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Intervista a Ken Loach - Speciale La parte degli angeli

Il regista inglese torna sulla polemica del premio rifiutato a Torino e presenta il suo nuovo film, "La parte degli angeli"

ROMA - "Quando eravamo giovani volevamo fare la rivoluzione e uccidere il capitalismo. Non abbiamo fatto la rivoluzione, ma il capitalismo è morto. La crisi del capitalismo è ora. Stiamo facendo a pezzi tutti gli elementi che rendono civile una società. Togliamo il sostegno ai disabili, costringiamo i giovani a stare a casa con i genitori senza speranza di lavoro e di una casa, affolliamo gli ospedali e abbassiamo la qualità dei servizi, non possediamo più nulla e gli standard della vita civile sono distrutti. Abbiamo bisogno di un nuovo motore, mai come ora".

Eccolo il grido del combattente Ken Loach, che traduce quella denuncia in racconto comico e tragico perché, come dice, "la commedia è tragedia col lieto fine". Cornice una periferia grigia e identica a se stessa, povertà a fior di pelle e futuro zero. Siamo nella Glasgow di oggi, dominata dalla delinquenza, sporcata dalla violenza. Siamo ne "La parte degli angeli" (dal 13 dicembre nei cinema), tra lavoratori e whisky a "giocare sulla contraddizione tra una bevanda nazionale scozzese che costa troppo e i giovani che bevono altro perché non possono permettersela, tra la durezza della vita dei lavoratori e degli abitanti di Glasgow e il linguaggio pretenzioso  e sofisticato degli estimatori di whisky, mischiando tragicità e umorismo" . E con un protagonista che una seconda possibilità l'avrà, anche se Loach sa bene di che lacrime gronda e di che sangue questa battaglia per la sopravvivenza.
Lo sa a tal punto da aver rifiutato l' importante Premio Gran Torino all'appena concluso TorinoFilmFest in nome dei lavoratori sfruttati e oggi replica: "È stato triste quando uno dei direttori del Museo ha detto che ero un megalomane. Mi dispiace non tanto degli insulti ma che abbiano detto che non volevo incontrare i lavoratori, anche perché oggi sarò da loro a Torino. Io ci sarei andato al Festival, ma solo per presentare il film. Però non hanno voluto. Il punto non è che io vada o non vada a un festival, il punto è che c'è gente che perde il lavoro, gente che ha un salario da fame, gente cui non viene permessa una rappresentanza sindacale".

Grande Loach, senza paura. Loach che non vede l'ora di incontrare i lavoratori di Torino che hanno perso il posto di lavoro, e tutti coloro che hanno a cuore i problemi dei subappalti e bassi salari nella cornice della mobilitazione dell'Usb, che sostiene la protesta contro la politica di esternalizzazione e contro appalti assegnati sempre più al ribasso, con cadute dirette in termini di sfruttamento e di bassi salari per i lavoratori: "Non oggi, ma già in agosto ne parlavo con i responsabili del Museo del Cinema, lo hanno riconosciuto, mi hanno scritto una mail dicendo che erano consapevoli di questi problemi e che condividevano le mie preoccupazioni. Mi dicevano anche che avrebbero fatto di tutto per risolvere i problemi con questi lavoratori. Ma nulla si è risolto e il punto è che secondo me il datore di lavoro ha responsabilità nei confronti dei lavoratori, anche esternalizzati, mentre per il direttore del Museo del Cinema il datore di lavoro non può essere ritenuto responsabile per il comportamento di terzi e non può intervenire. Ora, non voglio dire che il Museo sia come una grande azienda ma, se accettiamo questo principio, qualsiasi grande azienda può scaricarsi la responsabilità dei lavoratori esternalizzati".

Ma ne vede, oggi, Loach di cinema davvero impegnato? "Anche oggi ci sono molti interessati al cinema sociale, ma tutto è diverso rispetto agli anni Sessanta e Settanta. Oggi tutti dicono che il cinema dipende dal mercato e da nient'altro, e così loro trasformano le loro idee, anche inconsciamente, per renderle più appetibili, ma ciò non significa che non sono impegnati. Si adeguano. Il problema di solito non riguarda i cineasti, ma chi li finanzia, il fermento c'è anche nella società e non solo nel cinema, ma chi finanzia non è interessato a far sapere cosa succede nel mondo".
E cosa succede nel mondo? "Succede che più il capitalismo si sviluppa, più la disoccupazione aumenta, perché le grandi multinazionali hanno bisogno della disoccupazione di massa per tenere basso il costo del lavoro, è una caratterizzazione del capitalismo e come sinistra bisogna trovare qualcosa che ci permetta di combattere l'idea che il mercato sia l'unica strada percorribile". Il centrosinistra? "Non credo che esista qualcosa del genere... Puoi essere a favore dell'economia di mercato e della deregulation, e in questo caso sei a destra... l'alternativa è essere a favore di un'economia pianificata, ed è che in quel caso che sei a sinistra... bisogna ricordare a quelli che stanno al centro che di solito quando siete al centro della strada vi investono".
E l'Unione Europea che cosa è secondo Loach? "Un'organizzazione neoliberista, in Grecia si sta svendendo quello che c'è e il rapporto tra le multinazionali e i politici che parlano con loro è proprio quello che dobbiamo riuscire a infrangere. Eppure anche in Inghilterra c'è un centrosinistra che ripete che si deve procedere con le misure di austerità, ma lentamente. Ma, io dico, se bisogna essere strangolati, cosa aiuta farlo lentamente?".

Il momento più difficile nella sua vita di cineasta? "Il periodo più difficile è stato negli Ottanta, quando è arrivata la Thatcher. Ciò che è accaduto nel nostro paese era talmente estremo che io non sapevo neppure rispondere dal punto di vista cinematografico, in pochi mesi si è passati da 500mila a 3milioni di disoccupati, le fabbriche chiudevano, i sindacati facevano battaglie che non potevano vincere e la situazione era incontrollabile. Eravamo in mezzo a una tempesta, e in quel periodo perciò ho cercato di fare solo documentari. Ne ho fatti circa sei attraverso società televisive, uno è stato rifiutato, quattro banditi del tutto, dunque mi son fatto la reputazione cattiva di qualcuno che faceva dei film che nessuno voleva trasmettere. Qualcuno mi ha detto che non sapevo neppure dirigere il traffico. Allora sono tornato a teatro con una piéce che criticava il sionismo, ma una settimana prima che andasse scena, il direttore di uno dei teatri centrali di Londra diede il testo a uno dei rappresentanti sionisti, successe di tutti sui media e anche il teatro più progressista di Londra non mi fece andare in scena .Questo è stato il periodo più difficile per me, i tremendi anni Ottanta".
Le è mai venuta voglia di venire qui in Italia a vedere che cosa succede ai lavoratori? "In realtà ci sono cose incredibili che avvengono ai lavoratori in ogni paese, ma io non so se sarei in grado di raccontarle. Nel mio paese capisco nelle sottigliezze ciò di cui parlo, ma qui i Italia non le comprenderei. Credo che in Italia ci siano buoni registi e sceneggiatori che potrebbero farlo". Ma ci resta il dubbio: chi può farlo come il grande Ken?





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