Lee Myung-se è stato un nome di raccordo tra i registi della Korean New Wave e gli autori che hanno contribuito alla popolarizzazione del cinema sudcoreano tra gli ultimi anni 90 e i primi anni 2000, diventando protagonisti del cosiddetto New Korean Cinema. "Nowhere to Hide", il suo settimo lungometraggio, è un poliziesco d'azione del 1999, grande successo in patria e distribuito in Italia nel 2001 dalla Mikado Film. Il 26esimo Far East Film Festival ha permesso ora di rivederlo sul grande schermo all'interno di una mini-retrospettiva dedicata a Lee, conclusa da una masterclass tenuta dal regista.
Il lavoro di Lee Myung-se è un interessante punto di osservazione per comprendere il livello della cinematografia sud-coreana alla fine degli anni Novanta, quando per la cinefilia e alcuni festival iniziava a essere la "next big thing". In quel giro di anni l'handover e l'inizio dell'assimilazione cinese rendeva pericolante la situazione dell'industria di Hong Kong, mentre autori come Kim Ki-duk, Lee Chang-dong, Hong Sang-soo diventano presenze fisse nei circuiti dei grandi festival europei e, a distanza di un paio d'anni l'uno dall'altro, emergono Kim Ji-woon, Park Chan-wook e Bong Joon-ho.
"Nowhere to Hide" è un film che offre una sintomatologia di meriti e vizi del cinema di genere di fine secolo, un crocevia di influenze che Lee Myung-se padroneggia e frulla con la creatività del pasticheur che si diletta nello sperimentare soluzioni espressive riproponendo cliché accostati e rimescolati in modo inedito. La trama è poco più di un canovaccio in cui un poliziotto esperto e rissoso e uno più giovane e freddo indagano, insieme alla squadra omicidi, su un assassinio compiuto sulla scalinata dei 40 gradini a Busan. Il killer è un uomo misterioso e invisibile, abile nei travestimenti e apparentemente impossibile da catturare. Woo, con le sue maniere da bullo di periferia, la camminata a gambe aperte e spalle incassate, è un punto di riferimento per molti poliziotti duri e puri del cinema coreano, come dimostra il grande successo della serie dedicata al detective Ma Seok-do (in cui l'interprete guarda molto anche a Bud Spencer). L'assassino misterioso è invece nel look e nei modi esemplato sugli yakuza giapponesi e sui gangster di Hong Kong degli anni 90: violento, glaciale ma con un sottofondo sentimentale a incrinarne la corazza.
L'incipit di "Nowhere to Hide" è una ouverture di cinque minuti girata in bianco e nero che presenta Woo e la squadra omicidi. Il montaggio è dopato da un gioco di ralenti e accelerazioni del framing, movimenti dei personaggi e movimenti di macchina che insieme allo zoom allargano e restringono l'immagine frantumando la dimensione spaziale secondo un metodo costruttivista che discende dall'action hongkonghese. L'incipit è un prologo che definisce la cornice stilistica entro cui si muoverà Lee, in bilico tra un serio neo-noir e la parodia fumettistica, coerentemente inserito nell'estetica e nell'ideologia postmoderna che negli anni 90 rappresentava una grammatica universale. È un saggio di virtuosismo che prosegue con la prima sequenza posta dopo il titolo, ossia la scena dell'omicidio anch'essa lavorata su ralenti e step-printing in cui il fermo-immagine enfatizza l'azione e stilizza la violenza: una lama che cala, un giornale tagliato, un rivolo di sangue che cola.
Lee Myung-se illustra una galleria composta da quadri di violenza e umorismo rimescolati in un cocktail ipersaturo che a tratti ristagna su inevitabili impasse creative. È infatti una prova a elevato coefficiente di difficoltà individuare ogni volta un espediente formale diverso, come trasformare il placcaggio di un sospetto in un gioco di ombre, imprimendo alla narrazione differenti tonalità e l'esito può apparire a tratti esausto, costringendosi a parentesi più quiete e sentimentali. Tuttavia, quello del regista risulta essere un consapevole esperimento fondato sulle possibilità di un linguaggio plastico in cui l'immagine precede ed esautora la parola completando la significazione dello storytelling. È un'esplorazione dell'immagine-movimento che viene intesa non solo come dinamismo della macchina da presa, ma anche dei corpi attoriali che agiscono lo spazio scenico, che si battono, si colpiscono, corrono in auto, s'inseguono per strada: mobilità amplificata dal montaggio che saggia i riverberi delle analogie di figure e colori. Lee ricostruisce in poco più di 100 minuti una tassonomia del poliziesco d'azione di cui mette in scena luoghi e luoghi comuni, gesti e gesta. La bulimia di forme può rammentare i film del contemporaneo Takashi Miike (dalla seria "Shinjuku Triad Trilogy" ai fumettistici "Fudoh: the New Generation" e "Dead or Alive", il cui incipit ha diverse assonanze con quello di "Nowhere to Hide"), mostrando come l'arte di Lee si inserisse in un discorso formalista transazionale che avrebbe reso in poco tempo la Corea del Sud una delle cinematografie più stimolanti di inizio millennio.
cast:
Park Joong-hoon, Ahn Sung-ki, Jang Dong-gun, Choi Ji-woo
regia:
Lee Myung-se
titolo originale:
Injeong sajeong bol geot eobtda
distribuzione:
Mikado Film
durata:
110'
produzione:
Taewon Entertainmente, Cinema Service, Fox Video Korea, Koomin Venture Capital
sceneggiatura:
Lee Myung-se
fotografia:
Jeong Kwang-seok, Song Haeng-ki
montaggio:
Ko Im-pyo
musiche:
Jo Sung-woo