Colm Bairéad racconta di aver letto per la prima volta in un articolo del “The Irish Time” del 2018 il titolo della Short Story di Claire Keegan, “Foster”, da cui ha trasposto “The Quiet Girl”, il suo esordio sul grande schermo: nell’Irlanda dei primi anni ottanta, Cáit (Catherine Clinch), una bambina silenziosa e problematica, è affidata alle cure della zia (Carrie Crowley) per l’estate, in modo tale che la famiglia, composta da ben sette figli, tiri un sospiro di sollievo. Il film di Bairéad, presentato alla scorsa Berlinale e in corsa agli Oscar come miglior film internazionale, è il punto più alto della grande annata del cinema irlandese, dal successo de “Gli spiriti dell’isola” alla candidatura di Paul Mescal all’Oscar per l’interpretazione in “Aftersun”; novanta minuti sobrissimi e un finale implosivo, a incorniciare una storia carveriana, del quotidiano, in cui succede poco, quasi nulla. Tanto che i primi venti minuti Bairéad se li è inventati, per convincerci sin dall’inizio a “put on her shoes” come dicono gli inglesi, con l’obiettivo di realizzare un film iper-intimista, che a ogni inquadratura mimi l’idiosincrasia della soggettiva: Bairéad sembra – esagerando – aver trovato la formula per sovrapporre lo sguardo esterno dello spettatore e quello interno del personaggio.
“Piccole cose da nulla”
Paolo Cognetti, l’autore de “Le otto montagne”, in un’intervista di qualche anno fa sosteneva che il racconto, rispetto al romanzo, risponde meglio alle esigenze del copione cinematografico. Se è vero, “The Quiet Girl” ne è un esempio. Bairéad ha recuperato la lezione hemingwayana dell’iceberg, ha nascosto tutto dietro la camera e ne ha catturato la proiezione nel profilmico, nel controcampo tra i primissimi piani di Cáit e i contro-plongée delle inquadrature a seguire, a cercare i fiotti di luce che trapassano le chiome degli alberi, che guardano tra i buchi lasciati dai rami, oltre la coperta atemporale dell’Irlanda rurale - per certi versi la stessa sensazione che buca la misura sincronica ne “Gli spiriti dell’isola”.
Lo studio granulare e quantistico della luce suggerisce l’intenzione della messa in scena di Bairéad: ossessionata dal piccolo, dall’irrilevante, dall’attenzione all’Insert, umano e non. Da questa mappatura del dettaglio restano (quasi) sempre esclusi gli adulti (ma non gli oggetti, o gli indumenti che indossano). La prossemica filmica di Bairéad li tiene, dichiaratamente, a distanza, oscurati (fig. 1): le sequenze in automobile, con la camera accanto a Cáit, che seziona le nuche e/o i profili dei genitori, degli zii, ne sono un esempio: prima l’espressione assente della ragazza, poi il padre; oppure, lo sguardo dell’adulto resta riflesso nello specchietto, tra il particolare delle ginocchia ammaccate di Cáit e la borsetta sul sedile posteriore (fig. 2).
Fig. 1
Fig. 2
In lingua originale, la variazione diatopica tra inglese e irlandese/gaelico, traccia un confine ancor più evidente tra la dimensione dell’infanzia e l’incomprensibilità dei discorsi degli adulti. “L’intento”, dice Bairéad, era “chiedere al pubblico di fare un passo indietro e ritrovare le sensazioni dell’infanzia”, irlandese compreso, che Cáit fatica a leggere, voce e respiro si confondono, danno vita a un silenzio rumoroso, pieno, tangibile, il sottofondo di una solitudine cronica, isolana, che raramente fa da protagonista, anche e soprattutto nei film irlandesi, in cui lo stereotipo della parlantina, “the gift of gab” lo chiama Cleona Ní Chrualaoí la produttrice del film, tiene banco, come accade anche nel già menzionato “Gli spiriti dell’isola”. Al contrario, in “The Quiet Girl”, Bairéad ha saputo miscelare l’isolamento di Cáit con l’inquietudine della scoperta, di cosa c’è oltre il tetto arboreo, l’epifania della formazione, una sorta di Eveline di “The Dubliners” alla prime armi, che impara a combattere il grande bias della storia d’Irlanda, la vergogna, lo strumento con cui la dottrina cattolica ha tenuto in pugno l’isola per decenni, e che nel film, per esempio, trova spazio nel dolore degli zii per la perdita del figlio tempo prima. La storia di Cáit, infatti, potrebbe essere a tutti gli effetti una delle “piccole cose da nulla” del titolo del romanzo (del 2021) con cui Keegan è arrivata in finale al Booker Prize 2022, raccontando, tra invenzione e realtà, la storie di molte ragazze qualunque (addestrate, come Cáit, alla prospettiva materna e casilinga) e il dramma delle cosiddette “Magdalene Laundries”, una delle pagine più buie della storia irlandese (su cui, Peter Mullan ha scritto e diretto “Magdalene”, Leone doro a Venezia nel 2002). Il film, dunque, come ha dichiarato il regista, “è ben consapevole del suo contesto”, e di come questo abbia plasmato l’essere genitori in Irlanda negli anni ’80, e lo influenzi ancora oggi.
“Perché non diamo il latte delle mucche ai vitelli?”
Come detto, in “The Quiet Girl”, il paradosso della lingua irlandese – insegnata a scuola, ma dimenticata nella maturità – è la frontiera che separa l’infanzia di Cáit dagli altri, dai grandi, e che, agli occhi dello spettatore, ribalta il teorema di Peter Pan: è Cáit ad avere delle regole, non gli adulti. L’infanzia, nel film, all’inizio, è svestita del suo abito migliore; l’incontro con gli zii rammenda il desiderio di apparenza della ragazza. Ecco, allora, le corse per recuperare la posta allo zio (Andrew Bennett), quelle del giovane “Forrest Gump”, in Slow Motion, ovattando il suono in presa diretta, rallentando l’azione, offuscando il campo lungo. La carrellata a precedere (fig. 3) la tampina, ne conta il respiro, la fatica, sembra voler bypassare il corpo del personaggio, lo stesso desiderio della camera di Lukas Dhont in “Close”; poi, nell’ultima corsa verso la cassetta delle lettere, alla fine dell’estate, un semplice campo lungo, statico, in cui la ragazza corre da lontano: ormai può fare la strada da sola. Ma nel finale, l’implosività dell’infanzia di Cáit torna prepotente, la corsa verso lo zio è istintiva, finalmente, incrollata; l’abbraccio (fig. 4) è il punto di accumulazione della vicenda, (quasi) l’unico evento narrativo esplicito, la prova che Cáit, nei luminosi spazi della campagna irlandese, ha riconosciuto un padre, lo zio. Ciò che accade nella scena più significativa del film, l'allatamento del vitello. Per la prima volta, la sua voce ha un’intenzione illocutiva, da corpo a ciò che dice: “Perché non diamo il latte delle mucche ai vitelli?” È la domanda della storia: perché ai figli non diamo il meglio?
Fig. 3
Fig. 4
Dalla stessa sequenza, è altresì evidente la tendenza compositivo-pastorale della messa in scena dei personaggi di Bairéad: uno schema triangolare (fig. 5), nel caso della scena dell’allattamento; uno duale (fig. 6), regale per certi versi (la zia che si inginocchia per conoscere Cáit, la figlia che in fondo vorrebbe accudire). La macchina è sempre alla stessa distanza, parallela al piano longitudinale dei protagonisti, statica: lunghe istantanee, che permettono un’analisi teatrale dell’interazione. L’ennesima evidenza di un film, nella forma, calcolato, equilibratissimo, che insapona e scompone ogni centimetro del corpo di Cáit, come fa la zia. In altre parole, la formula che Bairéad ha interpretato per depurare il peccato analitico dell’infanzia, la sua inevitabile narrazione ex post, a partire dal battessimo a plongée della scena iniziale, a cui ora dare un nome.
Fig. 5
Fig. 6
cast:
Carrie Crowley, Andrew Bennett, Catherine Clinch, Michael Patric, Kate Nic Chonaonaigh
regia:
Colm Bairéad
titolo originale:
An Cailín Ciúin
distribuzione:
Officine UBU
durata:
95'
produzione:
Inscéal, Broadcasting Authority of Ireland
sceneggiatura:
Colm Bairéad
fotografia:
Kate McCullough
scenografie:
Emma Lowney
montaggio:
John Murphy
costumi:
Louise Stanton
musiche:
Stephen Rennicks