In un concorso ufficiale che mai come quest’anno ha segnato il predominio di narrazioni incentrate sulla natura conflittuale dell’essere umano, facendo del privato l’incubazione delle grandi contese della nostra epoca, la presenza di un film come “Gli spiriti dell’isola”, traduzione italiana dell’originale “The Banshees of Inisherin”, non si può considerare una sorpresa. Ad esserlo piuttosto è lo scenario in cui si svolge la vicenda, l’Irlanda del 1923, e il suo paesaggio, un'anonima isola del suo arcipelago, per la distanza spazio-temporale del nuovo film di Martin McDonagh con l’America di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”. A ben vedere, infatti, è proprio da tale constatazione che bisogna partire per cercare di intercettare le coordinate del cinema del regista e commediografo britannico, ormai uso nel prendere un immaginario da cartolina, di quelli che si pensano sempre uguali a se stessi, per poi divertirsi a rovesciarlo con l’innesto di un fattore imprevisto e destabilizzante.
Succedeva con “In Bruges”, dove lo sfondo della famosa cittadina belga si tingeva di nero per dare seguito a una drammatica caccia all’uomo; capitava in “Tre manifesti” in cui toccava alla madre coraggio interpretata da Frances McDormand il compito di togliere l’iniziativa alla controparte maschile, facendo della connotazione da cinema western una questione tutta femminile. “Gli spiriti dell’isola” non è da meno, confermando quanto meno l’ipotesi che il punto di partenza delle storie del nostro autore sia legato alle caratteristiche dei luoghi, essendo quelli a generare - anche per opposizione - i personaggi e non viceversa.
Nel nuovo film, infatti, ancora una volta, il paesaggio non è semplice orpello scenografico ma piuttosto qualcosa che si impone sulle vite dei personaggi attraverso un’immutabilità intesa non solo in quanto rispetto di consuetudini e tradizioni ma pure come schema mentale e psicologico: quello al quale si deve imputare l’esordiente narrativo che scatena la contesa, ovvero le rimostranze di Pádraic (Colin Farrell) di fronte alla volontà di Colm (Brendan Gleeson) di interrompere la loro amicizia.
Abituati a vivere immersi in una realtà inalterabile, quella dei cicli naturali tipici del mondo rurale, Pádraic, con la sua opposizione al cambiamento e Colm, desideroso di provare l’ebrezza dell’infinito, diventano metafora dell’eterno dissidio tra progresso e conservazione, tra carne e spirito. In questo senso la decisione di Colm di mutilarsi le dita che gli consentono di suonare la sua musica ogni volta che l’ex-amico tornerà a disturbarne l’ispirazione, diventa espressione della consapevolezza che vita e arte siano soprattutto una questione di sensibilità d’animo e di predisposizione interiore.
Se la trama de “Gli spiriti dell’isola” si sviluppa in maniera semplice e lineare, costruita com’è sulla faida prodotta dall’insistenza con la quale Pádraic tenta di far cambiare idea all’amico, a creare lo scarto tra quello che poteva essere un prodotto di intrattenimento e che invece diventa un’opera di rielaborazione della realtà è il valore simbolico assegnato da McDonagh alla messa in scena.
Basti pensare all’idea di assegnare alla collocazione delle case dei due contendenti il compito di rifletterne la personalità: in pianura e affacciata sul mare quella di Colm, a segnalare il bisogno di allargare gli orizzonti rispetto a quelli angusti e routinari del suo avversario (non a caso ripreso nei suoi spostamenti con scene sempre uguali), arroccato sulle proprie abitudini e dunque relegato nell’asperità collinare, quella più refrattaria alle influenze esterne tipiche delle zone costiere. Oppure si pensi all’intuizione di far intravedere in lontananza gli echi della guerra civile per stimolare il confronto con il deterioramento dei rapporti umani all’interno dell’isola e dunque ragionare sui fantasmi dell’animo umano e sulla vocazione autodistruttiva della sua natura.
Consideriamo che qui più che in altri film di McDonagh tutto assume una valenza archetipica: dall’
Senza contare che la decisione di alimentare la drammaticità del contesto con l’involontaria comicità scaturita dall’ingenuità dei personaggi, in particolare quello interpretato da un Farrell mai così in palla, contribuisce a determinare un processo d’astrazione in grado di trasformare la realtà della storia in una specie di fiaba: come suggerisce la presenza tra i personaggi della figura di un’anziana veggente che sembra rispolverare la mitologia della migliore tradizione folcloristica irlandese.
Meno dinamico dei film precedenti (scelta giustificata dalla necessità di far sentire il peso del tempo nelle vite dei personaggi) ma scandito dalla stessa inaudita ostinazione da parte dei protagonisti, ancora una volta intenzionati a farsi giustizia da soli, “Gli spiriti dell’isola” può contare sull’efficacia dello spartito drammaturgico e sul contributo di attori bravi nello spogliarsi di ogni divismo per diventare parte integrante di un meccanismo a orologeria.
Tra i film in competizione alla Mostra quella di McDonagh è una delle opere più risolte.
cast:
Colin Farrell, Brendan Gleeson, Kerry Condon, Barry Keoghan
regia:
Martin McDonagh
titolo originale:
The Banshees of Inisherin
distribuzione:
Searchlight Pictures, Walt Disney Studios Motion Pictures
durata:
109'
produzione:
Blueprint Pictures, Film 4, Metropolitan Films International, Searchlight Pictures
sceneggiatura:
Martin McDonagh
fotografia:
Ben Davis
montaggio:
Mikkel E. G. Nielsen
costumi:
Eimer Ni Mhaoldomhnaigh
musiche:
Carter Burwell