C'è del marcio in Irlanda, e non solo lì, ma in tutti i luoghi nei quali la società specula sulla miseria e l'ignoranza dei più deboli: giovani donne, colpevoli di essere giovani e per di più donne, sono sfruttate da ministri satanici di un dio assente, che parlano di santità e collezionano denaro e luridi "servizietti".
Mullan, con il coraggio di un leone affamato di verità, si scaglia contro un'istituzione sepolta nell'oblio da quella stessa chiesa che ciarla di amore universale nella speranza di non perdere le "nuove leve" di una fede decaffeinata. Il regista è infinitamente più cristiano delle anime pie che lo accusano di "infamia", cristiano nel senso più barbaro e violento del termine: un fulmine che ferisce, purtroppo non a morte, lo squallore di un'ipocrisia marcia e mercificata.
Lavare i panni sporchi di sangue ed empietà alla luce di un sole caliginoso non è un lavoro gradevole, ma indispensabile e un po' cannibale. Concentrando tutte le energie disponibili sul contenuto (la denuncia), si corre il rischio di porre in secondo piano la scatola (la messinscena) e mortificare l'espressività di immagini e parole (più delle prime che delle seconde).
Mullan filma con correttezza pudica e fin troppo millimetrica, rispettando personaggi e luoghi tipici del filone women in prison (la direttrice irredimibile, la carceriera che è al tempo stesso vittima e carnefice, l'aspirante kapò, la malata di mente, la "dura", la ragazza del cuore d'oro) e chiudendo la sequenza di torture fisiche e psicologiche con una fuga che pare inverosimile, sebbene sia realmente avvenuta (secondo Pirandello, la vita può permettersi il lusso di non essere verosimile, perché è vera). La sensibilità del regista evita al film il baratro del patetico più retrivo, ma resta l'impressione che, su un tema come questo, sarebbe stato meglio utilizzare la formula del documentario, in modo da evitare quel retrogusto da "film dossier" televisivo che turba, sia pure in misura trascurabile, il tessuto dell'opera.
I momenti migliori sono quelli in cui ci si libera dalle secche del realismo in favore di squarci simbolici che non lasciano scampo: la pupilla dilatata e cerchiata di sangue, nella quale si riflette la cecità della suora (una insostenibile voragine espressionistica); l'accostamento brutale e coerente di eucaristia e fellatio; la caccia tragica e dantesca che umilia il laido prete; il finale, l'incontro imprevisto e il gesto di feroce ribellione di Bernadette, che scioglie alla pioggia il trionfo corvino dei capelli, a marcare la propria rigenerazione. Più scontati, ma non meno espressivi, alcuni indizi disseminati come per caso nelle inquadrature (i rotoli di banconote, i capelli recisi della fuggitiva, il ritratto ghignante di JFK che ammicca oscenamente dalla cassaforte).
Perfetta Nora-Jane Noone, devastante come una giovane Bette Davis.
(in collaborazione con
Gli Spietati)
07/06/2008