"Rapito" ci introduce a una prima riflessione tutta orientata sul mondo del cinema contemporaneo. Il soggetto non originale, derivante dal libro di Daniele Scalise, aveva attirato le attenzioni, quasi contemporaneamente, del più grande regista americano vivente, Steven Spielberg, e di quello italiano, Marco Bellocchio. Nella loro irrimediabile lontananza, entrambi hanno trovato nella vicenda di Edgardo Mortara, il bimbo di sei anni che, nella Bologna pre-unità d'Italia, venne portato via dalla sua famiglia ebrea perché battezzato clandestinamente e condotto a Roma per ricevere una ferrea educazione cattolica, un appiglio per proseguire, una volta di più, il loro cammino nella Settima arte in questi primi vent'anni di nuovo millennio. Per Spielberg, probabilmente, si sarebbe trattata dell'ennesima occasione di ragionare sulla formazione di un fanciullo, scisso tra i sogni e le aspirazioni di una famiglia di origine e i casi della vita che conducono l'esistenza altrove. Per Bellocchio è questo e molto altro. Perché nel suo film, scritto insieme a Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati e Daniela Ceselli, si tengono insieme in equilibrio mirabile i cardini dei suoi ultimi due momenti cinematografici in ordine di tempo. In "Rapito", infatti, Bellocchio ritrova il concetto ossessivo di ricerca di un'identità individuale, ma al tempo stesso prosegue nella sua personale rilettura dei fatti storici del nostro paese, piegando nuovamente le esigenze di trama ad ambizioni più alte, a obiettivi più generali, alla volontà di trasfigurare la pellicola in qualcosa di altro, in un gioco di specchi per cui l'incipit è qualcosa e poi il film diventa tutt'altro.
E allora partiamo dalla Bologna, prodigiosamente ricreata con un lavoro certosino di scenografia che lascia agli effetti speciali visivi solo un lavoro di rifinitura del tutto: da questo pezzo di Stato Pontificio periferico, in cui l'animo nazionale si sta consolidando più forte che in altri luoghi, la famiglia Mortara viene privata di uno dei suoi figli perché una ex-governante, cattolica ipocritamente osservante, lo ha battezzato di nascosto temendo che il piccolo sarebbe finito nel limbo in caso di morte prematura. Nella prima parte dell'opera, l'obiettivo della macchina da presa di Bellocchio è tutto focalizzato sullo smarrimento dei genitori, costretti a interrogarsi, per l'appunto, sul concetto di identità più che su quello di fede religiosa. L'ebraismo e il cattolicesimo, per Bellocchio, sono due universi umani paralleli, non in conflitto solo sul piano ecclesiastico, ma più in generale per quanto riguarda una lotta tra anime: di qua o di là, la strada è senza ritorno e la vita che sarà diverrà qualcosa di irreversibile e irrimediabile. L'umanesimo bellocchiano, così terreno, sanguigno e furente, si esplicita continuamente nelle sequenze-madri di cui "Rapito" è pieno. Il montaggio alternato in varie occasioni, tra scene familiari alle prese con le tradizioni israelitiche e i riti cattolici che il piccolo Edgardo, ormai sempre più lontano, impara prima con senso di costrizione poi man mano sempre più convintamente, sono l'emblema di un teorema di fondo che l'autore non lascia mai privo di dimostrazioni pratiche. È in tutto questo che si ammira la perfezioni stilistica e la coerenza narrativa del regista Bellocchio: nel suo sguardo c'è sempre consequenzialità fra premesse e svolgimento degli eventi successivi.
Nella seconda parte, il lungometraggio sposta il luogo centrale dei fatti a Roma e qui il cuore pulsante dell'opera esplode e deflagra in una sovrapposizione di piani narrativi di grande ambizione ed efficacia. Oltre al delitto perfetto, del ragazzino che smarrisce le sue origini a forza di imposizioni e di censure, tutt'attorno alla vicenda privata si apre il momento degli stravolgimenti politici e storici. Il Papa Re, il Pio IX interpretato in maniera stupefacente da Paolo Pierobon, persegue nella sua convinzione estrema di dover rispondere solo a Dio, tradendo nelle sue parole sprezzanti non solo un chiaro e netto antisemitismo, ma anche un rifiuto a leggere l'evoluzione del presente. La Santa Sede, con le truppe alle porte di Roma, non arretra di un millimetro nella sua posizione fortemente attaccata al potere temporale e la parabola umana del piccolo Mortara ne diviene una sorta di simbolo, di bandiera ideologica con cui manifestare al mondo intero, che assiste alla dissoluzione dello Stato pontificio, la persistenza di un dominio su uomini e cose che è e deve continuare ad essere eterno.
Da "Buongiorno, notte" a "Vincere", da "Il traditore" ad "Esterno notte", l'ultima parte della carriera del regista piacentino è costellata di opere che fanno i conti con la storia d'Italia. In ognuno di questi titoli, in particolare, continuava a essere sempre presente quel tentativo di leggere i fatti storici non con un occhio da osservatore terzo e distaccato, ma con la passione di chi affiancava il proprio sguardo cinematografico a persone che, di quegli eventi, subivano in qualche modo degli effetti.
In "Rapito" (che originariamente doveva intitolarsi "La conversione", scelta che avrebbe forse indirizzato in modo troppo fazioso le aspettative verso un sentiero soltanto dei tanti in cui si compone l'articolato percorso del film) Storia e storia subiscono un'operazione di scrittura nuova e definitiva nel cinema di Bellocchio. Perché, appunto, non è più la messa in scena di esperienze umane influenzate dagli accadimenti generali a essere mostrata, ma una sorta di compenetrazione di pari forza tra i due livelli di racconto. Tanto l'andamento a strappi degli anni finali di dominio territoriale del Papa hanno un peso nella durezza con cui la Chiesa priva una famiglia ebraica di un loro figlio, tanto la vicenda che i genitori di Edgardo denunciano alla stampa di mezza Europa ha rilevanza nell'equilibrio precario del Pontefice. L'apparente scelta registica di tenersi lontano da virtuosismi stilistici che hanno pur caratterizzato quel suo modo di mettere in scena immagini con una sorta di aggressività muscolare non deve trarre in inganno, però: Bellocchio è ancora lì pronto a far scoppiare l'emozione in chi guarda con una sorprendente capacità di modulare il ritmo e il pathos narrativo. Il suo spirito indomito si incunea ancora una volta laddove la vicenda realmente accaduta lascia lo spazio all'ambiguità e al mistero; in questa sorta di area grigia a metà fra la ricostruzione cronachistica di quanto accaduto e momenti di puro onirismo (nuova scena madre: il bimbo ebraico che libera il Cristo crocifisso dai chiodi che sarebbero la colpa di cui viene imputato tutto il suo credo), lì in mezzo Bellocchio si muove rompendo qualsiasi argine nell'uso dei toni trattenuti. La macchina da presa, in questi frangenti, si abbassa ad altezza bambino e insegue o affianca le corse e i salti dei piccoli protagonisti, liberando l'energia impetuosa di sentimenti a fatica trattenuti, anche grazie alla stupenda colonna sonora composta da Fabio Massimo Capogrosso.
Sospettato da alcuni osservatori distratti di un superficiale anticlericalismo, il nuovo capolavoro del Maestro è in realtà un'opera che non accusa e non assolve nessuno. Si tratta, piuttosto, di un affresco di proporzioni fuori classificazione sul dolore che ha costruito una nazione, che ne ha sacrificato un'altra e che, allo stesso modo, ha portato dei giovani a perdersi confondendosi in una personalità alternativa non loro e spingendone altri, per reazione, a imbracciare le armi e varcare la breccia delle mura a nord della Capitale. Senza dilungarci troppo sul ritorno del filo rosso che lega nella filmografia dell'autore de "L'ora di religione" le madri ai figli, vale la pena sottolineare la prova attoriale di Barbara Ronchi che diventa lei stessa, con il suo personaggio avvolto dalla sofferenza, elemento che in sé riassume tutta la cognizione del dolore umano all'interno del cinema di Bellocchio.
cast:
Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Enea Sala, Leonardo Maltese
regia:
Marco Bellocchio
distribuzione:
01 Distribution
durata:
134'
produzione:
IBC Movie, Kavac Film, Rai Cinema, Ad Vitam Production, The Match Factory
sceneggiatura:
Marco Bellocchio, Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati, Daniela Ceselli
fotografia:
Francesco Di Giacomo
scenografie:
Andrea Castorina
montaggio:
Francesca Calvelli, Stefano Mariotti
costumi:
Sergio Ballo, Daria Calvelli
musiche:
Fabio Massimo Capogrosso