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recensione di Alessio Cossu
7.0/10

Promoveatur ut amoveatur è una massima latina con la quale si indica la pratica di promuovere a una posizione lavorativa “migliore” soggetti indesiderati o sgraditi ai quadri dirigenti. È un po’ questo il succo di ciò che una sentenza del tribunale ha stabilito accadeva presso lo stabilimento ILVA di Taranto, dove lavoratori che non si piegavano alle imposizioni dall’alto venivano trasferiti nella cosiddetta Palazzina LAF, ovvero la sede di uffici dismessi, e costretti a trascorrere le ore nella totale inattività; come ulteriore beffa, per coloro i quali facevano richiesta di reintegro nella precedente posizione lavorativa, veniva prospettato il demansionamento, ovvero un ruolo che sminuiva le loro competenze.

L’attore pugliese Michele Riondino ha tratto da questa vicenda il suo primo film "Palazzina LAF", presentato al Festival del Cinema di Roma 2023, nella sezione Grand Public. Riondino mette in scena un dramma sulla condizione dei lavoratori, venato di ironia e che trascolora nel grottesco. Nel corso della storia del cinema, alcuni autori, quali Charlie Chaplin ("Tempi Moderni") o Elio Petri ("La classe operaia va in paradiso"), trattando degli aspetti deteriori del lavoro, hanno saputo armonizzare nella loro poetica queste tre corde, mentre altri, quali Ken Loach ("Paul, Mick e gli altri") o Stéphane Brizé ("La legge del mercato") presentano uno sguardo più glaciale e intransigente. Riondino ha definito senza mezzi termini il suo esordio un film “politico, ideologico e di parte”. Rispetto a Loach e Brizé, inoltre, il regista pugliese mette sul tappeto i problemi della salute connessi al degrado ambientale, che esercita il proprio peso nefasto tanto nelle aree industriali quanto in quelle abitative.

Caterino La Manna (interpretato dallo stesso Riondino) è ciò che resta della condizione operaia alle soglie del terzo millennio: una lavoratore totalmente privo della coscienza di classe, cinico e involontario strumento degli interessi padronali. Fiutata la sua dabbenaggine, il suo superiore Basile (Elio Germano) lo destina alla Palazzina LAF col compito di spiare i propri colleghi e riferirgli ogni cosa. Per certi aspetti, il crudo realismo con cui il La Manna viene delineato ricorda i cafoni di Fontamara di siloniana memoria. Il suo stesso cognome (omen!) è un’implicita accusa di ottusità: egli è vittima dell’equivoco per cui si illude di godere di una condizione lavorativa migliore di quella dei colleghi che deve spiare. Un po’ come lo Stracci de "La ricotta" di Pierpaolo Pasolini, la sua sorte è segnata già dal momento in cui compare in scena. A contribuire agli sprazzi d’ironia nel film sono le parole e gli sguardi di Elio Germano, impareggiabile contraltare del protagonista: ambiguo, ammiccante, calcolatore, fantasma che si materializza dal nulla prendendo quasi corpo dalle paure degli operai. A prescindere da chi le recita, anche le battute in dialetto danno una coloritura ironica.

Nel film di Riondino i tempi e gli spazi della narrazione sono decisivi: il senso di noia, frustrazione e alienazione vissuto dagli operai confinati nella palazzina viene reso con sequenze in cui essi appaiono inerti, con lo sguardo fisso nel vuoto, oppure con inquadrature dei loro passatempi, che in ralenti dilatano la percezione del tempo stesso. Non avendo vie di fuga, la palazzina è inoltre uno spazio angusto e disturbante poiché ciascuno raddoppia il proprio senso di noia leggendolo nel volto del dirimpettaio.

L’incipit del film si segnala per un montaggio singolare che intervalla un funerale all’interno di una chiesa ai suoi mosaici recanti immagini sacre e profane; il tutto al suono di una marcia funebre extradiegetica che ritornerà anche in seguito: non si tratta solo delle esequie di un singolo operaio morto sul lavoro, bensì della fine del lavoro concepito come strumento di elevazione sociale. È un inizio che per antitesi costituisce una fine. La morte continua ad aleggiare sugli operai e sulla città per tutto il corso del film, con inquadrature ravvicinate degli operai nelle loro tute annerite, con i campi lunghi e lunghissimi in cui di notte come di giorno le ciminiere non scompaiono dall’orizzonte, con il tossire sempre più frequente di Caterino. Affinchè non passi mai in second’ordine, vengono infatti continuamente sottolineate le malattie o i casi di morti legate all’inquinamento. Particolarmente efficace una scena nella quale il protagonista, assiste attonito e impotente alla fine di una pecora che rantolando stramazza al suolo.


13/07/2024

Cast e credits

cast:
Domenico Fortunato, Vanessa Scalera, Elio Germano, Michele Riondino


regia:
Michele Riondino


titolo originale:
Palazzina LAF


distribuzione:
Bim


durata:
99'


produzione:
Bim, Palomar, Bravo, Paprika Films, Rai Cinema, Ministero della Cultura


sceneggiatura:
Maurizio Braucci, Michele Riondino


fotografia:
Claudio Cofrancesco


scenografie:
Elena Gentile


montaggio:
Julien Panzarasa


costumi:
Francesca Vecchi, Roberta Vecchi


musiche:
Teho Teardo


Trama
Taranto, anni 90. Caterino, operaio dell'ILVA, viene convinto dal suo superiore a trasferirsi presso la Palazzina LAF, con lo specifico compito di spiare i colleghi per evitare le prese di posizione delle teste calde. Il suo doppio gioco non tarderà ad esssere scoperto. 
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