"Pirates of the Caribbean" è una delle più celebri e apprezzate attrazioni
dark ride (in breve, percorsi su rotaia al coperto) di Disneyland, sviluppata negli anni 60 a partire da un'idea dello stesso Walt Disney, desideroso di dotare il parco di attrazioni più complesse e "mature". Può essere interessante notare che quasi quarant'anni dopo l'inconsueto adattamento in forma di film sia passato per le mani del regista americano contemporaneo che più di ogni altro ha sviluppato i suoi film in una ludica maniera da luna park, con l'inestimabile contributo del produttore di blockbuster fracassoni per antonomasia, Jerry Bruckheimer. Di queste tre matrici "La maledizione della prima luna" rappresenta forse la più felice sintesi possibile.
A differenza dei
sequel dalle trame sempre più (fin troppo) articolate e dalla spettacolarità sempre più digitale, in linea con le moltissime produzioni Disney (comprese le sussidiarie) degli ultimi due decenni, il primo "Pirati dei Caraibi" è una fastosa e divertita opera in costume in cui si mescolano i generi e gli stili più disparati, nonché uno dei prodotti mainstream più influenti del periodo in questione, non solo in virtù dell'enorme successo e della pletora di seguiti e spin off cross-mediali, ma anche del contributo all'affermazione dello standard umoristico e ibrido delle produzioni
action hollywoodiane della contemporaneità.
Ma in realtà "The Curse of the Black Pearl" ha numerose altre motivazioni per distinguersi da tali pellicole e pertanto meritare un ruolo principe fra questo genere di produzioni. Si pensi alla galleria di personaggi memorabili (d'altronde spesso ciò che è più valido in questo genere di produzioni narrativamente instabili), tra cui ovviamente spicca il Jack Sparrow di Johnny Depp, allora distante dall'eccessiva teatralità successiva e anzi realmente ambiguo nella sua presunta follia, ma anche il rivale Barbossa di Geoffry Rush. Oppure la capacità di tratteggiare un mondo narrativo e renderlo concreto mediante un uso fantasioso di scenografie, costumi e location meticolosamente costruiti (o recuperati). O ancora la cornice fantastica perfettamente integrata a quella storica, giustificante così le più inverosimili svolte narrative, di chiara matrice melodrammatica.
Risentendo molto a livello estetico della precedente realizzazione di Verbinski, ovvero il considerevole
remake di "Ringu" di Nakata, "La maledizione della prima luna" colpisce anche per la cupezza e la violenza (ovviamente con ben poco sangue: al riguardo spassosa l'ironia sul ben poco truculento sacrificio necessitato dai pirati), del tutto anomale in una produzione Disney, probabilmente in virtù del contributo del già citato Bruckheimer. Più importante è ciò che permette di equilibrare la dialettica tra questi due poli, perseguenti ambedue un intrattenimento, in modi differenti, tendenzialmente innocuo, ovvero lo stesso regista, abile nel giustapporre i numerosi generi e toni della pellicola senza lasciarne alcuno predominante a lungo (ad eccezione della perenne patina ironica, ma essa è anche extrafilmica) e al contempo irrorare la narrazione di ambiguità e doppiezza, ovvero il tratto che contraddistingue, con modi e motivazioni ben diversi, tutti i personaggi principali della pellicola.
Questi ultimi tratti d'altronde sono comuni a molti film della seconda "età dell'oro" del sottogenere piratesco (indicativamente tra la fine degli anni 50 e la prima metà dei 70), variante fra le più mature e al contempo buffonesche del cinema d'avventura del tempo che fu e cui molti degli stilemi principali vengono esplicitamente ripresi (ad esempio la bulimia delle inverosimile trame), assieme ai più tipici stereotipi del genere (ma anche con rovesciamento: la "spalla" comica diviene vero motore della vicenda e l'apparente protagonista quasi una
proppiana "principessa"). Probabilmente non è neppure eccessivo reputare un modello della pellicola "Pirati" di Polanski, omaggiato nel quartetto di protagonisti e nel danaroso
deus ex machina che è l'oro azteco, oltre alla già citata intricatezza narrativa. Come si è già detto questa verve citazionista (non solo cinematografica, ovviamente) non depotenzia il film ma anzi lo arricchisce di legami con la storia del suo genere e gli permette di essere, oltre che il capostipite di un nuovo modo d'intendere il cinema avventuroso, una discreta
modernizzazione di quello passato, sancendo la vetta di una saga la cui stessa ironia finirà per cannibalizzarne spunti e credibilità (come purtroppo quella attoriale del protagonista).