Nel corso di venticinque anni di carriera,
M. Night Shyamalan non ha di certo mai mancato di sperimentare - e, in barba ai suoi detrattori, con piena consapevolezza della sintassi e tecnica cinematografica - con i registri della settima arte. Dall'infantile e melenso "Ad occhi aperti" fino al ben più recente e adulto "
Split", il regista statunitense ha dimostrato la capacità, più unica che rara, di adattare il proprio
sguardo alle dinamiche del genere cui si avvicinava, pur incappando in
flop clamorosi - due su tutti: "
After Earth" e "L'ultimo dominatore dell'aria" - in grado di porre in discussione le reali abilità dell'autore del "Sesto senso". In questa filmografia sicuramente altalenante,
Shyamalan ha però sempre continuato, a ben vedere quasi ostinatamente, ad ampliare la propria riflessione sulla fede. "
Unbreakable", "
The Village", "
Lady in the Water", "
E venne il giorno", "
The Visit" ma anche i già citati "Ad occhi aperti", "Il sesto senso", "
Split": in ogni pellicola l'autore di origini indiane ricerca le tracce di
qualcos'altro, dello straordinario celato nell'ordinario, dei
segni attraverso i quali intuire l'essenza immateriale della nostra esistenza.
"Signs", quinto tassello di un'opera in costante evoluzione, rappresenta la chiave ermeneutica per la comprensione della poetica di
Shyamalan (ed è significativo come, con lo stesso nome, egli designasse anche un capitolo di "Ad occhi aperti", dove rifletteva in modo ancora più esplicito e autobiografico sul proprio rapporto con la fede e la spiritualità, a cui i
segni sono inevitabilmente legati). Graham Hesse (Mel Gibson), pastore protestante che ha perso la fede in seguito alla morte della moglie, vive in Pennsylvania con i due figli, Morgan (Rory Culkin) e Bo (Abigail Breslin), e il fratello minore, Merril (Joaquin Phoenix). Un evento misterioso è però destinato a cambiarne radicalmente la vita: nel suo campo di grano appaiano indecifrabili e complessi disegni, difficilmente di origine umana, e affiorano, nel frattempo, testimonianze di identici fenomeni nel resto del pianeta. Qual è la causa di questi inspiegabili avvenimenti? E, soprattutto, cosa hanno a che fare con Graham?
Da queste semplici premesse,
Shyamalan imbastisce una narrazione dimessa e toccante, carica di tensione e
pathos: mettendo, infatti, in primo piano le relazioni tra i protagonisti, con i loro dubbi e risentimenti, "Signs" riesce a fuggire le trappole di un cinema teorico e capzioso. Due le principali influenze:
Hitchcock (l'
incipit di "Signs" sembra fortemente debitore di quello della "
Finestra sul cortile", con la ripresa dell'esterno e poi delle fotografie che esplicitano il passato del protagonista) e Spielberg (oltre agli evidenti richiami a "
Incontri ravvicinati del terzo tipo", troviamo una simile rappresentazione del mondo infantile, così come, nella bellissima colonna sonora di James Newton Howard, si scorgono reminiscenze di John Williams, collaboratore di fiducia dell'autore dello "Squalo"), modellati secondo un personale e inconfondibile stile. Grazie a una messinscena di raffinata esecuzione - da notare attentamente la lunga scena ambientata nella cantina, dove il regista gioca con l'utilizzo del fuori campo, delle luci e delle ombre, dei rumori improvvisi e dei respiri affannati -, il racconto intimo e doloroso di
Shyamalan si sposa perfettamente con la riflessione metacinematografica. La macchina da presa riprende con dolcezza i sentimenti della famiglia Hess, si adagia sul volto sofferente di Graham, osserva la danza infantile della piccola Bo, dimostrando un talento, quello del regista di origini indiane, mai fine a se stesso o gratuito.
Ma sappiamo benissimo come
Shyamalan deluda sempre ogni aspettativa in un incoerente - e per questo fondamentale - colpo di scena che, sacrificando ogni ipotesi di plausibilità, necessita della sospensione dell'incredulità, di un coinvolgimento emotivo che esuli ogni tentativo di ricostruzione intellettuale. E, quello di "Signs", è un
coup de théâtre di incredibile potenza e sensibilità (si noti poi, anche qui, la costruzione attentissima di questo imprevedibile risvolto narrativo: con tempi di montaggio perfetti, con movimenti di macchina calcolati al millimetro), in grado di gettare una nuova luce non solo sul significato della pellicola, ma di tutta la filmografia dell'autore statunitense. La continua aspirazione di
Shyamalan a trovare prove tangibili dell'intangibile, infatti, possiamo affermare venga sublimata nella creazione artistica, dove egli stesso, divenendo demiurgo della propria opera, stabilisce nei
plot twist le forme attraverso cui la vera essenza della realtà si manifesta agli occhi dello spettatore, i
segni con cui entrare in contatto con la realtà
noumenica delle cose.
Eppure, lo ripetiamo, questo sostrato teorico non intacca minimamente la concretezza dell'apparato narrativo: la speculazione intellettuale non incide su un racconto che, prima di ogni altra cosa - o forse semplicemente - mira a raccontare la storia di un uomo, dei suoi affetti e della sua complessa elaborazione di un lutto. "Signs", perennemente in bilico, come molto cinema di
Shyamalan, tra la serie B (si veda la scena dell'incontro con l'alieno, mediante il riflesso di un coltello) e la riflessione filosofica più alta, rimane ancora oggi una delle pellicole più affascinanti di tutta l'opera del regista. E guardate come
Shyamalan conclude il suo lungometraggio: la macchina da presa, esattamente come a inizio pellicola, ci mostra il cortile dell'abitazione e poi l'interno della stanza di Graham; stavolta, però, non ricorrendo al classico stacco di montaggio, ma a un fluidissimo piano-sequenza: ora che la vita di Graham ha nuovamente acquisito un senso, ora che il suo rapporto con ciò che sta
al di là è finalmente ristabilito, ogni equilibrio spazio-temporale è destinato a spezzarsi.