariamente escludere filiazioni apparentemente illegittime, magari nell'Europa continentale: i Dardenne, Cantet, Kechiche... Insomma il cinema contemporaneo, se è politico nell'accezione più nobile del termine, è quasi sempre loachiano.
16/08/2013

Cast e credits

cast:
Derek Young, Ricky Tomlinson, Emer McCourt, Robert Carlyle


regia:
Ken Loach


titolo originale:
Riff-Raff


distribuzione:
Columbia Tri-Star Films


durata:
95'


produzione:
Parallax Pictures per Channel Four Film


sceneggiatura:
Bill Jesse


fotografia:
Barry Ackroyd


scenografie:
Martin Johnson


montaggio:
Jonathan Morris


musiche:
Stewart Copeland


Trama
Stevie arriva a Londra da Glasgow dopo un "intermezzo" passato in galera. A Londra trova lavoro in un cantiere. Trova un po' di solidarietà, un alloggio abusivo in cui vivere e anche una mezza fidanzata, aspirante cantante e tossicodipendente. Poi, il giorno in cui un suo compagno cade dall'impalcatura per colpa delle insufficienti misure di sicurezza, trova anche il coraggio di dare fuoco al cantiere.