La morte di Aldo Moro è sicuramente uno degli accadimenti più tragici, nonché più citati della storia italiana del secondo novecento. Una storia continuamente ricordata non solo dal cinema, ma anche dalla televisione, dai libri di storia, dal teatro perché, pur essendo un evento di spiazzante gravità, chiarisce la dinamica del passaggio dalla deformità ideologica alla sua concretizzazione criminale e delittuosa. In questo modo, di fatti, un meccanismo psicologico difficilmente spiegabile con l'astrazione diventa immediatamente comprensibile quando lo si riconduce a un episodio emblematico, spaventoso e dalla portata quasi periodizzante.
Marco Bellocchio riprende questa vicenda senza raccontarla. Il suo è un film che si sviluppa per suggestioni, quasi completamente privo di riferimenti storico-biografici. Il regista non è interessato alle psicosi generali che la tragedia ha provocato in Italia, ma agli sviluppi psicologici che ha suscitato in chi l'ha vissuta, concentrando l'azione su una scala di dimensioni molto minori, anzi su una sola persona. Ecco perché si rifà all'opera autobiografica "Il Prigioniero" di Anna Laura Braghetti, la brigatista che, facendo da copertura ad altri tre terroristi, rinchiuse Moro nell'appartamento di via Montalcini a lei intestato. La narrazione in prima persona ha permesso al regista di cogliere sogni, visioni e allucinazioni che, tradotte in immagini, garantiscono una potenza visiva inimmaginabile. La componente onirica, però, è assolutamente immersa nella prospettiva storica degli avvenimenti perché punto di unione di reale e immaginifico. Infatti il cineasta convoglia nella composizione di queste sequenze immagini di repertorio, stralci di documentazioni filmate del periodo insieme con materiale da lui girato, non rinunciando a sperimentali scelte musicali che vanno dai Pink Floyd a Shubert o Offenbach.
"Buongiorno, notte", perciò, è un lavoro che non può non essere considerato quanto meno coraggioso in questo senso. Un coraggio che, però, rischia di tradursi in azzardo quando dalle immagini emergono parallelismi non molto convincenti, se non proprio forzati come quello tra le vittime del terrorismo rosso e quelle uccise dai fasciti durante la resistenza. D'altronde, anche la figura di Moro, nella centralità assoluta dedicata alla protagonista, di tanto in tanto sembra ritratta con una leggera dose di retorica che semplifica eccessivamente alcune sue posizioni politiche e morali, in realtà più complesse. Questo difetto (forse più che un difetto, un'imperfezione) è, per molti versi, inevitabile data la sua relativa marginalità, sia come uomo che come politico, nello sviluppo narrativo della pellicola.
In definitiva, comunque, questi difetti non hanno alcuna ricaduta sull'efficacia e sulla potenza espressiva del lavoro di Bellocchio, forse l'unico regista capace non solo di rileggere la storia permeandola di una tensione costante, dal respiro quasi hitchcockiano, ma di alternare vari registri espressivi (realistici, visionari, ellittici) unendoli a uno straordinario lirismo che raggiunge l'apice nella bellissima, sognante, struggente sequenza finale.
03/01/2012