Sedici marzo 1978. In via Fani, Aldo Moro è rapito da un commando delle Brigate Rosse. Poche ore dopo, il governo Andreotti ottiene la fiducia alle camere con i voti del Partito Comunista. Il lavoro sottotraccia di Moro ha funzionato; "nulla cambi affinché tutto cambi, con accortezza", fa capire il presidente della Dc a Berlinguer – diceva Calvino che il Gattopardo e la Dc sono due prodotti della natura diacronica del presente (italiano). È il senso della prolessi fittizia con cui si apre "Esterno notte", cinque ore e mezza di girato per raccontare l’affaire Moro (gli ultimi 3 episodi usciranno il 9 giugno in sala con "Esterno notte - Parte II"; tutti e sei saranno trasmessi in autunno dalla Rai): Zaccagnini (Gigio Alberti), Cossiga (Fausto Russo Alesi), Andreotti (Fabrizio Contri) adorano il letto del sopravvissuto, la disposizione è trinica, michelangiolesca, la soggettiva di Moro li fissa. L’incipit controfattuale di Bellocchio ha una valenza metatestuale, non c’è dubbio: il regista guarda al suo lavoro di diciannove anni prima, "Buongiorno, notte", con al centro sempre l’affaire Moro. Un’operazione sui generis, ma – la filmografia di Bellocchio parla chiaro – prevedibile: il politico è l’argomento del cineasta piacentino, anche quando "Marx può aspettare".
Buongiorno, Esterno notte
La co-referenzialità tra "Buongiorno, notte" ed "Esterno notte" è evidente: la notte è la stessa. Si è detto, il secondo controcampo del primo (?), non proprio: la notte è la stessa a livello diacronico, non semantico. Il gioco non è (solo) quello suggerito dai titoli, tra interno (lo stato d’animo di Moro e dei brigatisti durante la prigionia) ed esterno (ciò che è successo attorno a via Montalcini 8, nei luoghi del potere), ma tra passionalità e fragilità – lo dice Cossiga. La complementarità non è la caratteristica che regola il rapporto tra i due film: l’operazione di Bellocchio è semasiologica, ricerca, cioè, lo stesso valore semantico in situazioni (di tempo e spazio) differenti. Per dirla in altri termini, "Buongiorno, notte" ed "Esterno notte" non sono il giorno e la notte, le due facce di una stessa medaglia, bensì gli stadi proporzionali di una matrioska. In questo senso, collaborano alla formazione di un corpo unico, anche antitetico, a dimostrazione che l’antinomia non serba (per forza) una contraddizione, ma un confronto.
In entrambe le pellicole, se i personaggi rispondono all’ordine polifonico dostoevskijano, la narratologia è (al contrario direbbe qualcuno) quella di Tolstoj: le strutture narrative "pensano" i personaggi, soprattutto in "Esterno notte", anche a ragione del suo scheletro seriale.
Se proprio dovessimo considerare "Esterno notte" un ampliamento della pellicola del 2003, lo sarebbe a livello intensionale, non aumenta, cioè, la cardinalità dell’affaire Moro, ma le sue caratteristiche distintive. La serie, quindi, è lo strumento congeniale per due ragioni: la prima, ca va sans dire, estensionale; il secondo – lo si è accennato – polifonico. I primi tre episodi, infatti (lo stesso sarà per gli ultimi tre), presentano un protagonista, se così vogliamo chiamarlo, differente: Paolo VI (Toni Servillo), Moro, Cossiga[1].
Non è un caso, poi, che la sceneggiatura di "Esterno notte" sia firmata dallo stesso gruppo con cui Bellocchio ha lavorato a "Il traditore", e da Ludovica Rampoldi, una delle madri di "1992", che da molti è giustamente considerato il turning point della produzione seriale italiana. Questa la ragione di un prodotto così eterogeneo, provocatorio, anche parodistico se vogliamo, contro l’impressione da cui già Sciascia metteva in guardia, ovvero "che l’affaire Moro sia già stato scritto, che viva in una sfera di intoccabile perfezione letteraria, che non si possa fedelmente riscriverlo[2]".
Così "Esterno notte" passa dall’occhio sgranato del docufilm alla schizofrenia teatrale, dai campi lunghi dell’Altare della Patria inverosimilmente spento all’attenzione carveriana per il piccolo, per l’uovo all’occhio di bue, per il gas spento, per le mani ben lavate.
Compromesso storico
La storia, come cronologia, propone dati empirici, che poi questi siano inaccessibili per ragioni cognitive è un altro discorso (lo dice l’etimo: istor è colui che ha visto). Non è la storia a essere problematica, bensì la sua rappresentazione, che spesso è difficile scindere "dall’interpretazione di". A livello teoretico, è ciò che cerca di fare Bellocchio in "Esterno notte". Pensiamo alla differenza sostanziale tra allucinazione e trasfigurazione: la prima, Cossiga che fissa la pelle piena di macchie; la seconda, Moro che trasporta la croce durante la Via Crucis. È un indizio niente male: l’affaire Moro non è un fantasma della storia italiana, un incubo, un grattacapo irrisolto ci dice Bellocchio, è, semmai, un generatore di fantasmi, il punto d’accumulazione di una verità storica in continua evoluzione: "Ciò che noi giudichiamo che avvenne[3]".
È involontario, ma è curioso che di tutta la filmografia (politica) di Bellocchio, solo i due lavori su Moro portino un titolo senza verbo; la storiografia classica dell’affaire è reinterpretata: il rapimento, la prigionia e la morte del presidente della Dc non rappresentano (esclusivamente) una data spartiacque della storia italiana (non c’è, quindi, un verbo che prescrive un’azione fatta o subita), bensì un’evidenza, forse una conseguenza. Da qui, l’esigenza di ri-comporre, inspessire il quadro di "Buongiorno, notte", e, per certi versi, ribaltare la psicoanalisi in polifonia.
Politico
Che i campi spaziali di "Buongiorno, notte" ed "Esterno notte" siano differenti è manifesto; è meno evidente che l’ambivalenza spaziale non sia tra vuoto-pieno (interno versus esterno come si è detto), ma tra parte e tutto. Una sineddoche sociologica per ribadire la natura paradossale del politico: le vie del privato e del pubblico si intersecano. Quale, se non questo, il motore della rappresentazione di Bellocchio? Quale, se non questa, la funzione prolettica della sequenza più importante dei primi tre episodi: il discorso di Moro al partito. Il linguaggio politico di quell’intervento – riconosciuto, rispettato – sarò lo stesso linguaggio alienante (contro Moro) della prigionia. Il mero "intento comunicativo di Moro[4]", tutt’altro che perorativo o persuasivo, è la spia di una correlazione che muta in contraddizione.
Ecco, forse, il suggerimento sull’affaire Moro di questi primi tre episodi: Moro è morto per contrappasso, ha dovuto tentare di farsi capire adottando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire[5].
[1] Sui protagonisti dei sei episodi della serie torneremo nello specifico nell’articolo dedicato alla seconda parte di "Esterno Notte", in sala dal 9 giugno.
[2] L. Sciascia, L’affaire Moro, Adelphi (1994), p. 29.
[3] Ivi, p. 26.
[4] P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, p. 35.
[5] Cfr. L. Sciascia, L’affaire Moro, Adelphi (1994), p.17.
cast:
Daniela Marra, Fabrizio Contri, Pier Giorgio Bellocchio, Fausto Russo Alesi, Margherita Buy, Toni Servillo, Fabrizio Gifuni
regia:
Marco Bellocchio
distribuzione:
Lucky Red
durata:
300'
produzione:
The Apartment, Kavac Film, Rai Fiction, Arte France Cinéma
sceneggiatura:
Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino
fotografia:
Francesco Di Giacomo
scenografie:
Andrea Castorina
montaggio:
Francesca Calvelli
costumi:
Daria Calvelli
musiche:
Fabio Massimo Capogrosso