Prima della produzione massiva di opere legate al
Marvel Cinematic Universe e dell'
ennesima resurrezione del mondo di
"Star Wars" la gallina dalle uova d'oro della Disney, non ancora del tutto uscita dalla crisi successiva alla morte del fondatore, fu la saga piratesca iniziata da Gore Verbinski. Difatti il successo del primo capitolo permise alla "casa del Topo" di creare un (relativamente) primo esemplare di serie transmediale e di sperimentare con esso tutte le strategie produttive che l'avrebbero portata ad affermarsi come più grande Major degli anni 10, contribuendo alla definizione dello standard estetico del blockbuster contemporaneo concepito come giocoso e citazionista prodotto di puro
divertimento rivolto al maggior numero di pubblici possibili (maree di riferimenti e registi, così come attori e sceneggiatori, quotati devono pur servire a qualcosa).
E l'immagine della marea, con la sua ricorsività e omogeneità, può facilmente rappresentare questo genere di produzioni sempre più uguali a se stesse ma ancor più la relazione vigente fra questo secondo "Pirati dei Caraibi" e il predecessore, da cui vengono ripresi gag e spunti, nonché certe somiglianze del pretesto narrativo. Ma se ne
"La maledizione della prima luna" questo era appunto una giustificazione per la labirintica sequela di tradimenti, duelli e ridicolaggini orchestrata da Verbinski, nel film in question finisce per ricevere un'eccessiva considerazione dato il
genere d'opera, sfociando così in una
grandeur narrativa che appare difficilmente motivata, tanto meno ben controllata. E infatti tra
flirt non precisamente giustificati, ricorrenti inseguimenti, agnizioni e resurrezioni (non credo si possa parlare di spoiler data l'età del film) la sceneggiatura di Ted Elliot e Terry Rossio (scrittori fino al quarto capitolo, solo l'ultimo soggettista anche del venturo "La vendetta di Salazar") persegue il modello della molteplice regia, finendo però per limitare la ricchezza di questa e ridurre la sezione narrativa della pellicola ad una sfilza di avvenimenti legati da fili logici sempre più opinabili. Una marea, insomma.
Da ciò si deduce che dove "La maledizione del forziere fantasma" (titolo spassoso, c'è da dire) mostra il suo lato migliore è nelle sequenze di pura azione, durante le quali la mdp di Verbinski può sbizzarrirsi con notevole dinamismo, culminando nella lunghissima sezione prefinale ambientata nell'Isla Cruces, nella quale tra duelli incrociati e corse sulla ruota di un mulino la capacità del regista si sviluppa al meglio. Non si pensi però a questo punto che il sequel de "La maledizione della prima luna" sia una mediocre opera notevolmente inferiore al prototipo e con la sola regia ad alzare ogni tanto l'asticella della qualità. Difatti si tratta di una grande produzione nella media e pertanto può contare sull'eccellente lavoro scenografico (ma la CGI copre la patina retrò del capitolo precedente), sulle sempre efficaci (e piuttosto monotone,
ça va sans dire) composizioni di Hans Zimmer e sugli effetti speciali (davvero ottimi, considerando l'anno) della solita Industrial Light & Magic. D'altro canto, mentre i protagonisti si rivelano sempre più inadeguati (Bloom) o gigioni (Depp, ovviamente), alcune new entries si rivelano soddisfacentemente carismatiche e ben interpretate, come il Davy Jones di Bill Nighy o il Bill Turner di Stellan Skarsgaard.
Girato pressoché contemporaneamente al seguito per lunghi mesi tra 2005 e 2006 il film qui presente soffre anche del fatto di essere poco più che un'introduzione a quello, funzionale alla presentazione dei nuovi comprimari e di un mondo narrativo piuttosto diverso (la troppo ricercata aderenza tra geografie e mitologie totalmente fantasy ed elementi storici perseguita da questa saga è indubbiamente uno dei suoi punti di debolezza maggiori), cui seguiranno i quanto mai confusi sviluppi dell'intricatissimo terzo capitolo, le cui avvisaglie sono presenti già nella poco convincente conclusione di "Dead Man's Chest". Non risulterebbe così balzano supporre che la scrittura bulimica del film sia dovuta alla necessità di riempire il vuoto narrativo attorno al quale quello è stato realizzato. Anche questa è una storia che si ripete.