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5.5/10

Il primo lungometraggio finzionale dei fratelli Dardenne si intitola “Falsch” e risale al 1987. Da allora hanno sviluppato una forma registica profondamente personale e riconoscibile, diventando due degli autori più importanti del cinema mondiale contemporaneo, grazie anche alla consacrazione sancita da due Palme d’oro e un Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes.

Capolavori come “Rosetta” o “Il ragazzo con la bicicletta” fanno parte di un cinema pienamente modernista, intendendo con questo termine il fatto di realizzare opere aperte, in grado di mettere in discussione il modo classico di concepire la narrazione intesa come intreccio, cioè come catena di eventi legati da un rapporto di causa ed effetto e dotata di una conclusione chiara e definita. Le storie dei loro capolavori presentano una narrazione frammentata, caratterizzata da deboli legami fra gli eventi e incentrata unicamente sul personaggio, tanto da farlo diventare il vero epicentro della drammaturgia. Il suo sguardo, il suo corpo e spesso la sua nuca (si ricordino le splendide inquadrature ravvicinate de, ad esempio, “Il figlio”) diventano il fulcro di un’azione registica che si sostituisce alla sceneggiatura, in grado di «non costruire un intreccio, non raccontare, non organizzare uno svolgimento» [1]. A proposito di “Rosetta”, i due registi, infatti, parlano del desiderio e della necessità di «stare con lei e vedere come va verso le cose e come le cose vengono a lei. Le situazioni giungano, sopraggiungano senza che siano preparate, come eventi imprevedibili» [2]. Si tratta della lezione di Rossellini adattata alle tecnologie disponibili dalla fine degli anni Ottanta: la camera a mano e i macchinari leggeri consentono ai Dardenne di pedinare i personaggi, dando luogo al loro marchio di fabbrica, ovvero i piani sequenza estremamente nervosi, costituiti da inquadrature strettissime, quasi incollate ai corpi degli attori, e tremolanti perché finalizzati a registrarne ogni più piccolo movimento e accadimento. In questo modo è possibile ai due di creare dei film che vivano dello stesso respiro dei personaggi che raccontano, in simbiosi con questi ultimi e basati interamente su di loro.

È quindi il movimento nervoso dei protagonisti a dare luogo tanto alla storia raccontata che alla natura più intima della regia dei Dardenne. Purtroppo questa perfetta armonia fra forma e contenuto sta venendo meno nei loro ultimi film, segno della stanchezza di un metodo immutato e reso ripetitivo dalla mancanza della necessaria evoluzione, indispensabile per l’inevitabile scorrere del tempo. “Tori e Lokita”, infatti, mostra le stesse caratteristiche formali poco sopra elencate (le inquadrature ravvicinate, i long take e il pedinamento nervoso) a cui manca, tuttavia, il principio etico alla base che le legittimi: la storia non è più determinata dalla materia filmata (il corpo attoriale e ciò che gli accade) ma, bensì, da una sceneggiatura vera e propria. Il film è guidato da una narrazione apertamente esplicita, in grado di portare per mano lo spettatore alla scoperta dello sfruttamento dei migranti e alla condanna della società occidentale, rea di sacrificare tutto e tutti al dio denaro, oltre che di strangolare chiunque nei gangli di un sistema economico oppressivo e ingiusto. I due protagonisti spacciano per racimolare qualche spicciolo che poi viene loro rubato, lei si prostituisce e poi viene segregata, entrambi subiscono violenze e ricatti: tutte le orrende disgrazie che accadono ai due personaggi centrali del film sono causate dalla mancata assegnazione del permesso di soggiorno a Lokita. Si tratta dunque di una storia finalizzata a esemplificare una tesi, caratterizzata per questo da una marcata programmaticità e da altrettanta prevedibilità, come è possibile intuire dall’ovvio finale tragico, confezionato affinchè assurga alle dimensioni di un accorato appello morale.

Si potrebbe obiettare che l’impegno etico alla base di questo lungometraggio, ovvero la necessità di denunciare gli abusi e le ingiustizie patite dai migranti, permetta ai registi di sorvolare, in nome della giustizia sociale, su carenze stilistiche determinate da una ripetitività più che trentennale. Tuttavia, ci si chiede se questa militanza morale non sia una gigantesca foglia di fico in grado di legittimare una pur lampante stanchezza o, peggio ancora, se questa giustificazione non faccia parte della stessa ipocrisia borghese che gli stessi registi si propongono di additare e condannare.

[1] L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario. tr. it., Isbn Edizioni, Milano, 2009, p. 14.

[2] Ivi, pp. 49-50.


23/11/2022

Cast e credits

cast:
Pablo Schils, Joely Mbundu


regia:
Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne


titolo originale:
Tori et Lokita


distribuzione:
Lucky Red


durata:
88'


produzione:
Archipel 35, Les Films du Fleuve, Savage Film


sceneggiatura:
Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne


fotografia:
Benoît Dervaux


scenografie:
Igor Gabriel


montaggio:
Marie-Hélène Dozo


costumi:
Dorothée Guiraud


Trama
Tori e Lokita sono arrivati in Belgio dall'Africa subsahariana, in cerca di una vita migliore. Per ottenerla, Lokita deve ottenere il permesso di soggiorno.