Alfred Hitchcock adorava le sfide. Nel 1947 trasse dalla pièce "Rope" di Patrick Hamilton l’omonimo lungometraggio adattato da Hume Cronyn e Arthur Laurents e, anche se non accreditata, vi è stata la mano felice del solito Ben Hecht. Che cosa aveva di interessante la storia di due studenti che uccidono a sangue freddo per il puro gusto estetico di compiere un atto al di fuori del comune? Non solo la vena macabra e la possibilità di un teso scontro psicologico, ma anche di sfruttare lo scenario unico dell’appartamento dei due giovani per un esperimento tecnico mai tentato: girare il film interamente in pianosequenza e, visto che la possibilità tecnologica non lo permetteva, dividerlo in 8 sequenze da dieci minuti circa ciascuna con delle intelligenti transizioni che nascondessero il cambio di rullo.
È probabile che Hitchcock ripensò a "Nodo alla gola" quando si trovò ad affrontare la produzione del progetto che sarebbe divenuto "Rear Window". Innanzitutto, si posero dei problemi molto simili, come la staticità della scenografia, il fatto di doversi muovere in un piccolo set e senza grosse possibilità di variare e la traduzione da un medium a un altro. C’era, però, quella finestra aperta sul cortile, unico svago del protagonista costretto sulla sedia a rotelle: «abbiamo l’uomo immobile che guarda fuori. È una parte del film. La seconda parte mostra ciò che vede e la terza la sua reazione. Questa successione rappresenta quella che conosciamo come la più pura espressione dell’idea cinematografica».[1]
L’uomo ha la fisionomia dell’allora quarantaseienne James Stewart che vediamo all’inizio del film mentre la macchina da presa prima svela, con una panoramica, il condominio al suo risveglio e poi lo perlustra concludendo la sua osservazione su Jeff, inchiodato alla sedia a rotelle da una gamba ingessata (su cui c’è scritto "Qui giacciono le ossa rotte L.B. Jefferies"). Il dolly continua dentro l’appartamento e inquadra una macchina fotografica distrutta, diverse fotografie con soggetti ad alto rischio (incidenti, esplosioni), copertine di riviste: capiamo che il Nostro è un fotoreporter che ha avuto un incidente sul lavoro, senza bisogno che venga detta una parola (uno dei pregi storici di Hitchcock). Dopo lo stacco Jeff si è svegliato e si sta radendo davanti alla sua finestra: riceve la telefonata del suo editore che gli augura buona guarigione con una settimana d’anticipo. Dal dialogo gli autori ci informano che Jeff è un uomo d’azione, in perenne movimento per il suo lavoro e per la sete di esperienze al limite, che immortala con le armi del mestiere e che lo stop forzato di così tante settimane lo sta estenuando. La sua routine quotidiana si è appiattita su pochissimi eventi: dopo il risveglio ad attenderlo c’erano le cure e le chiacchierate con la vispa infermiera, e la cena con la sua "amica" Lisa Freemont, una ragazza dell’alta società innamoratasi di lui e decisa a sposarlo. La torrida estate newyorkese porta tutti i vicini di casa del fotoreporter a spalancare le finestre, aspetto banale che gli permette facilmente di osservarli nelle loro faccende quotidiane fornendogli un piacevole diversivo all’insopportabile noia che lo attanaglia.
"La finestra sul cortile" si muove lungo tre direttrici contemporaneamente: quella narrativa che si risolve nel giallo, quella della trattazione del rapporto di coppia e quella metacinematografica. Nel racconto di Cornell Woolrich un uomo, sulla sedia a rotelle a causa di un incidente, comincia a sospettare d’omicidio il suo dirimpettaio. Una delle modifiche più profonde dell’adattamento de "La finestra di fronte" ad opera di John Michael Hayes è l’aggiunta del personaggio di Lisa, interpretato da Grace Kelly. L’inserto romantico può sembrare un modo per accaparrarsi anche l’attenzione di una parte della platea che poteva rimanere fredda all’insana passione di Jeff e senza dubbio, in parte, è così; rimane però un dato importantissimo ai fini ermeneutici della pellicola, visto che il personaggio di Lisa ha un ruolo non indifferente sia nella narrazione, vale a dire nella risoluzione del caso, ed è anche chiave della lettura metafilmica. Come molti sanno, numerose interpretazioni si diramano dalla visione del capolavoro hitchcokiano quale uno dei film più cinici sul matrimonio. Il nostro protagonista vede dalla finestra le varie fasi della vita coniugale. Gli sposini che entrano nel loro nuovo appartamento e lo "inaugurano" con una maratona no-stop dalla quale siamo esclusi; la coppia senza figli che riversa il loro amore genitoriale sul cagnolino; la zitella che cerca disperatamente una compagnia ma finisce per farsi adescare e rimanere invariabilmente sola; lo scapolo infelice che deve trovare una conclusione alla sua sonata; e poi casa Thorwald, tra le cui mura avviene l’omicidio: ogni finestra si apre su una sfumatura differente del rapporto o non-rapporto di coppia, sull’amore coniugale e ciascuno di loro è sotto la lente di ingrandimento dello sguardo di Jeff.
Il personaggio di Stella, che serve a far duettare Jimmy Stewart in dialoghi sempre brillanti e pieni di ironia, è sicuramente una macchietta troppo scritta e proprio i suoi botta e risposta sono tra gli elementi più invecchiati della pellicola hitchockiana: il regista la sfrutta, però, per fare il punto della situazione e per spiegare quali sono le coordinate principali del film. Iniziamo dalle insane passioni: l’infermiera interpretata dalla caratterista Thelma Ritter, appena entrata nella casa del protagonista, giudica disdicevole il suo atteggiamento nei confronti dei vicini di casa, tanto da affermare "Siamo diventati una razza di guardoni".[2] L’intero dialogo, per chi conosce gli sviluppi de "La finestra sul cortile", appare come un monito per lo spettatore e come una previsione per le sventure future di Jeff: la preveggenza, confessa Stella, è sempre stata una sua grande dote e quello che subodora nell’appartamento sono i guai. A forza di guardare, finirà col vedere qualcosa di cui non doveva venire a conoscenza: la saggia infermiera precede il corso della narrazione sia nella deriva del giallo che in quella metalinguistica. Non paga, canzona il suo paziente affermando che ha una deficienza ormonale: "Quelle bellezze che sta guardando non hanno fatto salire la sua temperatura di un solo grado". E la conversazione si conclude sull’argomento matrimoniale e la possibilità di convolare a nozze con Lisa Freemont, possibilità dalla quale Jefferies vuole sfuggire a ogni costo. In un sol colpo ecco fornita anche la lettura psicanalitica intrecciata con l’argomento sentimentale. Freud direbbe tranquillamente che la gamba ingessata è il chiaro simbolo dell’impotenza di Jefferies, il quale, osservando dalla finestra non vede altro che uomini castrati (Lars Thorwald), donne-api regina, compulsive o frigide (da Miss Torso alla scultrice, passando per Miss Cuori Solitari), rapporti aridi e senza frutto (come l’infertilità della coppia senza figli). È quasi naturale, allora, che il personaggio di Stewart abbia paura di infilarsi in un rapporto serio con una ragazza come la Freemont: già castrato dall’ingessatura, Jeff non vuole diventare anche schiavo di una relazione che gli impedirebbe di svolgere il suo lavoro e di assecondare le sue passioni.
Già alla sua prima apparizione Lisa è pura gioia per gli occhi, stagliandosi su Jeff per baciarlo in un onirico ralenti. Si intuisce subito che la donna interpretata da Grace Kelly unisce alla sfolgorante bellezza anche un carattere deciso e volitivo[3] (aspetto della sua personalità che si manifesterà con maggiore forza successivamente): la sequenza in cui la sua figura si muove sopra quella di Jeff, preceduta dalla sua ombra, ha le caratteristiche di un vero assedio. Le prime sequenze con loro in scena hanno al centro le schermaglie amorose già accennate, ma quando Jeff comincerà a sospettare il signor Thorwald dell’omicidio della moglie il ruolo di Lisa si modificherà. Inizialmente la ragazza è disinteressata alle manie del suo uomo ma, contagiata dal sospetto nei confronti del cupo dirimpettaio, dimostra anche tutto il suo spirito d’avventura. Lisa sceglie infatti di aiutare Jeff nelle sue indagini e poi, decisi a far uscire allo scoperto l’assassino, si intrufola nell’appartamento in cerca di una prova di colpevolezza, come la fede nuziale che si dovrebbe trovare ancora in casa, un oggetto dal quale nessuna moglie/marito si separerebbe sapendo di dover compiere un lungo viaggio. Quando Lisa non è più solo una bella statuina, ma anche soggetto in azione del suo schermo visivo e, di conseguenza, oggetto della sua voracità voyeuristica qualcosa si trasforma: l’adrenalina per il pericolo e l’eccitazione per l’atto di guardare fanno scattare in Jeff un sentimento diverso, un sentimento vicino all’amore.[4]
Non è un caso che "La finestra sul cortile" preceda di qualche anno "Vertigo", visto che possiede già al suo interno alcuni dei germi che fioriranno nel capolavoro del 1958. Tramite le patologie dei due protagonisti, la scopofilia e l’acrofobia,[5] si aprono gli orizzonti dello sguardo hitchockiano: quello che è sgomento deflagrante e irrazionale de "La donna che visse due volte" (che è a tutti gli effetti un noir), si appiana nella razionalità del whodonit di "Rear Window", governato soprattutto dal piacere dell’atto della percezione visiva. Da una parte vi è la metariflessione sulla superficie di uno schermo simulato, quello del condominio ricostruito in studio, realizzato su rette e parallele costituenti una serie di finestre che forniscono episodi e scorci narrativi in cui l’occhio di Jeff può perdersi; in senso contrario, Scottie Ferguson si perde nel gorgo della sua paura, il suo è uno sguardo che sprofonda negli abissi della propria ossessione emergendo solo grazie/a causa del "doppio corpo" di Kim Novak. Come abbiamo sottolineato, però, la dinamica del double body[6] è già intrinseca al rapporto di guardare/essere guardato tra Jeff e Lisa: in "Vertigo" l’astrazione teorica si consoliderà in prassi filmica e narrativa.
La traiettoria romantica è dunque centrale perché racchiude e chiude in sé anche le altre. Quello del rapporto di coppia è d’altra parte uno dei temi ricorrenti in Hitchcock, basti ripensare al gioco di forza di "Notorious" (1946) in cui il freddo e integerrimo Devlin (Cary Grant) attende alla redenzione di Alicia (Ingrid Bergman), mentre lei, consumata dal sentimento (quando all’inizio sembrava forte e indipendente), si lascia andare al proprio dovere fin quasi al sacrificio. La scena finale de "La finestra sul cortile" è una strizzatina d’occhio del regista al suo pubblico e un’altra frecciatina sulla stabilità di un rapporto: vediamo infatti Lisa, mentre Jeff dorme, passare dal leggere un libro sull’Himalaya a sfogliare una rivista di moda. L’ironia tagliente di Hitcock è sottolineata anche dalla situazione capovolta: la donna, emancipatasi dal suo statuto (adesso è lei a portare i pantaloni), in luogo dell’avventuriero Jeff, ancora bloccato sulla sedia a rotelle, con entrambe le gambe ingessate.
Un’ultima coordinata secante ai discorsi già fatti è quello sulla visione vera e propria. "La finestra sul cortile" è uno dei più compiuti e acuti saggi sulla soggettiva mai realizzati: l’incipit stesso, la panoramica che descrive il risveglio del condominio, appare come lo sguardo di un uomo che si affaccia alla finestra ma la soggettiva si rivela falsa non appena scopriamo il nostro uomo addormentato. Fatta esclusioni per le inquadrature totali, gli occhi di Jeff prima e poi le lenti del suo binocolo e del teleobiettivo della sua macchina fotografica sono gli occhi attraverso i quali noi spettatori seguiamo il film (e i suoi strumenti della visione sono anche le armi con le quali si difenderà dall'assassino). Il rapporto di spettacolarizzazione delle vicende quotidiane può sembrare accidentale, causata dalla situazione di immobilità del protagonista, ma la materia è maniacalmente studiata da Sir Alfred: "Rear Window" inizia con un sipario (le tende) che si alza sul palcoscenico del condominio, che si anima gradatamente.[7] Ogni finestra racconta una storia e una situazione differente e lo sguardo di Jeff schizza da un punto a un altro lungo lo schermo visivo, raddoppiato da finestre e balconi (e triplicato se consideriamo anche lo schermo su cui si proietta la pellicola), con la medesima velocità che ha uno spettatore televisivo intento a fare zapping, perché guardare dà assuefazione.
Giungiamo quindi alla domanda di rito: chi è l’assassino? Certo, è il signor Thorwald, ne abbiamo le prove e la confessione alla fine. Quello su cui Hitchock insiste, però, è sulle conseguenze nell’atto voyeuristico: osservare un fenomeno significa modificarlo, essere partecipe all’evento. Jeff concorre quindi all’omicidio della signora Thorwald perché è lì a vedere svolgersi i fatti: se invece di guardare fuori dalla finestra, avesse letto un libro, l’evento sarebbe accaduto al di fuori del profilmico e, pertanto, non sarebbe accaduto. Alla colpevolezza di Jeff su un piano strettamente cinematografico, possiamo anche aggiungere la più volte ostentata teoria del sogno: secondo il livello di lettura psicanalitico, Lars Thorwald è la proiezione inconscia del nostro protagonista che ritrova la sua libertà uccidendo sua moglie. Ognuno può scegliere il piano di esegesi che più lo soddisfa, ma resta il fatto che il ghignante Hitchcock ci mette sotto gli occhi un eroe guardone che divide la sua colpa con noi spettatori, non meno voyeur di lui.
"Rear Window" è la pietra miliare di tutti gli occhi che uccidono, ben prima di "Peeping Tom" (Powell, 1960) e di "Blow-up" (Antonioni, 1966), è la forza centripeta dello sguardo che costruisce la storia.
[1] François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, pp. 180-181, Milano, 1997. Nel passo citato, Hitchcock continua facendo un parallelo tra le possibilità combinatorie del montaggio del primo piano di Jefferies, il quale guarda segmenti di vita dalla finestra, col cosiddetto "effetto Kulešov" e conclude: «Prendiamo ora un primissimo piano di James Stewart. Egli guarda dalla finestra e vede, per esempio, un cagnolino che viene fatto calare nel cortile dentro un cesto; torniamo a Stewart: sorride. Ora, al posto del cagnolino che scende nel cesto, si mostra una ragazza nuda davanti alla finestra aperta; si inserisce lo stesso primissimo piano di James Stewart che sorride e ora è un vecchio sporcaccione!».
[2] Che in originale è: "We've become a race of Peeping Toms".
[3] Anche di Grace Kelly si diceva che sotto l’algida bellezza si nascondessero vulcaniche passioni e questo, Hitchcock, lo doveva avere molto chiaro.
[4] Quando Lisa viene arrestata mette le mani dietro la schiena per far notare di aver trovato la fede, che ha messo al dito. La donna con questo gesto ottiene l’insperato fidanzamento. «F.T. (…) Per Grace Kelly è come una doppia vittoria, riesce nella sua indagine e riuscirà a farsi sposare. Ha già "l’anello al dito". - A.H. È proprio così. È l’ironia della situazione», François Truffaut, op. cit., pp. 187-188.
[5] Cfr. Marco Teti, La vertigine in una spirale. La centralità della figura spiraliforme in "La donna che visse due volte"
[6] Titolo originale di "Omicidio a luci rosse" (1980), una delle vette assolute nella carriera di Brian De Palma e, insieme, uno dei saggi metalinguistici più riusciti sul cinema hitchockiano.
[7] Ancora una volta André Bazin risulta lungimirante: azzardiamo un riferimento al Cinema come "Gran Teatro del Mondo".
cast:
James Stewart, Grace Kelly, Wendell Corey, Thelma Ritter, Raymond Burr, Judith Evelyn
regia:
Alfred Hitchcock
titolo originale:
Rear Window
durata:
112'
produzione:
Paramount Pictures; Patron Inc.
sceneggiatura:
John Michael Hayes
fotografia:
Robert Burks
scenografie:
Hal Pereira; Joseph MacMillan Johnson; Sam Comer; Ray Mayer
montaggio:
George Tomasini
costumi:
Edith Head
musiche:
Frank Waxman